L'ex direttore generale della Juventus, Luciano Moggi, radiato a vita in Italia da qualsiasi attività legata al calcio è approdato ora in Albania. Un commento
Dopo le canzonette Rai e le paillettes di Mediaset, dopo gli autobus Iveco, gli sciampo scaduti, i call center; dopo i rifiuti via camion di Manlio Cerroni e i rifiuti via etere del nipote Francesco Becchetti; dopo Barbara d'Urso, Simona Ventura, Alessio Vinci; dopo le pizzerie e gli aspiranti medici che di qua dal mare non hanno superato i rispettivi test; l'ultimo tramonto italiano a scommettere sulla rilindje albanese è il redivivo Luciano Moggi. L’ex direttore generale della Juventus di “Calciopoli” che la Federazione italiana gioco calcio ha radiato a vita da qualsiasi categoria, è, dal 27 aprile 2017, consulente del Partizani Tirana, una delle tre squadre della capitale albanese, uno dei club più titolati della massima serie.
"Essere italo-albanesi è un incubo, ti costringe a vivere due volte il peggio della cultura italiana". Qualche anno fa, passando davanti agli studi tiranesi di Agon Channel, il mio amico Sokoll, nato e cresciuto tra i due paesi, aveva condensato in questa frase la beffarda tragedia che sin da piccolo accompagna la sua identità. Mentre chiudevo questa pagina della «Gazzetta» ho pensato a lui e a tutti i miei coetanei nati oltre Adriatico, ho pensato all'Italia, il mio paese vetusto. Ho pensato alle mille sfumature di bruttezza che una notizia apparentemente irrilevante assume agli occhi di chi vive e spera nell’Albania odierna.
Una notizia irrilevante
Non facciamola troppo lunga, direte voi. Luciano Moggi non è mica il nuovo ambasciatore d’Italia in Albania. È soltanto l’ultima anticaglia televisiva che, fuori tempo massimo, cerca di riciclarsi a est. Lo storico legame italo-albanese può vantare ben altre istantanee: è De Biasi accolto a “Palazzo Rama” dopo la prima qualifica della nazionale albanese agli europei di calcio; sono gli stadi di Genova e Palermo, rossi Albania, che cantano l’Inno di Mameli; è, fuori dai campi di calcio, il mezzo milione di albanesi felici di vivere in Italia, le migliaia di studenti che ogni anno dall’Albania si iscrivono nelle Università italiane; è Romano Prodi che atterra in elicottero al porto di Valona (aprile 1997); è il memoriale di Otranto dedicato alla tragedia della Katër i Radës (28 marzo 1997); è la nave Vlora (agosto 1991); sono le tonnellate di derrate mediche e alimentari giunte al porto di Durazzo nel corso dell’Operazione Pellicano (1991-1993); è Albano che intona “O sole mio” nello straripante stadio di Tirana, dove per mezzo secolo si poté esibire solamente Enver Hoxha (settembre 1989); sono i fratelli Popa che bussano alla porta dell’Ambasciata d’Italia (dicembre 1985). E così proseguendo all’indietro, attraverso il comunismo albanese e il fascismo italiano, sino ai risorgimenti e alla nascita statuale dei due paesi.
Quanti drammi e quanta Storia con la esse maiuscola nutrono le relazioni italo-albanesi! Affiancate al viso di Moggi, l’intensità di queste immagini smaschera l’irrilevanza di questa “nuova avventura”, per usare le parole di Moggi stesso. Eppure è questo contrasto, (est)eticamente tremendo, che descrive meglio di qualsiasi parola la decadenza dello scambio tra i due paesi. Un tempo l’un per l’altro importanti.
Cambia il bar, cambia la notizia
Letta da un bar italiano, la notizia non stupisce. Moggi è un uomo radiato a vita dal calcio di cui fu il padrone. Il 16 marzo 2017 il Consiglio di Stato ha respinto il suo ricorso e ribadito la sentenza della giustizia sportiva. Poco più di un mese dopo, rimasto senza opzioni, il nostro eroe “ha scelto” l’Albania. Quella di Moggi è la storia di un potente detronizzato, la parabola di una persona caduta in disgrazia, che ha perso ogni ruolo e fama nel mondo che per anni lo aveva adulato. Per quale motivo il protagonista di una storia simile dovrebbe rifiutare un posto di primo piano in un paese vicino? “Mi fa un caffè?”, chiede il lettore medio di Cuneo mentre scuote la testa per l’ingenuità albanese: in Albania non c’è mai stato, “e per fortuna, viste le persone che accolgono…”. Risolini, una colpetto alla bustina di zucchero, e in Italia si volta pagina.
Proviamo ora a leggere la stessa notizia da un bar albanese, possibilmente con gli occhi di un ventenne tifoso del Partizani, che essendo nato attorno al 2000 con ogni probabilità non conosce bene né la Rai né l’italiano. Questo ipotetico tifoso, che per comodità chiameremo Erind, sa che la sua squadra – che si chiama così perché nacque nel dopoguerra, come “team dell’esercito” – ha vinto 15 campionati, 15 Coppe d'Albania e una Supercoppa; ma soprattutto ne sogna il futuro, perché nelle ultime due stagioni la rossa maglia del Partizani si è addirittura affacciata in Europa, partecipando ai preliminari di Europa e di Champions League. Sull’onda dei successi della nazionale, il rilancio europeo dei club albanesi è infatti diventato un’aspettativa credibile. Siamo ancora allo stato embrionale, ma una vera scena calcistica è possibile e in crescita. Su questo contesto di speranze, alla vigilia degli ottant’anni, atterra dall’Italia Luciano Moggi. “Grazie a questo accordo, grazie all’esperienza e alle competenze che possiede Moggi – ha dichiarato alla stampa il presidente del club Gaz Demi – la nostra squadra potrà raggiungere i massimi livelli non soltanto in patria, ma anche in campo internazionale”. Dinanzi a questo annuncio, nessun giornalista in sala ha pensato di alzare la mano per chiedere se fosse uno scherzo.
Nelle motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha chiuso il processo “Calciopoli” (peraltro dichiarando prescritti i reati contestati all’ex dirigente della Juventus) alla “nuova promessa” del calcio albanese è attribuito “un vero e proprio mondo sommerso, la cui carica intrinseca di offensività degli interessi ‘ultra individuali’ è stata particolarmente intensa e tale da sconvolgere l’assetto del sistema calcio, fino a screditarlo in modo inimmaginabile e minarlo nelle sue fondamenta, con ovvie pesantissime ricadute economiche”. Ipotizziamo che, nonostante la sua giovane età, Erind capisca l’italiano, e possa leggere la sentenza della Cassazione. Quale chance avrebbe di sognare un futuro vero e diverso: per la sua squadra del cuore, per il calcio albanese, per il suo paese, e in fin dei conti per se stesso?
Un fatto grave e triste
Scegliere e pagare come consulente un antisportivo che ha distrutto uno dei più importanti campionati europei non è un errore, è una follia e uno sputo in faccia all’educazione sportiva di migliaia di giovani appassionati. Bisogna avere il coraggio di dirlo: se, in Albania, c’è ancora qualcuno che pensa che questo tipo di operazioni abbia un senso è perché, insieme alla criminalità organizzata, le relazioni italo-albanesi sviluppatesi negli anni della transizione portano con loro due problemi “di fondo”.
Primo problema: l’insopprimibile senso di superiorità di certi italiani, che in Albania si comportano peggio di ex coloni francesi in Algeria, nella certezza dell’impunità. Non si tratta, sia chiaro, di un retaggio fascista, ma della spocchia senza ideologia di chi, semplicemente, ha più soldi in tasca. La disparità economica tra due paesi che la storia, la geografia e la politica hanno reso e rendono partner è un fatto oggettivo; ma se, da parte italiana, gli imprenditori di bassa lega disposti a sfruttarla avessero goduto di meno acquiescenza istituzionale, meno Becchetti e meno Moggi sarebbero giunti là dove per decenni la nostra cultura e il nostro calcio hanno goduto di un credito sconfinato: un credito ormai esaurito, perché malissimo usato da un “sistema Italia” che non è in grado di esprimere una sana egemonia culturale. Un fatto di cui l’Albania odierna costituisce la dimostrazione fisica.
Secondo problema: l’insopportabile senso di inferiorità della classe dirigente albanese, nata e cresciuta durante il comunismo, priva di anticorpi intellettuali e insaziabilmente ghiotta dei peggiori aspetti del capitalismo occidentale. Se gli italiani in Albania esprimono il peggio, è anche perché gli albanesi stessi consentono questo export. Moggi è stato ricco ed è stato potente, agli occhi del presidente Demi probabilmente è bastato questo. Ed è esattamente per questo tipo di mentalità che la sua squadra rischia di rimanere una squadra di periferia di un paese che interessa a pochi.
Siamo negli anni venti del terzo millennio, Italia e Albania devono scegliere cosa rappresentare l’una per l’altra. Se l’Italia è davvero “l’ambasciatrice” dell’Albania in Europa giochi questo ruolo, con la serietà e l’energia che è richiesta a un paese guida in una fase cruciale. Se l’Albania vuole davvero diventare un paese europeo, la smetta di importare rottami riverniciati, la smetta di scambiare per oggetti preziosi le bottiglie di Coca Cola scartate dall’Adriatico. Le povertà e le contraddizioni della transizione non sono finite, ma qualcosa di utile l’hanno già insegnato. Due paesi saggi e veramente “amici” cercherebbero, insieme, di crescere: di ripartire dai propri errori per non ripeterli all’infinito.