Roberto Saviano in Albania - Foto Erion Gjatolli

Due giornate intense in cui Roberto Saviano ha avuto modo di condividere storie e riflessioni, aprire alla critica e al dibattito, invitando al coraggio e alla libertà. Le impressioni raccolte durante le giornate di Tirana

14/05/2015 -  Erion GjatolliNicola Pedrazzi Tirana

Dopo tanto scriverne, Roberto Saviano è giunto in Albania. La sera del 10 maggio è intervenuto a TEDx Tiran a, inaugurando la Innovation week; la mattina dopo, a Palazzo dei Congressi, ha presentato «ZeroZeroZero», il suo ultimo romanzo-inchiesta appena tradotto in albanese.

Entrambi gli eventi erano stipati, attesi. Saviano è una di quelle voci per cui le persone si muovono e si tormentano. Il motivo per cui piace, non piace, attira e respinge è lo stesso in tutto il mondo, e forse non sempre ha a che fare con il giornalismo: soprattutto chi non lo ha mai letto vede in quel ragazzo napoletano una sorta di mostro etico che non è sceso a compromessi con l’esistente; proprio per questo, alle persone cosiddette «normali», Saviano può anche dare fastidio: perché è come se ci ricordasse la nostra mediocrità.

Questa è la dinamica psicologica, il processo dialettico di deificazione e denigrazione cui non tanto Saviano, quanto la sua icona mediatica, è quotidianamente vittima nei bar d’Italia.

 

Driblando, per quanto possibile, l’inferno e il paradiso, inganni di ogni santificazione, noi abbiamo cercato di andare ad ascoltare una persona: uno scrittore, ma soprattutto uno scrittore in Albania. In un paese dove i poliziotti fanno la cresta sulle multe e gli infermieri accettano le mance, dove i diritti sono troppo pochi e gli stipendi troppo bassi per potersi permettere il lusso di rispettare le regole, la parola di chi sta dedicando la propria vita alla «rivoluzione della legalità» ci sembrava trovasse una speciale cassa di risonanza, un’eccellente contesto di senso.

Domenica 10 maggio, Museo Nazionale: «Il coraggio di innovare» 

Di Saviano sul palco colpisce la voglia di comunicare, una forza vitale che va oltre ogni stanchezza, tradita appena da qualche gesto abbozzato e abbandonato; di Saviano disarma la sincerità: perché la narrazione che riserva a una platea gremita è la stessa che ti dedica in una conversazione a quattr’occhi.

Il suo intervento si apre con una frase di Don Abbondio su quel coraggio che «se uno non ce l’ha, non se lo può dare». Saviano non è d’accordo, secondo lui il coraggio è un valore che si può costruire, «attraverso la conoscenza, resistendo ai pregiudizi». Parla di un coraggio resistenziale, come quello che gli albanesi contrapposero al nazismo prima e al comunismo poi, un sentimento lontano da quel nazionalismo spacciato per amor di patria che anestetizza da sempre il pubblico dibattito sui problemi del paese. Coraggio, oggi, di denunciare le complessità, di raccontare le contraddizioni, di svelare le proprie ferite, senza mai temere di fare un torto alla propria identità, di delegittimare la propria storia, di «ridimensionare la propria cultura».

Per l’Albania, le necessità impellenti sono quelle di confrontarsi con un sistema giudiziario scoraggiante, con la corruzione endemica, con il dilagare delle attività criminali, tenendo a mente che il primo modo di reagire a questi fenomeni è raccontarli. Saviano coglie nel segno quando punta dritto al nostro complesso di inferiorità, anche perché è evidente che lo fa scevro da qualsiasi complesso di superiorità nei nostri confronti: il parallelo con l’Italia è costante. Ricorda Lamerica di Gianni Amelio, probabilmente consapevole dell’assurda indignazione popolare che aveva suscitato un bellissimo film tacciato di non renderci giustizia. Saviano sa leggere nei commenti dei ragazzi in rete. Ha perfettamente colto i fremiti suscitati da ogni ingenuo elogio, dal più fugace riferimento al loro paese, ha compreso «il nutrimento e la felicità» che i giovani albanesi traggono da queste attenzioni. «Tu guarda dove si va a ficcare l’orgoglio», direbbe ancora il già citato Manzoni. Proprio per questo tutto il suo intervento è stato un’esortazione alla capacità di critica, un invito ad essere attenti osservatori e instancabili detrattori del nostro paese, al di là, anzi alla luce, di questo orgoglio di appartenenza.

Dopo l’articolo di qualche mese fa sulle pagine dell’Espresso, ritorna poi a parlare della «voglia di riscatto, di lavorare e realizzare, dell’energia di un paese giovanissimo», della capacità dei giovani albanesi di gioire o criticare in molte lingue, vettori di altrettante culture. Scatena, infine, l’ilarità e l’applauso del pubblico lasciandosi sfuggire un «noi albanesi». Coerente al lapsus, chiude con questi versi della poetessa Wislawa Szymborska: «Ascolta come mi batte forte il tuo cuore». Per descrivere l’empatia, la capacità di identificarci con l’altro, la forza di resistere, il coraggio di cambiare.

Lunedì 11 maggio, Palazzo dei Congressi: «Come la cocaina governa il mondo»

«Come la cocaina governa il mondo» era il titolo della Lectio Magistralis. Confini semantici irrilevanti, visto il mare infinito in cui è stato dolce farsi naufragare. Saviano fa così, ti trasporta in spazi mondiali, ad un’altitudine da carta geografica: dall’Afghanistan all’Olanda in poche vertiginose parole. Quello che arriva del suo discorso non sono tanto le cifre dello studioso, la sapienza dello specialista. Ascoltare Saviano è incantevole perché mastica letteratura. In poco più di un’ora, ci ha fornito definizioni galattiche di libro – «una massa di tempo, per questo ha un valore» – di letteratura – «un gesto solitario che ti connette al mondo» – ed una metafora di informazione – «un lago ghiacciato su cui pattiniamo, ma solo se rompiamo il ghiaccio stiamo leggendo»; il tutto convogliato in quella che lui chiama «l’alleanza dei lettori»: «perché loro non hanno paura di me, hanno paura di voi».

Al termine del monologo è seguita una altrettanto lunga sessione di domande. Un ragazzo si alza e chiede come funziona la mafia nel suo paese, perché in Albania nessuno ne parla. Saviano risponde che è difficile saperlo, perché non ci sono inchieste, perché un giornalista a Tirana non può fare nomi e cognomi, perché se un politico albanese parla di mafia perde voti: «E' indicativo che la mafia albanese non abbia nemmeno un nome, che per nominarla aggettiviamo un sostantivo italiano». In fondo alla sala erano seduti i ragazzi delle scuole, con grande sorpresa ho notato che erano ammutoliti – chi vive in Albania, anche se giovane, è poco abituato a simili dosi di verità. Risposta dopo risposta, Saviano non omette nulla: ammette che durante il governo Berisha sarebbe stato impensabile una sua visita a Tirana, che durante i governi Berlusconi pochi Istituti Italiani di Cultura lo avrebbero ospitato. Ribadisce perché raccontare storie di mafia non significa diffamare né l’Italia né l’Albania, come dietro ai campanilismi acritici si nasconda il contrario dell’amor proprio. Ammonisce l’Europa e gli ordinamenti dei principali paesi europei che non prevedono il reato di associazione mafiosa, si chiede cosa abbia fatto in merito l’Italia durante il suo recente Semestre di presidenza. Dice che per comprendere la realtà bisogna partire dalle considerazioni più semplici – da dove vengono le auto di lusso che vediamo a Tirana? Quale ricchezza sociale le ha prodotte? – e abbozza alcuni tratti distintivi del sistema mafioso albanese: clanico, legato alle logiche del sangue, ma totalmente disinteressato alla microcriminalità che in effetti è assente.

A chi gli chiede del suo dramma personale risponde di non averlo scelto ma di non poterlo rinnegare, ammette che se tornasse indietro forse farebbe le cose diversamente, si dice consapevole di aver distrutto la vita alla sua famiglia, a chi «mi voleva e mi vuole bene». A chi, in sala, si stava cominciando a interrogare sul senso dell’eroismo, Saviano propone questa riflessione che ho cercato di appuntare, e che riporto tra virgolette: «La dimensione eroica è terribile perché l’eroe è per definizione morto. Un eroe vivo è un fake: quante volte ho sentito ripetere “se davvero volessero lo avrebbero già eliminato”. A pensarci questa frase è terrificante, perché presuppone l’onnipotenza della criminalità. La verità è che non è vero, non possono fare tutto quello che vogliono».

Come fa lui con noi

Nelle due sale in cui l’abbiamo ascoltato parlare, Saviano era, tra tutti i presenti, la persona meno libera; ma allo stesso tempo il più libero di tutti. Tornando a casa riflettevamo su quanto sia raro, in Albania, udire i rintocchi della verità. Quante volte, in questo piccolo paese, il mito vince sulla storia, la politica si impone sul giornalismo, la realtà materiale costringe il pensiero libero. Quante volte la distrazione annichilisce ogni tentativo di complessità. In questi giorni Saviano ci ha ricordato l’importanza di raccontare, senza mai nasconderci che «chi racconta genera diffidenza», che la parola fa paura non solo perché denuncia, ma perché «ti trasforma, ti cambia, ti mette in crisi». Infine ci ha fornito l’antidoto: «l’unico modo per non farsi sommergere da certe storie è quello di condividerle». Come ha fatto lui in questi giorni con noi.

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