Nei suoi romanzi lo scrittore albanese Gazmend Kapllani racconta storie di gente comune che ha dovuto rifarsi una vita oltre i confini, spesso trovandosi di fronte alle difficili sfide dell’integrazione. Un’intervista
Attraverso la sua scrittura chiara, scorrevole e con una giusta dose di ironia, lo scrittore Gazmend Kapllani riesce facilmente a stimolare una profonda riflessione e un dibattito sul ruolo e sulla figura del migrante nella società odierna. Identità, frontiere, patria, lingua e integrazione sono solo alcuni dei concetti chiave trattati nei suoi libri. In italiano, tradotti e pubblicati da Del Vecchio editore ci sono ”Breve diario di frontiera” e “La terra sbagliata”.
“Il migrante è una metafora dei tempi in cui viviamo”, sottolinea Kapllani nel corso di un'intervista ad OBCT raccolta nel centro di Mantova. Anche se intervistatore ed intervistato sono di madrelingua albanese, Kapllani ha scelto di rispondere alle domande in italiano, perché vuole che il suo pensiero arrivi diretto al lettore italiano: un rapporto quello tra scrittori e lettori da non sottovalutare.
Kapllani nei suoi libri pone sempre al centro l’Albania, quella del periodo della transizione, divisa tra l’eredità comunista e la costante voglia dei suoi cittadini di emergere nei paesi d’emigrazione. Siamo partiti da lì, dalla generazione che rincorreva la libertà negli anni ‘90 per affrontare poi altri temi sensibili per la società odierna albanese. Non potevamo non toccare il ruolo della diaspora nello sviluppo dell’Albania e i suoi rapporti con i paesi confinanti.
Quali sono le frontiere che affronta oggi nel corso del proprio cammino un migrante?
Come racconta il narratore nel libro “Breve diario di frontiera”, il migrante è circondato dalle frontiere, deve affrontare e confrontarsi con diverse frontiere nel corso della propria vita. Le frontiere visibili sono spesso le più conosciute, ma ci sono pure quelle invisibili che sfidano la sopravvivenza giornaliera del migrante, come i documenti di soggiorno, la lingua, l'identità e la cultura del paese ospitante.
Essere migrante è un fenomeno antico. Considero la migrazione parte integrante dell'avventura umana sulla terra, ma allo stesso tempo la descrivo in termini contemporanei, perché sono anch'io un migrante. Essere migrante significa prendere la decisione di vivere sotto un altro cielo, un'altra cultura, un'altra lingua. Questo penso che renda il migrante una metafora del nostro mondo contemporaneo.
All’inizio di settembre ha presentato i suoi libri in un evento organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura a Tirana. Che rapporto ha con l’Albania?
Ho una relazione molto forte con l'Albania, è il mio paese d'origine, è lì dove sono cresciuto e mi sono formato. La mia generazione, come le precedenti, è vissuta in condizioni politiche drammatiche nel corso della dittatura. Sono esperienze che rimangono per sempre con noi, che non si possono cancellare. C’è poi anche una connessione inconscia ed identitaria, che da scrittore vorrei esplorare. Vorrei capire l’Albania ed è per questo che mi sono concentrato sul periodo della transizione, dopo il collasso del totalitarismo, che per la mia generazione è stata fondamentale. Noi abbiamo avuto una storia molto violenta, dove molte voci e realtà sono state soppresse. È per questo che rivisitare l'Albania, non solo come una realtà fisica ma anche storica e culturale, è come esplorare me stesso.
Come valuta il rapporto che esiste tra l’Albania e la sua diaspora?
C'è una relazione molto interessante che l'Albania ha con il “dentro” e il “fuori”, ossia i cittadini che vivono tra i confini nazionali e quelli all’estero. L’identità contemporanea dell’Albania in parte è stata formata da fuori, mi riferisco alle diaspore che vivevano ad Istanbul, Sofia, Trieste, Vienna e in Calabria. Alla formazione dello stato albanese è succeduto il totalitarismo, ed è proprio in quel momento che si è creata una relazione quasi ostile tra il “dentro” e il “fuori”. È proprio allora che la figura del migrante, della diaspora in generale è diventata un qualcosa di pericoloso, creando così un totale distacco tra i due mondi, da un lato la diaspora e dall’altro la nazione metropolitana.
Da un lato, il peso di questa scelta politica penso che continui in un certo senso a gravare sul comportamento dello stato e di parte delle élite politiche ed economiche albanesi. Trovo interessante, ma anche spaventosa, l’ostilità che si nota nei confronti di chi sta fuori. Nel mondo di oggi, dove le diaspore hanno diritto di voto e di partecipare alla vita politica in patria, in Albania ciò non è ancora possibile. Dall’altro lato, la diaspora è una linfa vitale per il paese. L’odierna società albanese è molto frammentata, e lo stato insiste con la solita ostilità e tentativi di manipolazione della diaspora, ed è per questo che credo che ci sia bisogno di una ridefinizione di questi rapporti.
Negli anni ’90, in molti avete lasciato il paese, affrontando l’ignoto alla ricerca della sognata libertà, proprio quella che mancava nel corso di quasi cinque decenni di totalitarismo. Secondo Lei, oggi perché gli albanesi continuano ad emigrare in massa?
Non sono solo gli albanesi che partono, siamo di fronte ad un fenomeno molto complesso. La differenza è che adesso partono in maniera diversa e per altre ragioni. Noi eravamo una generazione cresciuta con l'ossessione di varcare le frontiere. Qualche volta faccio fatica a spiegare ai cittadini cresciuti in Occidente che non solo gli albanesi, ma tutti gli est europei della mia generazione, avevano questa ossessione di varcare il muro di Berlino.
Lo slogan “Vogliamo l'Albania come tutta l'Europa” non è nato a caso, e significava appunto unificare l’Europa con l’Est, superare quella frontiera impermeabile che ci ha divisi per 50 anni. In termini demografici, oggi i cittadini dell’Europa del sud si stanno spostando verso l’ovest e il nord. L’attuale migrazione albanese è connessa alla globalizzazione, spinti dalla mancata realizzazione delle aspirazioni della società e dal fallimento dello stato. Dove manca la giustizia e la sicurezza è difficile vivere. Come racconto nel libro “La terra sbagliata”, gli albanesi credono più nella bontà degli stranieri che nella giustizia offerta dalla loro patria. Lo spopolamento rimane un problema serio per l’Albania odierna.
Per concludere, vorrei che ci soffermassimo sui rapporti tra la Grecia e l'Albania, che attualmente sono relativamente tesi. Come vede questo ritorno all’idea dell’identità forte degli ultimi anni?
Le relazioni tra la Grecia e l’Albania oscillano come un pendolo e non si normalizzano mai. Penso che sia dovuto principalmente ai comportamenti della Grecia, che vede l’Albania come un paese ancora debole, che offre alla classe dirigente greca la possibilità di giocare la carta del nazionalismo, perché sappiamo che il nazionalismo rende in termini di consenso elettorale. Considerato che il 2023 è un anno elettorale per la Grecia e che ci sono politici che hanno investito nella creazione di un sogno nazionalista. Non è mai accaduto prima che i sindaci greci di Atene e Salonicco andassero a protestare in Albania contro lo stato albanese. Nella sua dimensione ridicola, questa mossa è pericolosa. Al contempo dimostra anche la totale irresponsabilità e divisione della classe politica albanese.
Nei Balcani abbiamo pagato un prezzo molto alto al nazionalismo e vorrei pensare che l’attuale sia una fase temporanea, che non sfocerà in nuove tensioni tra Albania e Grecia, come in passato. Entrambi i paesi sono accomunati da sfide interne, con una popolazione demograficamente in declino e un’economia che non progredisce. Il futuro degli albanesi e dei greci è in Europa. Tornare al passato significherebbe tornare alle guerre e alla miseria.
Gazmend Kapllani è un narratore, giornalista ed accademico albanese residente a Chicago, Illinois (USA). È nato a Lushnjë (Albania) nel 1961 e subito dopo la caduta del regime è emigrato in Grecia, dove ha conseguito gli studi universitari in lettere e un dottorato di ricerca in scienze politiche e storia. Nel corso di più di due decenni di residenza ad Atene ha lavorato come docente di storia e cultura albanese presso l’Università Panteion e come giornalista ed editorialista presso il giornale di centro-sinistra greco Ta Nea. Ha un’ottima padronanza di diverse lingue straniere e i suoi primi tre libri sono stati scritti in lingua greca. Nel 2012 si trasferisce negli Stati Uniti in qualità di writer-in-residence presso l'Università di Harvard. Dopo sistematici attacchi da parte dei gruppi di estrema destra greca e nonostante la lunga permanenza nel paese, il governo greco non ha mai dato riscontro alla sua domanda di conferimento della cittadinanza greca. Attualmente è direttore di programma presso la Cattedra di Studi Albanesi Hidai “Eddie” Bregu presso la DePaul University a Chicago.