Il cosiddetto protocollo di intesa italo-albanese, siglato quasi un anno fa dai primi ministri d’Italia e Albania, Giorgia Meloni ed Edi Rama ha appena iniziato a funzionare. Sono molti i dubbi e le riserve su questo subappalto della frontiera, in primis i diritti e le condizioni dei migranti
(Originariamente pubblicato sulla rivista "Gli Asini " il 15 ottobre 2024)
È passato quasi un anno da quando, il 6 novembre 2023, i primi ministri d’Italia e Albania, Giorgia Meloni ed Edi Rama, hanno annunciato la firma di un protocollo d’intesa per la costruzione, su suolo albanese, di due centri per migranti.
L’accordo, che s’iscrive in una logica più ampia (europea e non solo) di delocalizzazione della gestione dei flussi migratori, avrebbe dovuto concretizzarsi in fretta, con le due strutture nel nord dell’Albania operative già nel maggio di quest’anno.
Ma per diverse ragioni che esamineremo in questo articolo, l’apertura dei centri è stata posticipata due volte (il 20 maggio e il 1° agosto…) e una nave della marina militare italiana ha trasportato i primi sedici migranti in Albania solo il 15 ottobre. Appare assodato che il principio su cui si basa l’accordo "Meloni - Rama" – criticato duramente dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani così come dal Consiglio d’Europa – si è ormai fatto strada tra le cancellerie europee, al punto da non apparire più inaccettabile.
Il contenuto dell’accordo
Il “Protocollo per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria”, o più semplicemente l’accordo italo-albanese, affonda le sue radici nella stessa filosofia che ha partorito in Regno Unito il “Rwanda bill”, presentato dal governo dei Conservatori nel 2022 e approvato dal parlamento di Londra nell’aprile 2024, per poi essere abbandonato dall’attuale governo laburista di Keir Starmer.
L’idea di fondo è quella di spostare la gestione delle migrazioni al di fuori dal territorio nazionale, in modo da diminuire la gestione delle domande di asilo o il numero di migranti in arrivo nel proprio paese (una delle promesse dell’allora candidata Giorgia Meloni durante la sua campagna elettorale nel 2022). Nel caso italo-albanese, le strutture in costruzione a Gjadër e Shëngjin, due località situate tra Tirana e Scutari nel nord dell’Albania, dovrebbero ospitare una (piccola) parte dei migranti salvati nel Mediterraneo dalle autorità italiane.
Nel dettaglio, il protocollo (che ha una validità di cinque anni, rinnovabili per altri cinque) prevede che i due centri abbiano una capienza massima di tremila persone e servano a valutare le domande di asilo secondo una procedura accelerata di 28 giorni al massimo, in modo da permettere il transito di 36mila migranti all’anno (per un confronto si consideri che nel 2023 sono sbarcate in Italia circa 158mila persone).
Nel porto di Shëngjin, dove saranno trasportate le persone salvate in mare, sarà operativo un centro d’identificazione, screening sanitario e di raccolta delle domande di asilo. La permanenza dei migranti in questo luogo sarà dunque breve, anche per non compromettere l’economia turistica di Shëngjin, una località che si anima durante l’estate con l’arrivo dei vacanzieri, soprattutto dal Kosovo.
A Gjadër, un comune agricolo a una ventina di chilometri di distanza, sorgerà invece un centro di permanenza dove saranno trattenuti i richiedenti asilo in attesa che la loro domanda venga presa in esame o, nel caso in cui questa fosse respinta, in attesa del rimpatrio, che avverrebbe sempre dall’Albania.
Secondo il testo dell’accordo, all’interno delle strutture dovrebbe vigere il diritto italiano, mentre la sicurezza del perimetro esterno sarebbe affidata alla polizia albanese. Roma si occuperebbe anche di coprire tutte le spese, che secondo le prime stime si aggirerebbero attorno a 650 milioni di euro per i primi cinque anni.
Per quanto riguarda il profilo delle persone che sarebbero trasferite in Albania, la premier Meloni ha assicurato che si tratterà solo di uomini adulti provenienti “Paesi sicuri” (ovvero verso i quali è possibile effettuare dei rimpatri). Non ci sarebbero dunque né donne né minori, anche se non è chiaro a che punto sarebbe effettuato lo screening, se in nave, ovvero durante la procedura di salvataggio, oppure a Shëngjin, imponendo dunque un ulteriore viaggio, questa volta verso l’Italia, a donne e bambini.
Questo non è tuttavia l’unico punto poco chiaro dell’accordo. Ci sono informazioni contrastanti riguardo al costo complessivo dell’operazione, così come al numero di migranti che potranno essere trasportati in Albania su base annuale. Se l’accordo parla di 36mila persone l’anno, il bando del Ministero dell’Interno prevede invece una capienza massima di 1.024 persone, per un massimo di 11mila persone all’anno.
Anche l’impresa italiana a cui è stata assegnata la gestione dei due futuri centri risulta problematica. Si tratta di “Medihospes”, una cooperativa nota in passato con il nome di “Senis Hospes” e finita nel 2015 al centro di alcune inchieste giornalistiche per via dei suoi legami con La Cascina, una società commissariata per infiltrazione mafiosa.
Il processo di ratifica
Annunciato il 6 novembre 2023, il protocollo è stato ratificato dai parlamenti di Italia e Albania nel giro di qualche mese. Se in Italia la maggioranza ha fatto blocco attorno al testo, che è stato ratificato dalla Camera dei Deputati il 24 gennaio e dal Senato il 15 febbraio, in Albania, il processo di approvazione si è incagliato fin dalle prime settimane.
Il parlamento di Tirana avrebbe dovuto ratificare il testo con procedura accelerata già il 14 dicembre, ma a pochi giorni dal voto, 28 deputati della frazione “Rifondazione” del Partito Democratico (PD, centrodestra), guidata dall’ex premier Sali Berisha, e due del Partito della Libertà dell’ex presidente Ilir Meta (centrosinistra) hanno fatto ricorso presso la Corte costituzionale.
I parlamentari, tutti dell’opposizione, denunciavano la mancanza di trasparenza nei negoziati e nella stipula dell’accordo, così come il mancato coinvolgimento del Presidente della Repubblica Bajram Begaj. I deputati sollevavano inoltre un quesito di incostituzionalità, relativo alla cessazione temporanea della sovranità albanese nelle aree del porto di Shëngjin e del comune di Gjadër che sarebbero state affidate all’Italia.
Infine, il principio di uguaglianza tra i cittadini stranieri presenti in Albania e i cittadini albanesi (art. 16 della costituzione albanese) e quello relativo alla limitazione ingiusta delle libertà personali (art. 27) sarebbero stati violati considerando che i migranti sarebbero detenuti in un’area confinata fino a 18 mesi senza un giusto motivo.
Il 29 gennaio, la Corte costituzionale albanese si è espressa dando il suo nullaosta all’accordo e argomentando che nelle due aree prevista per l’accoglienza dei migranti, la sovranità albanese non verrà a mancare, al contrario saranno in vigore sia la giurisdizione albanese che quella italiana.
Il protocollo – hanno spiegato i giudici – si basa sul trattato di amicizia stipulato tra Italia e Albania nel 1995, che funge da accordo quadro che permette al governo albanese di evitare la previa concessione di un mandato plenipotenziario di negoziazione da parte del Presidente della Repubblica. Dopo la sentenza della Corte, il processo di ratifica è ripreso velocemente e il parlamento, dove il premier Edi Rama può contare su una maggioranza di 74 deputati sui 140 complessivi, ha approvato il testo il 22 febbraio, in una seduta boicottata dall’opposizione.
Ad aver messo in difficoltà i deputati dell’opposizione, che hanno preferito astenersi dal voto piuttosto che votare contro, è stato il fatto che il protocollo sui migranti è stato presentato in Albania come un favore da fare all’Italia, che negli anni Novanta ha accolto molti albanesi. “Quando l’Italia chiama, l’Albania risponde”, ha affermato ad esempio il Primo ministro Edi Rama. “L’amicizia vuol dire sostenere l’altro nel momento del bisogno”, ha detto invece il deputato albanese Denis Deliu.
Per il governo albanese, inoltre, l’accordo con l’Italia rappresenta un modo per mostrare l’Albania come affidabile ai partner europei con cui negozia l’adesione all’Unione. Si tratta di uno schema già sperimentato: nel 2021, Tirana ha accolto su richiesta degli Stati Uniti alcune migliaia di afghani in fuga da Kabul (per altro ospitati proprio a Shëngjin) e qualche anno prima alcune centinaia di membri dell’opposizione iraniana.
Le critiche al progetto
In Albania, il nullaosta della Corte costituzionale non ha dissipato tutti i dubbi riguardo alla legalità dell’iniziativa. Molti sono gli aspetti del protocollo italo-albanese che sono stati oggetto di critiche negli ultimi mesi.
Alcuni analisti accusano il governo di aver abusato con questo accordo del principio di extraterritorialità, solitamente applicato a contesti circoscritti come le rappresentanze diplomatiche, “abitate” da funzionari di stato. Al contrario, nei due centri in costruzione nel nord del paese saranno accolte, o meglio detenute, migliaia di persone, con un conseguente maggiore rischio di incidenti e reati.
Inoltre, la sentenza della Corte secondo cui nelle strutture saranno applicate entrambe le giurisdizioni, italiana e albanese, ha lasciato perplessi molti giuristi. Di fatto, Italia e Albania hanno legislazioni diverse in materia di diritto civile, penale, lavoro e famiglia. Quale prevarrà in caso di conflitti?
Molte incertezze gravano anche sulla permanenza dei migranti in Albania, soprattutto in caso di rifiuto del diritto d’asilo e conseguente rimpatrio nei loro paesi d’origine.
Diversi esperti albanesi temono che, in caso di ritardi o dispute sull’accordo, i migranti potrebbero rimanere più a lungo nel paese o tentare di fuggire dai centri di accoglienza, creando problemi di gestione in un contesto peraltro ancora permeato dall’attività delle organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani.
Per questo, un gruppo di organizzazioni della società civile albanese ha firmato una petizione contro l’accordo e ha esortato le autorità a considerare il complesso problema dell’immigrazione nel rispetto dei diritti umani e degli obblighi internazionali riguardanti la protezione delle persone in difficoltà.
Il protocollo rappresenta infatti un rischio concreto di violazione dei diritti umani dei migranti, a cominciare dalla perdita della libertà individuale, dato che i richiedenti asilo – pur non avendo commesso alcun reato – saranno trattenuti per 28 giorni.
Il diritto di difesa è anch’esso messo a repentaglio dal fatto che le udienze si terranno a distanza presso il tribunale di Roma e che i difensori potranno contare su un rimborso di appena 500 euro per recarsi in Albania e incontrare il loro cliente, una somma che secondo diversi rappresentanti della professione vanifica lo stesso diritto di difesa.
Per questo, diverse organizzazioni di difesa dei diritti umani hanno criticato aspramente il progetto. Per Human Rights Watch si tratta di “una farsa crudele e cara”, per Amnesty International l’accordo è “vergognoso, incredibilmente dannoso e illegale”.
Anche per Dunja Mijatović, Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, “le misure proposte nel protocollo aumentano in modo significativo il rischio di esporre i rifugiati, i richiedenti asilo e gli immigrati a violazioni dei diritti umani”.
“Il trasferimento della responsabilità oltre i confini da parte di alcuni Stati incoraggia altri Stati a comportarsi allo stesso modo, rischiando di creare un effetto domino che minerebbe il sistema europeo e globale di protezione internazionale”, afferma Mijatović.
Si tratta proprio di quello che vorrebbe Giorgia Meloni, che un anno fa nell’annunciare il protocollo con l’Albania ha definito il testo “un esempio e un modello da seguire”. “Da almeno 20 anni, i governi dei Paesi più ricchi – in particolare quelli di Europa, Nord America e Oceania – concepiscono e sviluppano politiche incentrate sull’esternalizzazione del controllo delle frontiere e del trattamento dell’asilo, cioè sulla loro collocazione al di fuori dei confini nazionali”, scrive Amnesty International.
Queste politiche “spostano spesso la responsabilità di accogliere e assistere le persone bisognose di protezione internazionale verso i Paesi che hanno meno mezzi per sostenerle”, oltre ad avere “un impatto concreto sui diritti umani e sulla vita delle persone”. Ma, tra i governi europei, queste politiche non destano più alcuno scandalo.
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