Un intellettuale 'contro' come Fatos Lubonja ha riletto in chiave albanese l'appello di Roberto Saviano all'Onu per salvare l'Italia da se stessa. Anche il Paese delle aquile non reagisce più a corruzione e ingiustizia. E impedisce ai suoi cittadini la felicità e la vita
Commento pubblicato sul quotidiano "Korrieri ", 31 marzo 2010, (tit. orig. Vdekja e shoqërisë)
Traduzione per Osservatorio Balcani e Caucaso: Lucia Pantella
“In una società niente è più disperante del dubbio che vivere onestamente sia inutile. E questa disperazione avvolge il mio paese da molto tempo”. E’ firmata dallo scrittore Corrado Alvaro, e risale agli ultimi anni della sua vita, questa riflessione citata da Roberto Saviano in un articolo apparso di recente sul quotidiano La Repubblica.
Leggendola, il confronto con la realtà albanese mi è sembrato obbligato, perché in essa un sentimento di perdita di speranza si va diffondendo in massa come un’epidemia. Aggiungerei una valutazione ulteriore: in Albania non si può parlare del dubbio che “vivere onestamente sia inutile”, ma della convinzione che farlo è impossibile. Ed è una grande differenza.
Non lo dico per semplice esercizio di retorica. Basta prendere ad esempio gli stipendi “legali” di quella categoria che in ogni Paese è considerata la componente intellettuale e colonna portante della società -funzionari della pubblica amministrazione, insegnanti, docenti universitari, giudici, procuratori, medici- mettendoli a confronto con le spese quotidiane.
E quando parlo di spese che una famiglia deve sostenere -intendo un nucleo familiare di quattro membri, con due adulti e due bambini- mi riferisco al cibo, le utenze, l'abbigliamento, le rate dell’auto, la benzina, i caffè al bar, qualche cena fuori, le vacanze o i fine settimana fuori città, il mutuo della casa, per non parlare delle spese sanitarie (come il lettore avrà osservato, non ho aggiunto la voce “spese culturali”).
Se qualcuno mi dicesse che tutto questo può essere pagato con un mensile compreso tra 250 e 450 euro (la media delle retribuzioni della categoria sopra menzionata), allora chiederei scusa. Ma perfino nelle rare famiglie con due stipendi, i conti non tornerebbero.
Per questo, a mio avviso, sentiamo continuamente di amministratori che prendono tangenti, pubblici ministeri che si arricchiscono collaborando con il crimine e i criminali, professori che fanno passare gli esami agli studenti dietro lauti compensi, medici che chiedono mazzette, giornalisti che salvaguardano l’interesse dei padroni anziché quello pubblico. (Sono convinto che in queste categorie non siano tutti uguali e che esista anche chi vive nelle privazioni per restare onesto ma, in un modo o nell’altro, il contesto in cui uno di questi professionisti sopravvive è avvelenato dalla disonestà).
Saliamo ora lungo la scala sociale, fino ai leaders, ai dirigenti, soprattutto ai politici di alto livello. Ogni albanese è al corrente del loro tenore di vita, ma pochi sanno come siano riusciti ad arrivarci e a mantenerlo con stipendi che, anche se superiori a quelli comuni, non raggiungono comunque quello di un lavoratore medio in Occidente. E questo alla prova dei prezzi attuali in Albania, che seppure non paragonabili a quelli europei, specie per i servizi di base -dalla telefonia mobile, all’elettricità, dal riscaldamento ad alcuni generi alimentari- sono particolarmente alti.
Com’è possibile che costoro possiedano ville e proprietà milionarie, e affrontino spese che neanche i politici occidentali potrebbero permettersi? Alcuni mi accuseranno di alzare il dito senza prove, solo in base a pettegolezzi, e ribadisco che non tutti sono uguali. Tuttavia, l'Albania è un Paese piccolo e facilmente le informazioni diventano argomento di discussione da bar da parte del personale a contatto con queste categorie.
Un dato è certo: oggi è normale sentir parlare della spudoratezza con cui un ministro vuole una fetta di utili dalle società che si aggiudicano le gare d'appalto, oppure un sindaco pretende tangenti o appartamenti in cambio dei permessi edilizi, o di come le tangenti vengano distribuite lungo la piramide del potere, o in che modo si abusi del denaro pubblico.
Quei pochi che possono giustificare la loro vita lussuosa, le auto 4x4 pagate quanto una casa, le vacanze all'estero, e persino gli yachts, sono ricchi uomini d’affari. Ed è difficile sentir dichiarare da uno di loro che si possono fare affari onestamente, senza ungere gli ingranaggi del potere. Chi lo ha detto apertamente, è il migliore.
Oggi in molti non possono spiegarsi tanta ricchezza senza prendere in considerazione i traffici di esseri umani, la droga e la prostituzione. Si pubblicano notizie di prestiti milionari erogati dalle banche senza interessi a favore degli albanesi più ricchi. E leggiamo dell’espansione della “mafia finanziaria”, che ricicla il denaro proveniente dal narcotraffico.
Questa è la realtà che dai vertici dell’Albania scende e si diffonde fino al livello dei comuni cittadini. Un esempio eloquente per la maggioranza della popolazione, divisa tra ambizione, invidia e, in minor misura, rassegnazione tra quei pochi che solo ieri nutrivano un senso di rivolta contro questa ingiustizia.
La domanda allora è: a che punto è la realtà albanese rispetto a quella di un Paese come l’Italia dove -scrive Saviano, citando Corrado Alvaro- la società vive nel dubbio che “vivere onestamente sia inutile”, dal momento che si tratta per una società della “disperazione più grande” ?
Credo che tra il presente con cui si misura Saviano e il nostro ci sia una differenza sostanziale. Disperazione sottintende almeno sia l'esistenza di una sensibilità, sia la percezione di una speranza che, per così dire, si sta per spegnere o si è appena spenta.
Ma nella nostra condizione nazionale, la parola ‘disperazione’ andrebbe sostituita con un termine che indichi sia la “perdita di sensibilità” che “la perdita di speranza”, ormai da tempo. Cercando tra le parole, la migliore che ho trovato è “morte”.
Parafrasando la citazione di Saviano, direi che “una società muore quando non ha più alcuna speranza di poter vivere onestamente”. Può sembrare una metafora, dal momento che la società, in ogni caso, continua a vivere. Eppure qui è chiamata in causa non la morte fisica degli individui, ma la morte di quel vincolo che fa di un gran numero di individui una società.
La società in Albania non è morta da poco. Si è spenta fin dal tempo della dittatura e non c’è possibilità di riportarla in vita. Non sono mancate vaghe speranze di rinascita, nel 1991, 1997, 2005. Ma si trattava solo di un battito di palpebre, che si sono richiuse. Saviano, riferendosi alla realtà italiana, in un articolo scrive: “l’ingiustizia ha ormai un sapore che non ci disgusta, non ci schifa, non ci stravolge lo stomaco, né l’orgoglio”. E poi continua: “Il solo dubbio che ogni sforzo sia inutile, che esprimere il proprio voto e quindi la propria opinione sia vano, annega, strozza e seppellisce il diritto. Il diritto che fonda le regole del vivere civile, ma anche il diritto che lo trascende: il diritto alla felicità”.
Non so se da noi, in Albania, esista il diritto, figuriamoci poi la felicità sociale.
So bene che per molti lettori ripeto cose note, e che non vogliono più denunce e accuse, ma soluzioni. Hanno ragione, perché anche questa richiesta è un sintomo della malattia. Quanto alle soluzioni, posso dire che Saviano, a proposito dell’Italia, afferma che non può farcela da sola e per questo chiede quindi il sostegno della parte più civilizzata del mondo, della comunità internazionale e, in particolare, delle Nazioni Unite. “Uscire dalla crisi significa cercare alternative all’economia criminale” spiega l’autore di Gomorra. E l’aiuto del mondo è necessario, secondo lui, anche perché l’economia criminale della ‘ndrangheta e della camorra ha ormai una dimensione internazionale.
Anche la rinascita della società albanese richiede alternative all'economia criminale. Dovremmo cercarle a partire dall’educazione dei bambini, fino ai valori spirituali e ai principi morali, e continuare fino alla riforma di un intero sistema che al momento lascia prosperare il crimine e la disonestà come forme di ingiustizia e di infelicità.
Ma questo non è il lavoro di un giornalista. Questo deve essere il lavoro di tutti quelli che, per risollevarsi da questa morte sociale, creeranno vere alternative di rinascita.