Scrive in italiano, ambienta i suoi romanzi in Albania e pur vivendo da vent'anni in Italia non si sente una voce della diaspora. Un’intervista all’autrice de “Il tuo nome è una promessa”, romanzo vincitore dell’edizione 2017 del “Premio Rapallo”
Anilda Ibrahimi, classe 1972, nasce a Valona e cresce in Albania, ma dal 1997 vive e lavora a Roma. Quattro i suoi romanzi usciti per Einaudi - Rosso come una sposa (2008), L’amore e gli stracci del tempo (2009), Non c’è dolcezza (2012), Il tuo nome è una promessa (2017) – il cui ultimo vincitore del Premio Rapallo Carige, competizione che dal 1985 valorizza l’attività letteraria femminile. Quattro romanzi ma sullo sfondo un’ambientazione sola: l’Albania, o a voler andar lontani il Kosovo. Eppure Ibrahimi in albanese non ha mai scritto, né i suoi romanzi sono mai stati tradotti al di là del mare. Una scelta che suona quasi controcorrente, in un momento in cui qualsiasi attività degli albanesi nel mondo viene appiattita sulla bandiera dell’Albania paese. Con l’autrice abbiamo parlato proprio di questo fenomeno.
Andiamo subito al punto: distanza e identità. A volte la distanza affievolisce l’identità, perché chi la sperimenta si immerge in nuove culture e linguaggi; ma può anche accadere che la distanza la cementi. Nei suoi libri l’Italia fornisce la lingua e quasi sempre l’Albania l’ambientazione. È difficile immaginare che sarebbe accaduto lo stesso, se lei non avesse mai lasciato il suo paese…
Credo che parlare di identità nel postmoderno non abbia molto senso, siamo in un’epoca in cui le nostre identità si contaminano, giorno dopo giorno sono in movimento. Detto da me può suonare paradossale, visto che nei miei romanzi ripercorro l’identità della donna balcanica nel Novecento, da una cultura patriarcale e “islamizzata” fino al comunismo. Se riesco a fare questo è perché la ricostruzione dei miei ricordi e delle mie impressioni è avvenuta altrove, in un luogo neutro, forte di una distanza molto netta, sia geografica che linguistica. Sono dunque d’accordo con la conclusione implicita nella sua domanda: la distanza mi ha consentito non solo di imparare la lingua con cui scrivo ma di lavorare letterariamente sul mio paese d’origine. Più che definirla “italiana” o “albanese” io penso alla mia identità come a qualcosa in divenire.
La definizione di “scrittrice albanese” le sta stretta o descrive qualcosa di lei?
È una gran bella domanda, ho quasi paura a rispondere perché su questo tema è molto facile non essere compresi e lasciare spazio a interpretazioni malevole. Partiamo dalle certezze: non ho mai scritto un romanzo in albanese e non credo che lo farò. Per alcuni dire questo significa essere una persona che vuole prendere le distanze dal proprio passato; a me questo punto di vista sembra provinciale. Per come la vedo io, se non scrivo in albanese significa che non sono una scrittrice albanese. Io sono e rimarrò sempre albanese, ma la scrittrice non lo è mai stata. Al contempo, è vero che non sono nemmeno una scrittrice italiana, perché comunque sono approdata alla letteratura italiana che ero già adulta. Forse la cosa più corretta da dire è che sono una scrittrice italofona. L’Italia ha una certa resistenza a questa definizione, credo che sia perché ha difficoltà nell’affrontare la sua storia coloniale. Per gli scrittori della francofonia non è la stessa cosa. Per l’Italia l’italofonia è quasi un tasto dolente.
Prima che accendessimo il microfono, mi ha detto che una scrittrice non ha troppa voglia di rilasciare interviste, perché a parlare sono le sue opere. Le faccio dunque una domanda fuori dai suoi libri, sull’attualità dei rapporti italo-albanesi: come si sente di fronte all’immagine dell’Albania oggi vigente in Italia?
Credo stia succedendo il logico, anche se non mi fa piacere. Da qualche anno ci sono una serie di giornalisti che dedicano diverse trasmissioni all’Albania. L’albanese degli anni Novanta era il male, un pericolo che veniva da fuori. Durante il passaggio dal comunismo al consumismo questo per gli albanesi fu un’ulteriore difficoltà. Adesso c’è il processo inverso, la riabilitazione. Si parla molto degli scrittori, dei cantanti che vincono San Remo, che peraltro è la cosa più italiana che ci sia. Abbiamo distrutto per poi dire che esistono anche i buoni; un processo che ho trovato devastante per chi si è trovato in mezzo e diversamente da me non aveva i mezzi. Bisogna ricordare che prima di questa “riabilitazione” ha vissuto una generazione intera: vent’anni di storia che non sono pochi, gli albanesi hanno dovuto giustificare il loro essere albanesi tutti i giorni. A me personalmente non ha riguardato, io ero già una scrittrice ed ero forte, avevo tutti gli strumenti per andare avanti, ma per altri è stata molto dura, non va dimenticato.
Anche lei, come Ermal Meta, può essere considerata “un’albanese di successo”. L’hanno mai rappresentata così in Albania? E se sì come la fa sentire?
Capisco che ognuno debba portare l’acqua al suo mulino, e così anche lo Stato albanese. Io dalle effimere luci del successo sono rimasta fuori per tanti motivi, a cominciare dal fatto che la letteratura è testo, non arriva immediatamente al pubblico, non è visibile agli occhi. “Avere” un cantante famoso invece fa gioco. Ricordo volentieri che dietro Ermal Meta ci sono migliaia di ragazzi albanesi che hanno sognato di cantare, e che nessuno conosce. Non c’è per forza un merito nell’essere o non essere famosi, e certamente non c’è un merito nell’essere o non essere albanesi.
Adesso è molto facile parlare di “albanesi di successo”, ma come ho detto c’è stato un processo di integrazione molto duro dietro le quinte. Per vent’anni la rappresentanza albanese in Italia è stata assente, quella albanese è stata una comunità orfana, senza difese. La diaspora ha fatto da sola tutto il lavoro, poi quando la comunità diventa una forza nel paese d’arrivo, ecco che non puoi più chiudere gli occhi, anzi riscopri i tuoi connazionali. Io sono residente fissa dal ‘97, ho seguito tutto il processo, posso testimoniarlo: siamo stati un popolo orfano. Soprattutto perché uscivamo dal comunismo in cui c’era “il Padre”, una serie di strutture, e siamo arrivati in un luogo senza nulla, con sconosciuti che ci davano dei “criminali”, noi donne albanesi eravamo tutte “prostitute”. Si sa che la Storia è ciclica, il Novecento che tormenta la mia fantasia letteraria è ciclico. Oggi dall’Albania dicono “ci siamo”, ma così è molto facile.
Parole molto forti. Pronunciate da una voce della diaspora albanese in Italia? Almeno così possiamo definirla?
Mah, se stiamo ai miei libri, credo che il mio pubblico sia prevalentemente italiano. Persone di cultura medio-alta, curiosi che hanno studiato quel Novecento in cui io ambiento le mie storie. Negli anni in cui diventavo scrittrice, il pubblico albanese era impegnato nel costruire un benessere materiale per i figli, la lettura è un processo molto solitario e individuale, è un nutrimento fondamentale per l’anima, ma in un certo senso è un lusso. No, non mi sento e non credo di essere una voce della diaspora. Di certo la mia letteratura non svolge quella funzione.