Da anni Operazione Colomba si occupa di creare spazi di dialogo e convivenza. Uno spunto di riflessione arriva da due suoi attivisti in Albania, dopo la strage di Parigi. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
(Articolo originariamente pubblicato sul portale di Operazione Colomba)
Nel mese di novembre, l’Albania ha celebrato i 25 anni di rinascita della fede religiosa, dopo la caduta di un regime comunista rigidissimo, che impose l’ateismo di Stato e fomentò la profanazione di numerosi luoghi di culto, la persecuzione degli esponenti religiosi delle fedi principali del Paese e anche di numerose famiglie, uomini e donne comuni, costretti a tramandare le proprie tradizioni e i propri valori nel segreto delle cantine.
Il 4 novembre è stata ricordata la prima messa celebrata al cimitero di Rrëmaj, nel lontano 1990 , quando don Simon Jubani – sacerdote di Scutari, nato nel 1927 e morto nel 2011 – decise di presiedere e di pregare alla prima celebrazione cattolica pubblica dopo la caduta del comunismo. Poche persone parteciparono, in prevalenza donne e bambini. Nonostante il cordone di forze di sicurezza che circondava il cimitero, i fedeli se ne andarono incolumi mano nella mano al termine della funzione.
Venerdì 13 novembre alla Moschea di Piombo, sotto le mura del castello Rozafa, alle porte di Scutari, è stata ricordata la riapertura della moschea e la prima funzione religiosa dalla caduta del regime. Dinanzi a una folla in preghiera, gli Imam hanno ricordato i momenti più bui e difficili della storia albanese, in un’ottica di rinnovamento della fede. Interessanti sono state le parole di uno degli Imam presenti , che contro ogni tipo di violenza ha detto: “L’estremismo e il terrore non hanno fede […] mentre noi siamo schierati nella via della pace, del dialogo, dell’armonia e della collaborazione”.
Ex post paiono parole quasi profetiche. Quello che resta delle celebrazioni è la speranza che continui il dialogo interreligioso e la convivenza pacifica che caratterizzano la società albanese. Di fronte agli attentati terroristici a Beirut, a Parigi, in Nigeria e in numerosi altri luoghi nel mondo, da questo angolo di Balcani la coesistenza religiosa continua a essere una testimonianza concreta, scandita dal richiamo alternato di muezzin e campane. In Albania si respira un’aria di fratellanza interreligiosa unica, che aveva colpito anche Papa Francesco quando visitò il Paese nel settembre del 2014.
Episodi di violenza su vasta scala pongono numerosi interrogativi, che si riflettono anche nella vita quotidiana di chi lavora ogni giorno per creare ponti di dialogo tra persone in conflitto. Come si può parlare di perdono di fronte a simili atti? Quanto spazio si può lasciare alla rabbia che sorge spontanea e immediata?
Parafrasando le parole di Padre Gianfranco Testa – un missionario della Consolata, fondatore dell’Università del Perdono – non dobbiamo perdonare gli atti di violenza gravissimi che ogni giorno vengono compiuti nel mondo; né tanto meno possiamo perdonare a nome di altri la sofferenza delle vittime e il loro dolore. È giusto che le vittime esprimano il loro dolore e che la società lo comprenda, lo faccia suo e ne sia compartecipe. Occorre quindi lavorare su questo dolore, trasformare la rabbia e incanalarla in qualcos’altro, per evitare che sia essa a guidare le azioni di singoli uomini e di intere società. Vivere sotto il controllo emotivo della rabbia, infatti, significa indirizzare i propri pensieri verso un desiderio di vendetta che non sarà mai sazio.
L’uomo è fortunato: ha il potere di scegliere di non vivere solo provando odio, rancore e desiderio di vendetta. In questo meccanismo di rabbia percepita e trasmessa, si inserisce infatti la possibilità di esercitare la propria capacità di perdonare. Ma cosa si intende per perdono? Non va confuso con la riconciliazione. Il perdono è un regalo per se stessi, una predisposizione del cuore che aiuta a vivere più liberi. Ogni uomo può scegliere personalmente il perdono nella propria vita. È una questione di scelta. Perdonare riguarda solo noi stessi, e dunque è sempre possibile; perdonare è un guadagno, in termini di serenità d’animo e di liberazione dal dolore; perdonare è ben diverso da cercare una riconciliazione con l’altro.
A questo proposito, poniamoci un’ultima domanda: possiamo essere uomini e donne che di fronte alla violenza hanno il coraggio e la creatività per trovare nuove risposte? Possiamo. Anzi, dobbiamo. Possiamo essere promotori di un cambiamento che passa attraverso la conoscenza e il dialogo. Possiamo esercitarci nella coesistenza con persone appartenenti a fedi diverse, a realtà diverse, a gruppi diversi. Si può edificare un luogo umano e fisico di convivenza.
In Europa l’Albania è un esempio di questa possibilità: nel cielo di Scutari si stagliano i minareti di molte moschee, il campanile della cattedrale cattolica, la croce illuminata dei francescani, il campanile della chiesa ortodossa. A Tirana, in un’area ristretta tra piazza Skenderbeu e il fiume Lana, trovano spazio la nuova cattedrale ortodossa, la cattedrale cattolica e la moschea antica. Tutte e tre sembrano stringersi intorno all’eroe nazionale a cavallo, che troneggia dal centro della piazza intitolata a suo nome. E proprio lui sembra dirci: da questa consapevolezza, si può iniziare a camminare per creare spazi di Pace e Riconciliazione. Occorrono uomini e donne che abbiano il coraggio di questa scelta.