Il documentario “Hora” esplora il viaggio in treno di una giovane donna arbëreshë, riflettendo sull’identità e il cambiamento che sta vivendo questa comunità. Un’intervista alle autrici Maria Alba e Graziana Saccente
Chi sono gli arbëreshë?
A livello storico, gli arbëreshë sono dei migranti che arrivano in Italia tra il 1400 e il 1700 a seguito della progressiva conquista dell’Albania da parte dell’Impero Ottomano. Per noi non è possibile raccontare una vera e propria storia degli arbëreshë perché la materia è vasta e le fonti sono poche e incerte.
A livello personale, l’origine arbëreshë non corrisponde direttamente ad una collocazione geografica, ma piuttosto a un luogo dell’anima, in cui la comunità ha conservato per secoli un’identità molto forte. Ma in questo particolare momento storico, dove tutto cambia molto velocemente, le stesse minoranze etnico-linguistiche si trovano ad evolversi rapidamente. I paesi si stanno spopolando, la lingua si sta trasformando e senza dubbio la paura è quella di perdere quelle che sono le antiche tradizioni e la cultura.
Com’è nata l’idea di questo documentario?
L’idea è nata nel 2014 mentre stavamo scrivendo le nostre tesi in cinema documentario. Ci siamo rese conto, analizzando i documentari prodotti in passato sulla comunità arbëreshë, che mai nessuno aveva provato a fornire un punto di vista interno sull’argomento. Ai nostri occhi, le precedenti rappresentazioni audio-visive spesso risultavano poco esaustive e mostravano solo aspetti folkloristici, che ad oggi non fanno più parte della vita quotidiana delle comunità. Ciò che abbiamo cercato di dire con questo documentario è che la cultura arbëreshë bisogna viverla, conoscerla e trasmetterla per far si che non venga dimenticata.
Come mai avete deciso di intitolarlo ‘Hora’? C’è un legame con il significato approssimativo di questa parola nella lingua albanese (orologio, tempo)?
‘Hora’ è una parola arbëreshë che ha molti significati e che in italiano non trova un’unica traduzione. In arbëreshë, ‘Hora’ non significa tempo come in albanese, ma piuttosto paese.
È una parola molto iconica, che rappresenta proprio il senso di comunità. Infatti Anastasia, la protagonista del documentario dice in abëreshë: “Hora è comunità, è senso di appartenenza, è casa, è la gjitonia (il vicinato), è il bar sotto casa, è famiglia”.
Quali sono le fonti principali che avete usato?
Abbiamo inizialmente analizzato i materiali custoditi negli archivi RAI Calabria, la raccolta di documentari “Albasuite” e i testi del professore Francesco Altimari e del professore Giuseppe Gangale.
Abbiamo successivamente raccolto materiale inedito e d’archivio sul campo e abbiamo realizzato delle interviste come fossero “tranche de vie” all’interno della comunità.
Poi sicuramente hanno influito le riflessioni e il punto di vista personale di Maria, essendo lei stessa un’arbëreshë. Il documentario non fornisce un punto di vista storico, ma piuttosto emotivo. Accade spesso che gli studiosi guardino la comunità dall’esterno, e che in qualche modo non ci si senta totalmente rappresentati. È nata così l’esigenza di un’auto-rappresentazione.
Questo documentario è stato realizzato dalle donne sulla vita di una donna...
La cultura arbëreshë è stata tramandata oralmente soprattutto dalle donne. All’inizio del ‘900 c’è stata una seconda ondata migratoria e a partire sono stati soprattutto gli uomini per cercare lavoro in Germania, o in altri paesi.
Quindi, chi viveva la comunità erano le donne e sono state proprio loro a tramandare nel tempo i valori e la lingua arbëreshë.
Noi le abbiamo viste come le ‘custodi’ della cultura ed è per questo che abbiamo scelto simbolicamente di far parlare proprio una donna.
Prevale un sentimento di nostalgia durante la visione del documentario...
La nostalgia è una tematica molto delicata, è un leitmotiv sempre ricorrente. Ad esempio i canti arbëreshë sono malinconici e nostalgici, in riferimento alla madrepatria, l’Albania. I canti che la protagonista interpreta nel corso del documentario sono stati tramandati oralmente e alcune parole sono così antiche che attualmente risultano difficili da comprendere.
Anche in un’altra sequenza in treno si parla dell’Albania, con un sentimento nostalgico e dalla protagonista nasce una riflessione: “Ma, chissà se fossi? Chissà se venissi?! Sono tanti i se... ma la curiosità di sapere da dove vengo è forte. Sarebbe bello poter andare in Albania. Magari torniamo deluse? Cosa potrebbe succedere?”
Perché un viaggio in treno?
Il lungo viaggio in treno da Nord a Sud Italia di due amiche d’infanzia è per noi, una metafora nel tempo per rivivere in chiave moderna quella condizione di emigrante, ripercorrere il cammino verso le origini e confrontarsi nuovamente con la propria storia.
Il viaggio in treno può anche essere considerato come un percorso a metà, perché è vero che si torna a casa, tra le braccia della propria comunità arbëreshë in Calabria, ma è anche vero che resta sempre aperto un interrogativo sulle proprie origini albanesi.
In futuro ci piacerebbe proseguire il viaggio che abbiamo intrapreso in questo documentario fino in Albania. Per noi sarebbe un po’ come chiudere un cerchio.