Una utility strategica, condivisa tra nemici. Mai un blackout, nonostante due guerre. È la centrale elettrica sul fiume Inguri: metà georgiana, metà abkhaza, oggi fornisce energia anche alla città russa di Sochi. Un caso limite di cooperazione transfrontaliera, studiato anche al Mit di Boston
Mai nessun black out significativo, nemmeno durante i conflitti che hanno insanguinato la regione. E’ un monumento alla realpolitik la centrale idroelettrica sul fiume Inguri, in comune tra Georgia e Abkhazia.
E’ l’unico luogo risparmiato dal conflitto di agosto 2008 tra le due parti, come pure dalla guerra scoppiata all’inizio degli anni ’90.
Finora l’energia che assicura ad entrambe le sponde dell’Inguri è stata sempre più importante delle armi, per la Georgia (che dipende dalla centrale per il 40% dei consumi nazionali), per la repubblica autoproclamata dell’Abkhazia, ma anche per la confinante Russia. Mai nessuna ipotesi non solo di sabotaggio o di attacco, ma nemmeno di spartizione tra nemici l’ha toccata.
E tutto segnala che non lo sarà neppure nel prossimo futuro, nonostante non si plachi la tensione tra le parti.
Un caso limite di cooperazione transfrontaliera
La realtà di quest’asset strategico condiviso tra nemici è talmente eclatante da aver attirato l’attenzione degli analisti del MIT di Boston, in particolare di due studiosi delle realtà transfrontaliere, quale “esempio limite di cooperazione a prova di conflitto”.
“La parte georgiana non può funzionare senza quella abkhaza, e la centrale diventa totalmente inservibile se entrambe le sezioni non lavorano insieme” hanno spiegato Joachim Blatter ed Helen Ingram nel saggio “Reflections on Water” (edito da Mit Press) nella parte dedicata a quest’unicum caucasico della guerra (mancata) dell’acqua e dell’energia.
“In nessun caso la centrale va coinvolta. E questo ne fa un esempio unico, un’oasi di cooperazione obbligata, governata da una logica di ferro” secondo gli analisti dell’università bostoniana.
Il complesso idroelettrico più grande dell’ex Urss
Il fiume Inguri segna il confine abkhazo-georgiano.
Il complesso idroelettrico su questa via d’acqua con la sua diga è per superficie il più grande dell’ex Unione Sovietica. Il fiume scorre tra stretti canyons per 221 chilometri e con un dislivello di 2.600 metri, “in un paesaggio tecnicamente perfetto per la diga – commentano Blatter e Ingram - per il volume d’acqua e la forte pendenza, che sono entrambi un fattore critico per generare energia idroelettrica”.
Il complesso occupa entrambe le sponde, georgiana e abkhaza, dell’Inguri e disegna l’arco di diga più grande del mondo: il bacino idrico è in territorio georgiano e le 5 centrali interconnesse in territorio abkhazo.
Può arrivare ad una capacità di 1.3 milioni di chilowatt/ora, ma oggi ne produce tra 200 e 600 mila per le numerose riparazioni e i fondi troppo bassi per la manutenzione.
Dal livello più alto della diga principale, in territorio georgiano, l’acqua è convogliata in un ampio canale che corre per 15 chilometri in territorio abkhazo, con 12 km su 15 sul lato georgiano dell’Inguri.
Anche fondi italiani in un’opera chiave per il Caucaso
I lavori, avviati nel 1961 e terminati nel 1987, trasformarono il cantiere in una città, con migranti provenienti da tutta la Georgia, attirati dalle paghe relativamente alte.
Fin d’allora generò una forte economia informale, dando impulso ai traffici di lavoratori, materiali da costruzione e alimentari, nelle regioni a cavallo del confine de facto di Zugdidi e di Gali.
E’ tuttora una struttura chiave della rete energetica nel Caucaso del sud, e in età sovietica la sua produzione era richiesta fino in Kazakhistan.
La patologia fondamentale
della diga sull'Inguri
è la cronica mancanza di fondi
per la manutenzione.
Che oggi continuano ad arrivare da Ovest.
Ricevette non a caso anche fondi internazionali, tra cui contributi italiani nella successiva fase di manutenzione, con un cofinanziamento del ministero delle Attività produttive.
Obiettivo: "investigazione e monitoraggio di dighe e bacini idroelettrici in Georgia–CIS nel 2001-2002" che prevedeva anche il training di personale e trasferimento di tecnologia.
Ma fu anche un probabile crocevia di corruzione e mezzo di storno dei fondi dall’estero: sempre attorno al 2002 un altro ente collaboratore, come la canadese Hydro Quebec, trovò “la diga assolutamente in rovina”, nonostante nel 1999 la Commissione Europea avesse assegnato alla Georgia 9.4 milioni di dollari per ‘riparazioni urgenti’ alla diga, nell’ambito di un prestito complessivo di 116 milioni di dollari garantito da Bers (Banca europea ricostruzione e sviluppo), Ue e dal governo giapponese.
Le denunce degli abitanti, "territorio compromesso"
La patologia fondamentale della diga sull'Inguri è la cronica mancanza di fondi per la manutenzione. Che oggi continuano ad arrivare da Ovest.
Nell'ultimo biennio tre unità su cinque sono state ristrutturate con un credito di 10 milioni di euro proveniente ancora da Bers, Commissione europea e Usaid.
La situazione non è facile neppure per le popolazioni del bacino idroelettrico. Abitanti di parecchi villaggi lungo l'Inguri nella regione della Tsalendjikha da anni fanno i conti con l'impatto del mastodonte energetico sull'habitat delle loro vallate.
E anche gli allarmi più gravi, per frane e allagamenti, restano inascoltati, ufficialmente per mancanza di fondi. Tuttavia i villaggi si sono appellati per costituire una commissione governativa ad hoc che indaghi sulle conseguenze pesanti a cui va incontro il territorio.
Un management congiunto georgiano-abkhazo
Oggi, anche all’indomani dell’autoproclamazione della repubblica dell’Abkhazia, dopo la guerra di agosto 2008, per il suo funzionamento c’è un management congiunto, con molteplici livelli di cooperazione, tra i due governi, tra i managers delle rispettive agenzie energetiche, e tra gli addetti.
Ovviamente non sono d’accordo sul valore della proprietà e ognuna se ne attribuisce il 60% rispetto al 40 della controparte, ma questo contenzioso per ora resta sulla carta.
La quotidianità è fatta invece di telefonate continue e viaggi mensili del management dall’altra parte, per discutere e chiarire di persona le questioni più complesse.
In passato non mancavano anche cene periodiche fisse, a base di vino, vodka e cognac, per smorzare i contenziosi e oliare le relazioni, attestate dai due autori del MIT, mai avari di dettagli ai fini della ricerca sul funzionamento della cooperazione tra le parti.
“Fino alla fine degli anni ’90 era sempre presente un comandante russo delle forze Csi, che ha continuato a partecipare anche ai meeting coordinati dall’Onu”, spiegano.
“E’ una cooperazione unica, direttamente tra professionisti delle due parti, senza mediatori né ong” affermano gli analisti del Mit.
Un modello di relationship building che fece incontrare più volte, al telefono e di persona, anche i rispettivi ex-presidenti Ardzinba e Shevardnadze.
Difficile pensare che i loro successori - nonostante l'inasprirsi ulteriore dei rapporti - abbiano azzerato i contatti su una materia così essenziale.
La centrale caucasica illumina la russa Sochi
“Il complesso è semplicemente troppo vitale per ciascuna parte per andare perso – spiega l’analisi del Mit. Ognuno teme gli effetti della mancanza di cooperazione, il che vorrebbe dire tagliare l’energia o impedire il flusso dell’acqua”.
L’asset è al centro di un equilibrio delicato, “per entrambi sarebbe suicida attaccare la diga in caso di guerra e il taglio dell’elettricità getterebbe indietro i due Paesi nel XIX secolo”.
E il complesso non è meno importante per i russi, secondo Blatter e Ingram, “innanzitutto come mediatori. Ma poi perché la centrale rifornisce anche Sochi”, la capitale dei Giochi olimpici invernali 2014. E in questa veste soprattutto candidata a diventare uno dei simboli del regno di Putin e del ritorno in scena della Russia come potenza mondiale emergente, a vent'anni dal crollo dell'Urss.