In Albania - © Giuma/Shutterstock

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Due mondi opposti e contrapposti, l'Albania di fine regime e il centro di una grande e ricca città europea come Milano. Col suo "Le favole del comunismo" Anita Likmeta racconta in forma romanzata e autobiografica l'esperienza di un'intera generazione. Una recensione

19/08/2024 -  Diego Zandel

L’albanese Anita Likmeta, arrivata all’età di undici anni in Italia - dove avrebbe studiato fino a laurearsi in lettere e filosofia - è oggi una imprenditrice di successo nel campo dell’informatica. E adesso, con la pubblicazione presso Marsilio editore del suo primo romanzo “Le favole del comunismo”, con il quale ha, per altro, vinto il Premio Internazionale Viareggio-Versilia , è anche una scrittrice. Ci sono nel suo libro, molti elementi autobiografici, con una bambina di nome Ari al posto di quello di Anita, ma d’altra parte non poteva essere altrimenti: il mondo che si porta dietro e dentro le è talmente incistato da poterlo estirpare solo raccontandolo. Ci vorranno molti anni prima che la sua ispirazione trovi un soggetto diverso.

D’altra parte, mettetevi nei panni di una giovane donna oggi libera di pensare e dire ciò che vuole, benestante, che può comprarsi i vestiti e le scarpe che desidera, consumare acqua e saponi profumati a iosa per lavarsi, vivere in un appartamento grande e lussuoso nel centro di Milano e così via, e confrontare tutto ciò con il suo passato, con una realtà completamente diversa, anzi opposta, dalla quale proviene. Anita Likmeta, nel suo romanzo ha raccontato tutto questo.

Ed ecco, dunque, che vediamo Ari, ancora bambina, nascere e crescere nell’Albania, che l’autrice, ironizzando sulle parole di propaganda del dittatore Enver Hoxha, chiama “il paese più felice del mondo”. 

La bambina vive in un villaggio di campagna vicino a Durazzo con i nonni, perché la mamma è emigrata in Italia per poterli mantenere. È povera, come del resto quasi tutti nel suo villaggio, e non solo, da camminare scalza per evitare di rovinare l’unico paio di scarpe che lo Stato le passa, da dormire su un materasso imbottito di fieno “che a ogni nuova stagione viene cambiato” e un cuscino di stoffa ormai duro come la pietra, per non parlare dell’acqua, che non scorre dai rubinetti, ma deve andare a prendere alla fonte dove c’è sempre la fila.

La vediamo, poi, avviarsi al primo giorno di scuola elementare e scoprire di non essere iscritta perché i nonni, a stare dietro gli affanni quotidiani, si sono dimenticati di iscriverla, motivo sufficiente, nel "paese più felice del mondo" per essere presa in giro, con le malelingue che le rinfacciano di avere una madre assente, perché emigrata in Italia, dove l’accusano di fare la puttana, cosa che non è.

In filigrana poi scorre la vita politica del Paese, con un nuovo leader che, morto Enver Hoxha, ne ha preso il posto, e per ben descrivere questo Paese nella sua più intima realtà, scorrono, in sparsi capitoli e in forma di caustica parabola, alcune favole che rappresentano l’intima realtà della vita in quella terra.

Sono, appunto, le favole del comunismo del titolo, la rappresentazione di un mondo che vive nella paura, nella delazione, nell’invidia del poco più che ha il vicino e che coltiva la piaggeria, l’ipocrisia e la violenza, col rischio di un isolamento dai rapporti sociali sempre dietro l’angolo. Alla faccia del Paese più felice del mondo proclamato dalla propaganda di regime.

Finché non crolla il Muro di Berlino e, allora, come in tutti i paesi comunisti dell’est, a cominciare dalla capofila, l’Unione Sovietica, capita che a prendere sfogo è quell’ansia di libertà, tanto desiderata quanto repressa per decenni, da dare il via a un comprensibile, ma nello stesso tempo, malinteso senso di libertà che, in questo caso, diventa illiceità, violenza, arbitrio, fino allora prerogativa esclusiva del regime.

Non è forse a tutto ciò che sono stati, per anni, educati? Non è forse solo quello a cui sono stati sottoposti? E sarà in questi frangenti che la protagonista Ari, undicenne, nel 1997 abbandonerà, come tanti altri e per sempre il Paese delle aquile, attraversato da una violenza e resa dei conti senza pari con circa duemila morti ammazzati.

Infatti, come altrove nell’est comunista ha preso il via l’arraffamento criminale delle risorse, testimonianza palese della scarsa cultura della responsabilità che la libertà, a cui non erano stati esercitati, comporta, per essere sempre stato tutto e per tutti deciso da qualcuno altro: il mitico Stato/Partito come religione e i vari dittatori, da Enver Hoxha a Stalin e successori, da Tito a Živkov a Ceaușescu e compagni che, quali Dio in terra, avevano ridotto il popolo alla cieca obbedienza dei dogmi, privandoli della facoltà di pensare con la propria testa, con il proprio metro di giudizio, - anzi era vietato e penalmente perseguito -  con un senso di responsabilità nei confronti dell’altro che non poteva andar oltre le disposizioni dello Stato/partito.

La presenza ossessiva di quest’ultimo, che sembrava dare e, invece, toglieva tutto, era tale da annullare l’essenza stessa dell’individuo come persona, sostituito dal “popolo”, astrattamente eletto a entità epica, tanto che, morti i dittatori e caduti i loro regimi, ha preso il via quel devastante e selvaggio “tana libera per tutti” che ha trascinato i diversi paesi alla violenza: dagli omicidi gratuiti che abbiamo detto in Albania alla guerra fratricida in Jugoslavia e, in tutti, a cominciare dall’Unione Sovietica, alla nascita di un capitalismo, inteso così come la propaganda di regime lo aveva sempre presentato.

Cioè, come rapina e legge del più forte, tanto da favorire, non a caso i vecchi oligarchi del partito e dei servizi segreti (Putin in Russia è il classico esempio), dando così corpo a stati apparentemente nuovi che, sì, non sono più comunisti ma che, strutturalmente, hanno mantenuto in piedi l’autoritarismo di chi ha in mano il manico del potere.

La speranza è che, col tempo, l’affermarsi di una vera economia di mercato e non solo nominale finisca col prendere il sopravvento anche in quei paesi, insieme alla crescita di istituzioni pienamente democratiche, garanti delle libertà di tutti i cittadini, aliene da ogni forma di invadente dirigismo.

Donne come Anita Likmeta, con la loro testimonianza e i loro libri, possono fare molto, anche per questa Europa, che tante volte, con una regolamentazione troppo spinta e invasiva, dimentica – per un presunto fare il “bene di tutti” - i principi liberali fondanti dell’Occidente nato in netta contrapposizione ai totalitarismi fascisti e comunisti del Novecento.