Paolo Rossi ha iniziato la propria tournée a Scutari, ottanta chilometri da Tirana. Angelo Saso, giornalista di RaiNews24, lo ha intervistato. Riprendiamo il materiale dal sito di RaiNews24 .
Come ti è venuto in mente di fare uno spettacolo in Albania? Come ti è venuto in mente di partire da Scutari?
La risposta più sincera è perché sono completamente pazzo, probabilmente. Ma in questa pazzia c'è, credo, una logica molto sana che è quella prima di tutto di voler crescere ancora con il teatro e per farlo devi, come penso per tutti i mestieri e per tutte le arti, allargare le tue conoscenze al di là di quello che leggi sui giornali, al di là di quello che vedi in televisione. Quindi, è da un po' che noi come compagnia incominciamo a mettere il naso fuori dall'Italia. Siamo andati a Belgrado, in Polonia, siamo andati qualche puntata in Francia. L'ente teatrale dell'Emilia Romagna ci ha proposto questo viaggio in Albania dove allestire lo spettacolo e io credo che sia importante il periodo delle prove, soprattutto con il nostro metodo che è un metodo che si basa molto anche sull'improvvisazione, su un lavoro disciplinato e anche molto collettivo, in un luogo che era sicuramente lontano dai nostri pensieri finché poi non ce l'hanno proposto. Ci è andata benissimo.
E' la ricerca di un luogo di confine continuo?
Si, un luogo di confine, un luogo del Mediterraneo e soprattutto anche la curiosità di vedere, per la particolarità di questo Paese, come loro vedevano noi. Io credo che ci conoscano attraverso un tipo di programmi televisivi che possono far pensare, immaginare, un italiano o come un presentatore o come uno che vince a un quiz o una velina o quant'altro.
E che immagine hai riscontrato qui, venendo in Albania?
Io credo che, innanzitutto, uscire dal proprio giro significa cancellare i cliché che hai degli altri e tentare di far cancellare agli altri i cliché che loro hanno su di te. La cosa importantissima, oltre a questa, nella nostra permanenza e nell'allestimento dello spettacolo qui, è stata quella che tutta quest'aria che si respira, anche se siamo stati solo due settimane, ha influenzato lo spettacolo, ha impregnato la drammaturgia dell'opera e penso che noi come qui abbiamo portato un po' d'Italia, raccontato un po' un'altra Italia, quando ritorneremo in Italia, lo spettacolo sarà anche un po' albanese.
Che immagine avevi dell'dell'Albania prima di venire qui? Come è cambiata dopo questo evento?
Assolutamente non avevo immagini. Sapevo che era una terra molto dura, dove c'erano dei problemi reali, concreti, problemi che noi probabilmente abbiamo dimenticato da tanti anni e basta. Invece è una terra molto bella, ci sono dei luoghi particolarmente suggestivi ma al di là di questo, ripeto, gli albanesi sono persone gentilissime, affabili anche se respiri, chiaramente, una sottotensione di violenza dovuta probabilmente all'esigenza più elementare, che è quella della sopravvivenza. Un'immagine che è completamente lontana da quella che noi abbiamo in Italia.
In una realtà così di sussistenza, c'è spazio per il teatro?
Il teatro si ammazza difficilmente. Stranamente, proprio nei momenti e nei luoghi più duri, acquista vigore e acquista stimoli. Questo è un altro motivo per cui siamo venuti qui. Anche quando hai pochi mezzi, qui abbiamo una serie di problemi che in Italia non abbiamo più da una vita, con la luce, mancano i fari, le scene vengono costruite al momento, sembra quasi che tutta quest'emergenza venga incontro anche al nostro metodo di lavoro che cerca a volte artificialmente a volte di ricrearla, ha fatto si che nascesse un'ottima combinazione, insomma.
Tu hai usato la metafora di "salto nel buio" ieri, ma ho visto che non è tanto una metafora, vedendo il teatro, la scena dietro le quinte. E' un salto nel buio.
Si, io credo che in teatro debba succedere sempre qualcosa e io prediligo che succeda qualcosa di acrobatico. E' importante, visto che facciamo un mestiere che il destino o la nostra volontà, il nostro talento ci ha regalato, credo uno dei più bei mestieri che una persona possa fare, di renderlo comunque vivo cercando sempre sfide ulteriori, altrimenti tanto varrebbe andare a fare l'impiegato ma l'arte non prevede impiegati.
Senti, invece, che cosa può imparare o almeno capire, secondo te, il pubblico albanese che viene a vedere Paolo Rossi?
Intanto noi non ci poniamo il problema di raccontare a loro i loro modelli di vita o i loro pensieri. Dopo quindici giorni che siamo qui, non possiamo far altro che lasciarci influenzare da tutto quello che è questo Paese, che ha un'energia fortissima, e raccontargli, attraverso la loro energia, uno spicchio d'Italia, balbettando delle storiellette poi alla fine, però con un senso che è quello di un'Italia assolutamente non televisiva.
Questo termine "balbettare" è molto interessante. Perché non si può parlare in quest'epoca?
Noi facciamo uno spettacolo che si chiama "Il signor Rossi contro l'impero del male" però abbiamo scartato subito l'ipotesi, che ci sarebbe venuta molto facile e molto comoda di applicare quelli che possono essere i criteri della satira più facile, da cabaret, che ormai come mestiere conosciamo perfettamente. Allora quello è il bersaglio, questa è la tecnica, arrivo con quella battuta e colpisco l'obiettivo. Parlare dell'impero del male non è così facile. Noi, tuttora, nello spettacolo che è, come si dice in gergo, un work in progress, non individuiamo un male, una capitale del male o un imperatore del male, anche se facciamo nomi di persone e di luoghi. Credo che il problema più grosso, quello che è venuto fuori anche durante queste prove, è capire che oggi c'è una grande difficoltà nel raccontarci le nostre storie, sia a livello pubblico, privato ,politico e sentimentale. E' come, è facile a dire, quando non riesci a raccontare la storia del tuo malessere e stai ancora peggio. E' solo quando incominci a raccontartela che, non solo la sofferenza, il dolore e quant'altro, i problemi diventano meno pesanti e tutto si alleggerisce, ma incominci anche a capire chi sei, che ruolo hai in questa storia e magari a individuare anche una strategia per uscire dalla palude in cui ci troviamo. Lo ripeto però, siccome spettacoli come questi devono essere innanzitutto onesti, quello che riusciamo a fare è solo balbettare. Però questo balbettare è già qualcosa.
Senti, il titolo come è nato, a cosa fa riferimento esattamente l'impero del male? Quale impero del male?
E', infatti, l'impero del male è venuto fuori dopo che ho sentito il presidente degli Stati Uniti citarlo. Mi ha ricordato dei film di serie B, sai quelli Totò contro Maciste, i fumetti Zagor chi so io, c'è Tex Willer. Tutta questa cosa che io amo molto perché è molto pop poi. E quindi ho riportato il signor Rossi, quello che sta nella costituzione come personaggio, dentro una sorta di percorso, per tentare di capire, prima di tutto noi, dov'era l'impero del male, chi era l'imperatore del male o, se ce n'erano di più, quanti erano e come si comportavano. Ne è venuto fuori un varietà, un varietà credo abbastanza allucinante, allucinogeno e credo che sia la strada giusta perché i varietà sono il genere che, assolutamente, nei periodi più difficili, nei momenti più neri, persino durante le guerre, funzionano a meraviglia, forse perché la risata, in certi momenti è una buona compagna della paura. Credo che il male oggi sia quello, una paura che ci è indotta soprattutto dalla televisione. Io non so chi è l'imperatore del male e dove sta l'impero del male ma la televisione sicuramente è il suo miglior sicario.
Ma, quindi, è la TV come mezzo oppure l'utilizzo che se ne fa?
No, assolutamente. A me la televisione piace. Mi piace farla e anche vederla. E' un buon elettrodomestico, con grandi potenzialità anche artistiche e informative. E' l'uso, chiaramente, che si fa della televisione, sia da parte di chi trasmette, sia da parte di chi vede. E' inconcepibile accettare il pensiero di quelli che furono i massimi teorici della televisione che dicevano che, se una foresta brucia ma non viene ripresa in televisione, questa foresta non è mai esistita. Questa, soprattutto per un teatrante, è un'affermazione da combattere. Dopodiché, oggi, voglio dire, sembra che addirittura ci stia risucchiando. La gente, se non va in televisione, non riesce ad elaborare un lutto, non riesce a risolvere un problema esistenziale o caratteriale. E' come se stessimo entrando noi tutti dentro la televisione, solo che il giorno che entreremo tutti dentro la televisione non ci sarà piu auditel perché non ci sarà più nessuno a casa, saremo come risucchiati da questa scatola, da questo blob.
Tu come preferisci essere definito, un giullare , un folletto, un clown? Che cosa sei?
Guarda, io ogni mattina mi alzo e mi chiedo chi sono. Poi, ogni tanto la sera, quando lavoro, mi do una risposta. Credo di essere un commediante, un comico, un saltimbanco, ma è molto difficile darsi una definizione in quest'epoca. Io sono una persona che lavora in teatro e ogni tanto cerca di fare un po' di televisione decente.
Il fatto che tu in questo spettacolo abbia abbandonato i tuoi amati classici, cosa vuol dire? Che i classici non riescono più a spiegare la realtà di questi giorni?
No, i classici sono sempre importanti.
Vuoi dire che Molière riesce ancora a spiegarci in che epoca viviamo adesso?
Guarda, sì. Io ti devo dire una cosa su questo. Quando andammo in Polonia, al festival di Cracovia e portammo Molière, togliemmo tutti i riferimenti al capo del governo nostro perché ci sembrava, non inopportuno ma inutile e restammo un po' sul vago. Lo spettacolo ebbe un grossissimo successo e i giornali, il giorno dopo dissero, più o meno, sono chiari i riferimenti a Lec Valesa. Io sapevo chi era ma non sapevo cosa stava facendo, cosa stava combinando. Credo che questa sia la forza di Molière, che riesce sia nello spazio che nel tempo, a raccontare qualcosa di universale. Io adesso ho fatto quest'altro viaggio perché mi sembra una buona cosa, ogni due o tre classici, tentare una strada più personale, più originale, che nasca dal niente, che nasca da un problema e non da un testo conosciuto. Ho fatto Shakespeare, Molière, la Costituzione, che è il terzo classico, e adesso c'è questo varietà.
Nella tua vita umana e professionale, l'11 settembre ha segnato una data, diciamo di discrimine?
Credo che, per tutti, questo sia accaduto.
Professionalmente, hai in qualche modo cambiato il tuo modo di fare spettacolo?
Diciamo che, fino a quel giorno avevo le idee abbastanza chiare, pensavo di avere le idee abbastanza chiare su quello che stava succedendo. Riuscire ad avere le idee chiare è stata una conquista faticosa perché io sono nato in terra di confine e sono cresciuto sentendo raccontare le storie più disparate e che non mi facevano vedere il mondo in maniera molto, come dire, chiara perché c'erano dei chiari e degli scuri. Erano delle storie che non partivano da principi politici e morali o da concetti ideologici, ma da storie che erano accadute a, che ne so io, a mio zio o a mio padre o ad amici di mio zio, di mio padre, di mia madre o dei miei nonni, ed erano molto contrastanti. Era difficile capire dove stava il bene, era difficile capire dove stava il male. Con fatica, negli anni, sono riuscito a vedere il mondo con una visione più nitida e ostentavo sicurezza, credo anche nei miei lavori. E' stata una conquista che, in realtà, mi ha portato ad un atto di presunzione e l'11 settembre mi ha riportato indietro nel tempo perché non era più tutto così facile da comprendere. Allora, quando uno fa il mio mestiere, ha due possibilità a questo punto: o si rifugia in una comicità evasiva che va benisssimo, io apprezzo molto chi la fa, mi piace guardarla anche, ma che nel mio caso, sarebbe stata solo una caramella che guasta i denti e quindi, l'unica altra strada che c'era era quella di affrontare la confusione, come comico e come teatrante, e credo che forse i risultati, le conseguenze anche dell'influenza dell'11 settembre sul mio lavoro si incomincino a vedere probabilmente più adesso, in questo spettacolo che nasce qui in Albania, che non nel signor Rossi e la Costituzione che nasceva da un'esigenza di satira politica molto necessaria in quel momento in Italia.
Se avesse vinto Kerry avresti accantonato questo spettacolo?
No, non cambiava niente. Dovevo togliere due gag, niente di più. Anche perché, ripeto, non sono partito con un metodo tradizionale e quindi sarebbero cambiate due gag, ma forse sarebbe nato, che ne so io, un monologo in più. Io credo che la satira politica non è un genere ben educato, non è una barzelletta o una serie di tormentoni messi in fila per far bella figura in una serata di gala o in una convention. Come diciamo anche nel nostro spettacolo, è un divertente atto di violenza immaginativa ma che alla fine parte da dei principi molto semplici, molto elementari. Un Paese che teme la satira politica, come diciamo nello spettacolo, è un Paese che è governato da persone che hanno paura di se stesse, delle loro ombre, anche quando va via la luce, ed è molto triste vivere in un Paese così per me, professionalmente.
Secondo te si può far ridere, si può far riflettere con un sorriso su un video di Bin Laden? Rispetto al fondamentalismo, qual è l'approccio tuo?
L'approccio è quello tradizionale. Sia nella comicità che nell'improvvisazione ci sono delle regole. Una delle regole più importanti è la distanza. Mi spiego. Se succede un fatto buffo ad un funerale, in quel momento non si ride, lo si incamera nel cervello e rimane lì. Dopo una settimana, quindici giorni, venti giorni, anche le persone più coinvolte, ricordando quel fatto e raccontandoselo, potranno tranquillamente e liberamente ridere. Non puoi ridere lì. Io credo che anche la satira politica e la comicità debbano comunque avere dei limiti ma questi limiti sono molto semplici, sono pochissime regole. Ci vuole un po' la distanza, si può ridere su tutto con la distanza. Dipende però cosa c'è dietro la risata, quale esigenza ti muove a raccontare quella storiella o quella commedia. Se il rapporto tra quello che fai e quello che pensi e quello che sei è onesto e hai un talento recitativo, perché ci vuole anche quello, anzi, soprattutto quello a volte, riesci poi a raccontare qualsiasi cosa e sfiorare la volgarità senza toccarla e sfiorare il cattivo gusto senza caderci dentro. Dipende da tante cose, da poche regole e dalla tensione recitativa che l'attore ha. Ci sono attori che possono dire delle parolacce e non danno fastidio, perché le sanno calibrare, le sanno dire al momento giusto, perché in quel momento non ci sarebbe altro da dire che quella parola, non potresti usare altro che quel termine per far capire il concetto e altri che sono volgari anche dicendo delle parole normalissime ma che poi provocano doppi sensi che a me, francamente, lasciano così, insomma.
Tu riesci a immaginarti, non so, Bin Laden o Bush, che poi forse sono due facce di uno stesso bianco o nero, che ridono?
Sì, sicuramente. Però, probabilmente non ridono per le stesse cose per cui rido io, perché nella comicità c'è anche un'altra regola. Si dice, Bergson o quanti altri, che una delle cose più comiche è la rottura di un automatismo, cioè, una persona cammina, scivola su una buccia di banana, cade, ti viene da ridere. Questa regola però nella satira politica, quando tu metti dei concetti un momentino, non dico più seri o più profondi, ma più complicati, più complessi, più articolati, cambia perché è chiaro che, se questa persona che cammina e scivola sulla buccia di banana è il proprietario di un condominio che viene a riscuotere, che ne so io, l'affitto, allora ci saranno diverse reazioni. L'inquilino che lo aspetta con, non dico terrore, ma comunque non in maniera simpatica, e lo vede scivolare, ride. Il portinaio ride ma in un modo diverso, di nascosto. Il parente, l'amico di questa persona o un suo collega, magari non riderà. Bisogna vedere in che posizione ti metti quando cade la persona che scivola sulla buccia di banana ed è per questo che la satira politica non è obbligata a far ridere tutti, non è obbligata ad essere sempre divertente, per cui immagino che Bin Laden rida di cose che a me mettono tristezza o terrore. Lo stesso discorso vale per Bush che, probabilmente, ride anche senza sapere perché, a volte.
Senti, come ti dicevo ieri, non so, la metafora dello scrivere sulla sabbia tu la senti come propria del tuo lavoro?
Sì, è una cosa che da un lato mi esalta e dall'altro mi deprime perché, quando mi guardo indietro e, adesso incomincio a guardare, a vedere tante cose indietro, come riesco ad immaginarmene ancora tante, spero, davanti, non mi è rimasto niente, ma non è vero perché la bellezza è anche, a volte, incontrare delle persone che hanno visto i tuoi spettacoli, a distanza di anni è rimasto nei loro ricordi, come nei miei, però incontrandoci e ricordandoceli assieme, in qualche modo riviviamo quel momento, anche se eravamo messi in posizioni diverse: io sul palco e loro giù in platea. Io faccio questo lavoro con molto amore e molta passione, credo che l'obbligo minimo per qualcuno che fa comicità in satira politica, sia anche ancora, come anche per gli altri generi, quello, quantomeno, di portare del conforto. Il conforto è un atto che comunque rimane solo nella memoria. E' così, è stato così per Shakespeare, è stato così per Molière. Certo, loro hanno lasciato dei testi scritti, io, improvvisando, un po' meno però io ho qualche cassetta e loro non avevano questo vantaggio. Vedi che la televisione serve, a volte.