Elezioni amministrative in Albania 2015 - Creative Commons OSCE/Roberto Berna

In Albania le amministrative hanno confermato le politiche precedenti con la vittoria Socialisti-LSI. Ma non senza spunti di novità. Un'ampia analisi

29/06/2015 -  Nicola Pedrazzi Tirana

Domenica 21 maggio i 61 comuni d’Albania hanno eletto i propri sindaci e rinnovato i consigli comunali. Nella competizione si sono confrontati 162 candidati sindaci (solo 16 donne), 36.000 consiglieri, 63 partiti politici: 37 a sostegno della coalizione di centrosinistra (Alleanza per l’Albania europea), 15 riuniti nella coalizione di centrodestra (Alleanza popolare per il lavoro e la dignità). In tutto gli albanesi chiamati alle urne erano 3.370.206. Ha votato quasi il 48% di loro: un’affluenza discreta, se si considera che circa il 30% degli aventi diritto vive all’estero e che tradizionalmente non rientra a votare per le amministrative (alle politiche del 2013 l’affluenza era stata del 53%).

Chi vince e chi perde

Se il raffronto con le amministrative precedenti è inficiato dalla recente riforma territoriale – quattro anni fa i comuni albanesi erano quasi 400 – dal punto di vista nazionale il totale non lascia spazio a interpretazioni: con 840.072 consensi la coalizione di sinistra sfonda il 53%, con 671.273 la destra non arriva al 43%. Si può dire, e a destra certamente non è sfuggito, che dieci punti di distacco sono meno delle diciotto lunghezze inflitte a Berisha alle scorse politiche, ma se invece dei voti si contano le città per il PD di Lulzim Basha diviene più difficile consolarsi: su 61 municipi disponibili, 45 sono andati a sinistra e solo 15 a destra (il sindaco eletto a Finiq appartiene al partito della minoranza greca, una formazione comunque sostenuta dalla coalizione di sinistra).

Eccezion fatta per Scutari, le maggiori città del paese sono andate ai rosso-viola – Tirana, Durazzo, Fier, Valona, Elbasan, Korça e Berat hanno tutte guardato a sinistra – ma alcune sorprese non hanno mancato di intaccare il successo della coalizione governativa: è il caso di Përmet, storica roccaforte del PS che da oggi avrà un sindaco di destra, di Pogradec, dove il candidato dell’LSI non ce l’ha fatta, e di Lezha, il cui municipio passa dall’LSI al PD. Anche se piccoli, questi ultimi due comuni sono molto interessanti perché ci consentono di misurare la competizione tutta interna alla coalizione socialista: quella tra Edi Rama (Presidente del Consiglio, leader del PS) e Ilir Meta (Presidente del Parlamento, leader dell’LSI). Se, alle politiche del 2017, il PD si presenterà altrettanto debole, è evidente che gli unici ostacoli che Rama potrebbe incontrare lungo quello che si profila essere «il suo decennio» saranno quelli che gli verranno posti dal suo scomodissimo alleato.

La vittoria mutilata di Ilir Meta

Il partito personale di Ilir Meta, in costante crescita dal 2005 a oggi, non ha arrestato la sua lunga marcia: rispetto a quattro anni fa, là dove il PS si ferma o cala, l’LSI guadagna, a volte addirittura percentuali a due cifre (Tirana +10.2%; Durazzo +14.7%; Fier +12.2%; Elbasan +9.7%; Korça +10.6%; Scutari +7%; Argirocastro +15.5%; Lushnje + 12.9%; Pogradec +6.1%; Skrapar +38.3%).

In qualità di principale alleato della coalizione di governo, a questo giro l’LSI presentava 15 candidati sindaci. Il fatto però che 6 di loro non siano risultati eletti è forse all’origine della «vittoria mutilata» percepita da un leader che non conosce sconfitta. Oltre ai risultati di Pogradec, Lezhë, Kukës, Mallakastër e Selenicë, municipi andati a destra, brucia particolarmente la sconfitta di Vorë, comune cui Ilir Meta teneva moltissimo: collocata tra Tirana e Durazzo, questa cittadina di 25.000 anime è al centro di un’area industriale in pieno sviluppo.

Al di là del successo della coalizione, è lecito ipotizzare che il mezzo insuccesso dei candidati dell’LSI abbia rappresentato una buona notizia per Edi Rama, il quale, si sa, è legato agli ex avversari da un puro calcolo costi-benefici. A Tirana c’è addirittura chi ipotizza che il PS abbia volutamente optato per il disimpegno in quei comuni dove non esprimeva il candidato sindaco; un pensiero che, a giudicare dalle non entusiastiche reazioni allo spoglio, ha senza dubbio attraversato la mente di Meta. Non che i numeri gli dessero motivo d’insoddisfazione, ma a quanto pare l’appetito vien mangiando.

Alla scoperta del voto disgiunto

Per capire davvero chi ha vinto e chi ha perso questa tornata elettorale non bisogna soltanto uscire dalla classica contrapposizione PS/PD, ma è necessario analizzare con cura i dati dello spoglio: perché, lo ricordiamo, ogni cittadino aveva a disposizione due schede, quella per il sindaco e quella per il consiglio comunale. Quando il meccanismo contempla il voto disgiunto, contare le preferenze andate ai sindaci potrebbe non bastare a capire come sono andate le elezioni.

Prendiamo ad esempio l’eclatante caso di Përmet, dove Niko Shupuli (PD, 58.6%) ha inaspettatamente surclassato Gilberto Jaçe (PS, 38.5%). Se invece di guardare al municipio guardiamo al consiglio, scopriamo che la coalizione di sinistra sfiora il 70%: numeri a fronte dei quali è scorretto sostenere che Përmet abbia svoltato a destra. Facciamo lo stesso test con la roccaforte democratica: Tropoja, capitale del distretto che ha dato i natali a Sali Berisha. Laggiù il municipio sarà come sempre di destra, ma non il consiglio comunale: perché sulla seconda scheda la coalizione rosso-viola totalizza più del 57%, mentre la destra si ferma al 41%. Lo stesso fenomeno si registra in altre importanti città del paese. Come abbiamo visto, anche a Lezhë, Kukës, Pogradec e Vorë ha vinto un sindaco del PD, ma in tutte queste città è la coalizione di sinistra ad aver ottenuto la maggioranza assoluta in consiglio – in quest’ultima strategica cittadina, dove è stata cocente la sconfitta del candidato LSI, questo partito ha comunque registrato un risultato mirabolante, crescendo di più di 20 punti percentuale rispetto al 2011.

In sintesi, in buona parte dei municipi andati al PD, e anzitutto in quelli in cui i candidati sindaci dell’LSI hanno perso la competizione, la colazione di sinistra detiene comunque la maggioranza in consiglio comunale. Un utilizzo così massiccio del voto disgiunto è un fenomeno che rimane da spiegare.

Le reazioni nella capitale

A Tirana, lo si sapeva, non c’è stata competizione: con più di 160.000 voti il giovane Erion Veliaj ha superato la maggioranza assoluta (53.6%) staccando di 14 punti Halim Kosova, il medico sessantenne cui il PD aveva affidato il compito di perdere con dignità. Per ritrovare uno scarto simile bisogna risalire ai tempi del Rama sindaco, ma al nuovo subentrante i precedenti storici non interessano: "La vittoria è grande, ma noi siamo umili. Sappiamo che la città non sta andando bene, perciò invece di festeggiare ci rimboccheremo subito le maniche".

Di altro tenore la lettura del premier, abile nell’estendere al paese il carattere plebiscitario del successo capitolino: "I cittadini albanesi hanno caricato la nostra alleanza di nuova responsabilità, chiedendoci di amministrare il 75% dei comuni, pari all'80% della popolazione in Albania. Non era mai successo". Dall’altra parte delle barricate, Luzlim Basha, leader democratico e incolore sindaco uscente, ha fornito un singolare affresco della situazione, affermando che il PD e i suoi alleati avevano fatto "un grande passo in avanti verso la ripresa", e che "la coalizione di centrosinistra è stata notevolmente abbandonata dai cittadini".

Anche sulla regolarità delle elezioni i commenti dei due segretari sembrano provenire da paesi diversi: secondo Rama "sono state le elezioni più calme, più libere e le più oneste mai organizzate in Albania"; secondo Basha la competizione è stata inficiata "da una riforma territoriale manipolata, dalla presenza di candidati con un passato criminale, dal coinvolgimento della malavita nella campagna elettorale, dalle pressioni sull’amministrazione pubblica e dai voti comprati. Il passo indietro è evidente, gli osservatori internazionali lo hanno detto chiaramente senza nascondere la preoccupazione".

In attesa della pubblicazione del rapporto OSCE, le osservazioni preliminari presentate a ventiquattr’ore dalla chiusura dei seggi in effetti danno da pensare: "Il quadro giuridico in Albania avrebbe potuto fornire la base per elezioni amministrative democratiche. Tuttavia, a causa della mancanza di volontà di attuarlo in modo efficace e della politicizzazione che pervade le istituzioni impegnate nelle elezioni, questo non è stato raggiunto". Da parte sua, la capo missione Audry Glover, nota per la sua durezza, ha dichiarato: "Se agli elettori è stata offerta la possibilità di scelta tra una vasta gamma di candidati e le libertà fondamentali di espressione e di riunione sono stati generalmente rispettate, la politicizzazione delle istituzioni coinvolte nelle elezioni del 21 giugno hanno minato la gestione efficace del processo".

Come nel 2013?

In sostanza, cambia qualcosa rispetto al 2013? Sebbene il confronto tra politiche e amministrative lasci sempre il tempo che trova, la domanda è legittima e la risposta è un doppio «no».

Come due anni fa, il primo dato politico che emerge dalla tornata elettorale è l’indiscutibile vittoria socialista. Non c’è dubbio: siamo nell’«era Rama». Tuttavia, al di sotto del credito di fiducia rinnovato all’asse PS-LSI, qualcosa si sta muovendo: per misurare i reali rapporti di forza e immaginare il futuro della coalizione governativa bisogna guardare con più attenzione alla composizione dei consigli comunali (dove l’LSI cresce, il PS no), anche perché sembra che questa volta gli albanesi si siano valsi del voto disgiunto – sarebbe interessante capire per quale ragione, caso per caso.

Il secondo tratto di continuità, purtroppo, trascende ogni analisi elettorale. Al di là dei rapporti OSCE che possono risentire anche di fattori esogeni, il principale problema della nascente democrazia albanese risiede nella qualità del rapporto che lega il singolo cittadino al proprio partito di riferimento: una fedeltà d’interesse, e quindi rigida, difficilmente modificabile. Se si esclude l’LSI, che continua ad acquistare clienti proprio perché garantisce ai suoi elettori un costante filo diretto con il potere della maggioranza, possiamo dire che una volta stabilita la gerarchia tra i due blocchi (politiche 2009 – politiche 2013) questa è molto difficile da mettere in discussione (amministrative 2011 – amministrative 2015).

Quand’anche si risolvesse con la bacchetta magica il problema della corruzione del sistema politico, quand’anche si garantisse la totale regolarità delle operazioni di voto sin dai mesi che precedono l’apertura dei seggi, il comune cittadino albanese che si reca alle urne con la famiglia continuerebbe a temere la vittoria del partito che in passato lo aveva licenziato. Per ragioni storiche, culturali e materiali in Albania la politica intesa come potere continua a contare di più della politica intesa come progettualità.

L’accondiscendenza dell’elettorato albanese al ciclo politico di Edi Rama non è solamente figlia della scarsa offerta della politica albanese – perlomeno a Tirana il PD ha fatto finta di competere – ma è il risultato della bassa domanda politica di una società civile che stenta ad esistere. Ne sa qualcosa Gjergj Bojaxhi, l’outsider di Tirana che presentandosi come esterno alla logica dei partiti aveva sperato di utilizzare il turno amministrativo come trampolino di lancio per un nuovo soggetto politico trasversale. Il suo 5.4%, un risultato senza precedenti per un candidato indipendente, ha però il sapore di un’operazione riuscita a metà: questo non perché i tiranesi abbiano vagliato e bocciato il suo progetto, la sua credibilità, la sua diversità, ma perché quel progetto, quella credibilità e quella diversità - vere o presunte che fossero - si ponevano deliberatamente al di fuori delle logiche clientelari che in Albania orientano ancora il consenso. Per uscire con successo dal perimetro del do ut des vigente tra elettori ed eletti, c’è bisogno che al di fuori di quel perimetro si trovino dei cittadini.