Il 9 settembre ‘43 Korça fu teatro di un massacro: decine di persone vennero uccise dai soldati italiani. A 76 anni di distanza, l’episodio continua a sollevare interrogativi
1943, Korça, Albania, Regno d’Italia. La città e la regione circostante erano sotto la giurisdizione della divisione Arezzo, ai comandi del Generale Arturo Torriano. All’indomani della resa dell’Italia fascista agli alleati la situazione precipitò velocemente. Sia perché la Wehrmacht stava iniziando ad entrare in territorio albanese, che per lo smarrimento causato dalla resa inaspettata dell’Italia.
In questo contesto ad una manifestazione di piazza, i soldati italiani reagirono con l’uso della forza, facendo un vero e proprio bagno di sangue. Un evento poco noto della storia albanese. Cos’è successo di preciso quel giorno a Korça? Perché le truppe italiane spararono sulla folla? Perché se ne è sempre parlato poco?
La sera dell’8 settembre: la resa italiana
Erano le 19:42 dell’8 settembre 1943 quando, via radio, l’allora capo del governo italiano, il Generale Pietro Badoglio, comunicò la resa, la stipula di un armistizio, e la cessazione delle ostilità con le forze alleate anglo-americane. Il laconico ed inaspettato messaggio lasciò l’Italia smarrita.
In Albania la notizia non tardò ad arrivare. Erano le 20 e 30 quando ai soldati della divisione Arezzo giunse la notizia. Secondo la testimonianza del generlae Torriano le truppe furono prese da sconforto e amarezza: i soldati sentivano di essere stati sconfitti mentre si trovavano in territorio ostile, disponendo di scarsi viveri e munizioni, e avendo poche vie di comunicazione con la madrepatria.
Poco dopo, alle 22 e 30, le truppe ricevettero le prime direttive: il Corpo d’Armata diramò l’ordine di prestare la “massima vigilanza”, di “stroncare ogni azione ribelle” e “collaborare con i tedeschi contro i ribelli” - come venivano chiamati i partigiani albanesi. Dapprincipio, infatti, si pensava che la notizia della resa fosse falsa e frutto della propaganda nemica.
La notte fra l’8 e il 9 settembre: i tedeschi muovono verso il territorio albanese
A mezzanotte e mezza il presidio italiano a Pogradec, a 40 km da Korça, nei pressi del lago di Ocrida sul confine orientale dell’Albania, segnalò l’avvistamento di automezzi della Wehrmacht in movimento oltre il confine che si stavano dirigendo verso il territorio albanese.
Dapprima il Corpo d’Armata ordinò di opporsi ai soldati tedeschi qualora tentassero di entrare nel territorio controllato dagli italiani. Poco dopo, invece, l’ordine venne revocato e ai soldati italiani fu richiesto di sondare le intenzioni dell’esercito nazista prima di prendere qualunque decisione e iniziativa. Verso le quattro del mattino un ufficiale fu inviato ad appurare le intenzioni dei tedeschi e parlamentare con loro.
La mattina del 9 settembre: gli accordi fra italiani e tedeschi
Alle 10 e 30 del 9 settembre, il Comando d’Armata comunicò alle truppe dell’Arezzo di mantenere un atteggiamento non ostile nei confronti dei tedeschi mentre i rispettivi comandi discutevano un accordo. Verso le 13.00 il Corpo d’Armata specificò i termini preliminari di questo accordo: in cambio della libertà di poter circolare sulle rotabili senza subire attacchi da parte dei tedeschi, le truppe italiane avrebbero ceduto alla Wehrmacht l’artiglieria e le mitragliatrici pesanti, rimanendo comunque in possesso del loro equipaggiamento di armi leggere.
Mentre questi accordi venivano presi, però, alcune divisioni della Wehrmacht avevano disarmato a sorpresa degli avamposti italiani. Le truppe italiane continuavano nel frattempo a ricevere ordini che poi venivano revocati in favore di altri antitetici ai primi: veniva chiesto di resistere ai tedeschi e poi di ritirarsi; veniva ordinato ad alcune unità di sbarrare le vie di comunicazione via terra e poco dopo di lasciare libero il passaggio. La situazione era concitata, le truppe avevano riferimenti scarsi e discordanti.
Dal resoconto del generale Arturo Torriano sappiamo che gli italiani non volevano lo scontro, ma nemmeno arrendersi incondizionatamente. Scriveva Torriano: “Noi siamo militari, obbediamo ai nostri superiori e perciò dobbiamo conservare le armi. Se attaccati ci difenderemo però vi assicuro che non faremo atti ostili contro di voi”.
Il pomeriggio del 9 settembre: la manifestazione e il massacro
La popolazione di Korça, venuta a sapere della resa italiana e dell’armistizio in atto con gli alleati, inscenò una manifestazione con tutta probabilità organizzata dai comitati locali del partito comunista: migliaia di persone scesero in piazza.
Secondo quanto riferito in un rapporto del tenente Barbieri, membro della divisione Firenze che fu informato dei fatti da alcuni membri dell’Arezzo: “La popolazione di Corcia insieme ad ufficiali, truppa e civili italiani inscenò una dimostrazione al grido di ‘Morte ai tedeschi!’, ‘Viva l’Italia!’ e ‘Viva l’Albania libera!’ ma una autoblinda proveniente dal Comando di divisione aprì il fuoco sui dimostranti provocando 20 morti e 150 feriti”.
Vanno sottolineate almeno due caratteristiche di questa manifestazione: da un lato, i dimostranti non erano erano violenti e per la gran parte il loro numero era composto da popolazione civile, con una nutrita presenza di donne, bambini. Vi presero però parte anche militari e civili italiani; dall’altro, questa manifestazione non era antagonista nei confronti delle truppe italiane a cui, anzi, veniva chiesto di unirsi agli albanesi e resistere all’esercito tedesco.
Molti dei feriti non riuscirono a sopravvivere ed il computo definitivo si attestò a 59 morti e 120 feriti. Agli annali è passato che fu il generale Torriano ad ordinare di sedare la manifestazione. Sono comunque molti gli interrogativi che questo bagno di sangue ancora solleva.
I misteri della strage
È noto che le truppe italiane di stanza a Korça avevano una particolare avversione nei confronti dei partigiani, perché in quella zona era forte la loro presenza e gran parte delle azioni dell’esercito italiano consistevano appunto nella lotta alla resistenza albanese. Tuttavia non è chiara la ratio che avrebbe spinto Torriano a decidere di sedare la manifestazione nel sangue utilizzando blindati contro persone perlopiù disarmate. Nella storiografia italiana della Seconda guerra mondiale l’evento viene connotato come “non voluto”.
La risposta più semplice, potrebbe risiedere nella volontà da parte dei militari italiani di salvaguardare l’accordo che si stava concretizzando con il Comando tedesco, che avrebbe in teoria consentito alle forze italiane di muoversi nel territorio albanese liberamente senza scontrarsi con la Wehrmacht e raggiungere in un secondo momento l’Italia.
Un altro enigma dietro questa strage, forse il più significativo, è che fra i 59 morti vi furono anche capi partigiani che erano diretti avversari di Enver Hoxha nella sua personale lotta per il potere all’interno della resistenza e delle organizzazioni comuniste albanesi. Nel dopoguerra, durante la dittatura, questo massacro fu stranamente fatto passare in sordina nonostante fosse stato l’atto di violenza contro la popolazione più violento nella storia della resistenza albanese, come riportato nell’enciclopedia albanese redatta durante gli ultimi anni del comunismo, che comunque dedica all’avvenimento poche righe. Nessun altro libro di storia redatto durante il comunismo citerà mai l'evento.
A 76 anni di distanza da questo evento molti dei suoi sviluppi sono avvolti ancora da un mistero che, in mancanza di fonti storiche, è destinato a rimanere tale. A ricordare la strage è un piccolo e recente monumento con affissa una targa che, laconica, recita: “Qui, il 9 settembre 1943, durante una manifestazione antifascista, furono uccisi 59 dimostranti e altri 120 vennero feriti”.