Sono le migrazioni con un biglietto di ritorno, temporanee. Risposta ottimale alla fluidità del mercato del lavoro globale e alla paure "dell'altro" che vorremmo nelle nostre fabbriche ma non nelle nostre piazze? Non sempre, forse quasi mai. Un approfondimento
È dalla caduta del muro di Berlino che le migrazioni sono diventate argomento da prima pagina, elettrizzando i mass media, appassionando l’opinione pubblica in tutta Europa, e di conseguenza condizionando le decisioni politiche dei vari Stati. Inoltre, com’era prevedibile, la questione migratoria è entrata di diritto nella politica internazionale, irrompendo, spesso con prepotenza, in molti tavoli bilaterali e multilaterali. In poche parole, la migrazione ha occupato l’agenda della politica e della società, chiedendo la governance della materia e quindi scelte precise.
Il fenomeno migratorio – lo si dice da più parti – è vecchio quanto il mondo. La modernità dei nostri tempi ha inserito delle variabili nuove, che hanno condizionato sensibilmente le migrazioni. Da quando il trasporto si è messo in cammino verso lo sviluppo rapido, persino la geografia non è più la stessa. Una volta, capitali come Madrid, Roma, Praga, Varsavia, erano molto lontane. Per non parlare di New York e Mosca. La lontananza era sentita e palpabile, dal punto di vista della geografia e della percezione. Dopo il balzo in avanti del trasporto, complice anche il crollo dei totalitarismi di oltrecortina, e quindi dei fili spinati e degli ingressi ipercontrollati, queste metropoli sono sembrate più vicine. Anzi, sono realmente più vicine, seppur a distanza immutata. Nell’epoca del web 2.0, dove tutto si può fare on line, dal biglietto low cost al check in, e fino alla prenotazione del taxi di ritorno, basta deciderlo la mattina per cenare nelle piazze di qualsivoglia capitale europea. Naturalmente, gli spostamenti sono semplici solo per una parte delle persone, quelle che vivono più o meno all’interno di uno spazio stabilito, da qualcuno visto come una mera fortezza, con tanto di mura alte e spesse, da difendere o da scavalcare.
Com’era ovvio, ai ritmi della velocità dei media e della globalizzazione si sono adeguate anche le migrazioni. Questi sono alcuni dei motivi del “successo” delle migrazioni circolari, una categoria di mezzo, nella variegata tipologia delle migrazioni. Poiché le migrazioni circolari fanno parte delle migrazioni temporanee, visto che si tratta di migranti che intraprendono ciclicamente l’avventura migratoria. Ma nello stesso tempo, le migrazioni definite come circolari sono anche di ritorno, dato che i migranti devono comunque ritornare per poi ripartire.
Il mercato del lavoro occidentale, che ha subito profondi mutamenti negli ultimi decenni a causa della segmentazione e della flessibilizzazione, ha fatto da magnete nei confronti dei flussi migratori. I famosi lavori 3D (dirty, dangerous, difficult) sono riservati principalmente ai migranti, i quali sopperiscono alla carenza di manodopera autoctona – anche per colpa dell’invecchiamento demografico – in molti settori economici importanti. Tradizionalmente, anche se in misura minore, le migrazioni circolari erano legate ai lavori agricoli, un settore “stagionale” per eccellenza; ma anche a quello edile, dove l’attività aumenta con l’arrivo del bel tempo. Oggi si notano sempre di più figure come gli ambulanti, gli operai del settore turistico-alberghiero, oppure i lavoratori altamente qualificati che lavorano per alcuni mesi in altri Paesi.
Visto nell’ambito di un mondo rimpicciolito per lo sviluppo delle comunicazioni, le migrazioni internazionali circolari appaiono come una semplice estensione delle vecchie migrazioni interne. Infatti, la stessa parola “interno”, potrebbe indicare “i confini dell’UE”, “l’Europa”, “il Mediterraneo”, tradendo in sostanza la sua convenzionalità giuridico-geografica. In tal senso, le migrazioni circolari sono costituite da persone che si spostano periodicamente in altri Paesi per lavorare. Se dovessero funzionare perfettamente e nel quadro della legalità, tali flussi sarebbero funzionali all’economica e risolutivi a molti problemi. In quest’ottica, le azioni che promuovono questo tipo di migrazione acquisiscono un significato positivo.
In una società ipotetica però, dove i migranti sono riconosciuti come risorsa ovunque, i tecnici di un altrettanto ipotetico modellismo sociale, potrebbero costruire teoricamente un meccanismo perfetto, in cui i flussi migratori partissero meccanicamente nel momento del bisogno, e tornassero a fine lavoro, sempre tra tubi e canali sociali, nel Paese di origine. In tal modo, oltre a trasformare la vecchia linearità delle migrazioni in circolarità moderna, oltre a subentrare alla obsoleta staticità con l’efficiente mobilità, si potrebbero evitare fenomeni negativi, come la disoccupazione, la conflittualità sociale, la fuga dei cervelli, le migrazioni irregolari, il dumping sociale, ecc. Ma una visione così idraulica dei fenomeni sociali, seppure bellissima, non tiene conto delle variabili umane, nonché dei nemici delle migrazioni circolari, legittime e utili come tante altre tipologie migratorie.
È vero che la circolarità delle migrazioni è salutare per le economie dei Paesi interessati, perché compensa da un lato il deficit di manodopera e dall’altro aiuta le economie per mezzo delle rimesse valutari. Inoltre, i migranti acquisiscono know how prezioso al ritorno nei Paesi di partenza, dove danno vita ad iniziative economiche in un’ottica di rete con i Paesi di accoglienza. Il valore della loro attività lavorativa è evidente innanzi tutto nel contributo diretto alle due economie, ma soprattutto nell’azione economica integrativa che il loro operato conduce in modo naturale creando una rete di rapporti e scambi indispensabili allo sviluppo di molte aree. Come dire, il lavoro dei migranti è spesso sostenitore, se non precursore e tessitore, di progetti politici ed economici di grande portata.
Senza dubbio, l’apporto dei migranti non è solo economico, giacché il loro ritorno, più frequente in quanto circolare, influisce tramite i vari comportamenti e le pratiche sociali, che sono integrativi amministrativamente e importanti culturalmente. Sul piano demografico non spicca un contributo concreto da parte delle migrazioni circolari, su quello del brain drain invece, si osserva un’azione positiva, tramite la conservazione e la valorizzazione del capitale umano dei Paesi in via di sviluppo.
I nemici delle migrazioni circolari sono però tanti, a cominciare dagli enfatizzatori di vario titolo, che vogliono farle passare come la panacea di tutti i problemi del fenomeno migratorio. Che questo tipo di migrazione sia stato pompato più del dovuto non ci sono dubbi; e si intravede persino qualche segno di mitizzazione, principalmente da quelli che hanno già inflazionato lo slogan retorico “aiutiamoli a casa loro”. Un altro nemico è la confusione che esiste nella conoscenza del fenomeno migratorio, il quale non comincia e non si esaurisce con il concetto, seppure importante, della circolarità. Non si può negare che tale concetto, frainteso ovviamente, allevia l’ansia di chi vorrebbe vedere i migranti nei campi e nelle fabbriche, ma non nelle piazze e nelle scuole, insomma di chi vorrebbe braccia da lavoro e non persone.
Dall’altro canto, le misure restrittive in materia di immigrazione non aiutano la circolarità. Un migrante che si è appena regolarizzato, con permessi di soggiorno sempre più brevi e/o dipendenti dai contratti, si guarderà bene da intraprendere la via del ritorno, specialmente in caso di spese sostenute per raggiungere il paese di immigrazione. L’aumento dei controlli, così come l’esasperazione della burocrazia, sconsigliano i migranti di avventurarsi in progetti sperimentali ad alto rischio. In questo quadro, le crisi economiche non aiutano, visto che il posto di lavoro non è facile da trovare in una situazione occupazionale compromessa. Infatti, anche nelle migrazioni recenti intraeuropee la tendenza è quella dell’insediamento e della stabilizzazione (vedi l’ultimo studio della Caritas/Migrantes “I romeni in Italia tra rifiuto e accoglienza”, Idos, Roma 2010) e non quella circolare e flessibile.
La metafora del ponte, per spiegare il ruolo dei migranti per le società di partenza e di arrivo, è perfetto particolarmente nel caso di Paesi che si affacciano davvero sul mare. La metafora vale ancora di più per quella categoria di migranti che devono attraversare quel ponte, ossia fare il ponte, più spesso di altri. Ma un ponte ha bisogno di sostegni e piedi robusti, il che significa che le migrazioni circolari possono funzionare bene in terreno stabile e rispettoso dal punto di vista dei diritti e dei servizi. Purtroppo, talvolta i migranti circolari costituiscono il punto debole, proprio per la loro temporaneità e precarietà. Il loro flusso è spesso una corrente in mezzo all’oceano, quasi invisibile. Persino i sindacati riscontrano difficoltà nel tutelare questi lavoratori, che diventano ricattabili anche sul piano di diritti fondamentali come l’abitazione e la sicurezza sul lavoro.
Infine, ma non per importanza, c’è l’aspetto soggettivo della migrazione. Nel suddetto meccanismo immaginario di ingegneria sociale, la soggettività costituisce la parte mancante, sebbene sia la più importante. È vero che la migrazione circolare realizza ciclicamente il sogno eterno del migrante, ossia il ritorno, è vero che accarezza l’orgoglio e la volontà di aiutare la propria gente, è vero che lo stimola culturalmente e lo rende sempre più dinamico ed al passo con i tempi; ma è altrettanto vero che esiste un costo umano da pagare, rilevabile solo dialogando con le persone e non nei laboratori degli alchimisti sociali o dei maghi della retorica politica. Un progetto migratorio basato sulla circolarità potrebbe dipendere da molti fattori: economici, formativi, familiari, generazionali, culturali, e così via. Spesso sono vere e proprie incognite, come la vita stessa. Perché l’arrivo di un figlio potrebbe richiedere alla persona la stabilità nel suo progetto migratorio, perché vivere nell’incomprensione culturale perenne potrebbe essere faticoso, perché l’esercitare i diritti in due o più Paesi contemporaneamente potrebbe essere insostenibile.
Allora, in una società liquida come la nostra, inondata costantemente da una paura liquida – tanto per usare due titoli famosi di Zygmunt Bauman – forse c’è bisogno di una migrazione liquida? Per esigenze di omogeneizzazione probabilmente sì, forse anche per una visione utilitaristica dell’immigrazione, tipo “usa e getta”, cresciuto nel vivaio dell’economia liberista, lo stesso in cui hanno proliferato i titoli tossici della finanza irresponsabile. Probabilmente può servire da tranquillante per le ansie sociali spontanee e/o indotte. Ma dal punto di vista etico, e non solo, una visione del genere è insostenibile, in quanto dietro le migrazioni, lineari o circolari che siano, esistono delle persone, la cui vita non è programmabile, se non tramite la creazione delle condizioni di libertà e di rispetto della dignità umana: unico terreno fertile per costruire il proprio futuro.