I volontari di OC si recano nel centro di Scutari per dare vita alla manifestazione mensile contro le vendette di sangue. (Foto di Operazione Colomba)

 I volontari di OC si recano nel centro di Scutari per dare vita alla manifestazione mensile contro le vendette di sangue. (Foto di Operazione Colomba)

In Albania è ancora presente la vendetta di sangue, una tradizione secolare basata sul codice etico del Kanun. Un incontro ravvicinato con gli operatori dell'Operazione Colomba che a questa delicata tematica rivolgono il loro impegno quotidiano

09/09/2015 -  Nicola Pedrazzi Tirana

Di fronte all’incomprensibile, la mente umana ha a disposizione due comode vie di fuga per continuare a non capirci nulla: convincersi che il problema non esista o trasformarlo in qualcosa d’altro. Negazione e mito sono gli strumenti intellettuali con cui si è soliti affrontare la realtà storica e sociale del Kanun di Lekë Dukagjini, l’antico codice etico delle montagne albanesi cui alcuni nuclei famigliari, ancora oggi, fanno riferimento.

Se, da parte albanese, di Kanun non se ne vuole nemmeno sentir parlare – "Smettiamola di perdere tempo con una cosa che non esiste e non ci rappresenta" è il commento più approfondito che ho raccolto a Tirana – al contrario i forestieri, nel tentativo di ridurre l’Albania a l’idea che avevano dell’Albania prima di partire, sono particolarmente propensi a trascurare il mosaico per concentrarsi sulla più truculenta delle sue tessere: il turista che in Irlanda compra bicchieri Guinnes e in Norvegia indossa maglioni con le renne, dall’Albania esigerà un’esperienza ancestrale, fatta di antiche saggezze, violenze claniche.

Ma non tutti gli stranieri si arrendono agli stereotipi: certamente non lo fanno i ragazzi di Operazione Colomba, volontari che hanno scelto di vivere in Albania per occuparsi di un problema di cui tanti albanesi negano l’esistenza: quello delle vendette di sangue.

Nei cieli della ex Jugoslavia: come nasce Operazione Colomba

Operazione Colomba (OC) è il corpo nonviolento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII (APGXIII), un ente di diritto ecclesiastico fondato da Don Oreste Benzi nel 1973 sull’onda dello spirito conciliare che rilanciava l’attivismo di parte laica. Oggi presente in 25 paesi di tutti i continenti, l’APGXXIII nasce e vive per contrapporre ad ogni forma di emarginazione l’arma della condivisione: l’idea di fondo delle persone e delle famiglie che vi aderiscono è quella di mettere a disposizione la propria vita e le proprie risorse affinché nessun uomo in difficoltà rimanga solo.

L’applicazione di questi valori di empatia cristiana alla crisi della ex Jugoslavia fu all’origine della nascita di OC, i cui volontari costituiscono le «truppe di frontiera» dell’intera organizzazione. Nel 1992, di fronte al dilagare del conflitto serbo-croato, un drappello di obiettori di coscienza dell’APGXXIII raggiunse i campi profughi della Croazia a bordo di una sferragliante 127, con il solo obiettivo di dare una mano ai propri vicini di casa, di condividerne la tragedia quotidiana. L’esperienza e la testimonianza che Fabrizio Bettini, Antonio De Filippis e Alberto Capannini riportarono in Italia al termine della guerra è oggi alla base del metodo de «la Colomba» (così i volontari chiamano con fierezza l’organizzazione), un «corpo speciale disarmato» che interviene esclusivamente in zone di conflitto attraverso la condivisione, la neutralità e la nonviolenza. I volontari di OC ritengono il loro metodo di intervento alternativo a quello degli eserciti regolari, non solo perché le azioni armate sono inique in sé, ma perché hanno già ampiamente dimostrato la loro inefficacia operativa. Qualsiasi sia il paese, qualunque sia il conflitto su cui OC decide di operare, il suo intento è sempre la riconciliazione tra le parti.

Attualmente i volontari di OC sono presenti in Colombia, Israele/Palestina, Libano/Siria e Albania. L’obiettivo della missione albanese, che evidentemente non è zona di guerra, è appunto quello di contrastare il fenomeno della hakmarrja (la vendetta intesa come risarcimento ad a un torto subito) e della gjakmarrja (la reazione alla vendetta stessa, estendibile all’intero clan avversario) lavorando con le famiglie coinvolte in quest’arcaico meccanismo culturale: l’obiettivo è che i diretti interessati giungano insieme al pajtimi (la riconciliazione). Dal momento che, in Albania, i ragazzi di OC sono tra le poche persone che si occupano seriamente di questo problema, per cercare di capirci qualcosa sono andato a trovare le colombe a casa loro. Si chiamano Giulia, Sara e Giacomo: trentadue, trentadue e ventidue anni.

Tre italiani a Scutari

"Stai fermo lì, veniamo a prenderti", mi intima Sara al telefono. Non è la prima volta che visito Scutari, ma il mio unico punto di riferimento rimane la statua di Madre Teresa, all’ingresso della pedonale che attraversa il centro storico. Un’anziana si inginocchia ad accarezzarle i piedi, la devozione sprigionata dai suoi gesti mi incanta, ma Giulia mi viene incontro a tutta velocità; dall’altra parte della strada la Kangoo di Sara tossisce un colpetto di clacson: capisco di essere circondato (in Albania «la Colomba» ha chiaramente assunto movenze aquiline). Dopo due svolte siamo già arrivati.

Il «quartier generale» di OC-Albania è un’incantevole casa bassa dell’inizio del secolo scorso, di quelle che a Tirana sono andate distrutte assieme al sogno di un centro storico passeggiabile. Attraverso il cortile e mi inoltro nella densa umidità della dimora. "D’inverno quando provi a metterti il pigiama passi un brutto momento – dice Sara anticipando i miei pensieri – ma d’estate con questo giardino è una festa, si tiene tutto aperto". Sulla soglia mi viene incontro Giacomo, il «piccolo di casa», arrivato sei mesi fa come volontario di breve periodo ed innamoratosi del paese. Cartelloni colorati sono appesi alle pareti, fedeli testimoni di anni di attività (la missione è aperta dal 2010); mentre una scaletta mi conduce al primo piano, alla zona notte, osservo le foto e leggo le scritte: rigorosamente in albanese, perché le colombe imparano la lingua dei paesi in cui operano.

"Al momento siamo solo in tre, ma presto arriveranno i volontari di breve periodo e le nostre singole si tramuteranno in doppie", mi spiega Giulia mostrandomi le stanze. "A pieno regime, d’estate, qui ci si dorme anche in trenta", aggiunge Sara, schernendo il disordine della sua camera. Finito il tour della casa – gelida ma splendida, con le assi dei pavimenti curvate dal tempo e spaziosi lavabo anni Dieci – sprofondiamo all’unisono nelle poltrone della sala da pranzo. Con fare malizioso le coetanee mi offrono del raki. Non mi va ma come sempre rispondo "Perché no?" (ho imparato che su questo non c’è scelta), questa volta però al posto del liquore mi viene servita una risata: "Lo berresti davvero, alle dieci di mattina? Sei matto?". Pochi istanti dopo, l’usura e l’aroma della moka sfrigolante sul tavolo mi confermeranno l’italianità della vita domestica dei miei ospiti.

Sangue e perdono: come superare una tradizione secolare

È la loro casa a dirmelo: Giulia, Sara e Giacomo sono tre ragazzi felici di vivere insieme, scherzosi su di sé e sugli altri. Ad essere fuori dall’ordinario è solo il loro lavoro. Giulia è la più anziana della missione, e senza che abbia il tempo di manifestargliele comincia a rispondere alle mie curiosità. Alcune delle cose che mi dice le avevo già lette in questa intervista, ma è bello ascoltarla parlare, perché il suo gergo è tecnico e la sua prosa impeccabile: sì, è senza dubbio una soldatessa della parola.

"Il nostro è un lavoro a più fasi: c’è la fase nelle famiglie, a contatto con il conflitto che cerchiamo di disinnescare, e c’è il lavoro di conoscenza e di informazione che svolgiamo a beneficio delle istituzioni albanesi e internazionali. Per quanto riguarda la prima, di media visitiamo due o tre famiglie al giorno tutti i giorni. In questo modo riusciamo a seguirne all’incirca 40, incluse quelle dall’area di Tropoja dove ci rechiamo 4 o 5 giorni al mese. Poi come ti dicevo c’è la parte informativa, esterna: ogni 12 del mese organizziamo una manifestazione nel centro di Scutari, e una volta all’anno scegliamo una campagna di sensibilizzazione da portare avanti su scala nazionale".

Se, soprattutto nella società albanese, qualsiasi campagna dal basso richiede un lavoro indefesso, Giulia mi racconta che non si fatica a trovare stranieri interessati al fenomeno. "Giornalisti o registi che siano, chiedono tutti la stessa cosa: vogliono che li portiamo a conoscere le famiglie “in sangue”, ovvero quei nuclei famigliari su cui incombe il peso di una possibile vendetta". Chiedo scherzoso cosa mi succederebbe se scoprissero che questo è anche il mio obiettivo. "Beh, quella sarebbe la porta", interviene Sara, allegra ma non troppo, "qui non siamo allo zoo". "Il punto", completa Giulia, "è che portare queste persone in una casa abitata da uomini, donne e ragazzi che purtroppo rischiano la vita, in cui abbiamo impiegato anni a costruire un rapporto di fiducia, potrebbe mettere a repentaglio la loro incolumità, soprattutto se alcune informazioni uscissero in modo sconsiderato e diffuso. Ammetto che il nostro è un lavoro complesso: perché se da un lato esige la riservatezza nei confronti delle famiglie che seguiamo e del loro dolore, dall’altro ricerca la visibilità, ma intesa come denuncia del fenomeno stesso, per spronare le autorità competenti, le persone coinvolte e la cittadinanza ad unire gli sforzi per combatterlo".

Comprendo la delicatezza dell’argomento, ma è proprio il lavoro sul campo che mi suscita più domande. Come si fa a entrare in contatto con queste famiglie, a identificarle? E come si viene percepiti? A quale tipo di accoglienza si va incontro? Come si fa a capire cosa è o non è opportuno dire, come comportarsi? I tre ragazzi si guardano, sospirano, dopodiché è sempre Giulia a rompere il silenzio: "Tanto per cominciare non possiamo affermare di conoscere tutte le famiglie che soffrono la minaccia di una vendetta; allo stesso modo è possibile che ci sfuggano alcuni nuclei famigliari che in reazione ad un torto subito potrebbero intendere “farsi giustizia”.  Aggiorniamo ogni giorno il nostro database sulla base delle notizie riportate dai media albanesi, ma questo non ci garantisce di essere a conoscenza di tutti i casi della zona, anche perché non tutti gli omicidi sono immediatamente riconducibili alla dinamica della vendetta, molto spesso bisogna interpretare le ricostruzioni della stampa. A volte sono le autorità religiose a contattarci a seguito di faide interfamigliari scoppiate all'interno della propria parrocchia. Comunque sia, una volta che abbiamo individuato una famiglia iniziamo a renderle visita. Chiariamo fin da subito che siamo lì per aiutarli a uscire da una situazione difficile. Inizialmente direi che prevale lo stupore: tu sei italiana e vieni qui, dicendo che ti interessiamo noi? A volte c’è anche un po’ di diffidenza, faticano a credere che non stiamo con loro per guadagno. Ma il tempo e la frequentazione garantiscono la conoscenza: buona parte delle famiglie le seguiamo da tanto tempo, ormai ci accolgono come dei figli. In generale ci sono grati perché portiamo nella loro casa un’apertura, uno scambio che per tanto tempo era mancato, spesso ci dicono parole meravigliose. Il problema numero uno dei nuclei che temono di subire una vendetta sono ovviamente i giovani: un bambino o un ragazzo non può stare chiuso in casa, per loro la tragedia è doppia. Ecco perché è fondamentale lavorare su entrambi i fronti del meccanismo vendicativo: nel momento in cui una famiglia rinuncia alla vendetta, questa si libera dall'odio e il gruppo famigliare rivale torna alla vita. Sulle gaffe cosa vuoi che ti dica, se ne fanno, non si è mai certi di fare bene, ma l’esperienza aiuta".

La distanza che separa Giulia – esile, sorriso bianco, capelli rossi – dalla gravità delle parole che pronuncia mi dà un senso di vertigine. Cerco di ricompormi e chiedo a Sara qual è la loro tecnica di dissuasione, su cosa fanno leva per arrivare ad una soluzione di pace tra i gruppi in conflitto. La risposta che incasso è indimenticabile: "La nostra soluzione risiede nel codice valoriale delle persone che assistiamo. In queste zone, il sistema di senso cui una persona che prende in considerazione la vendetta fa più o meno consciamente riferimento è il Kanun, un antico codice etico che il comunismo si vantava di aver sradicato dalla mentalità albanese ma che all’indomani della caduta del regime, complice la debolezza delle istituzioni statali nelle zone periferiche, riemerse distorto ed estremizzato. La regola delle montagne albanesi ha una sua collocazione storica: a quanto sappiamo nacque come reazione identitaria all’occupazione ottomana, rielaborando valori di derivazione cristiana. Esistono diverse versioni codificate, alcune più rigide di altre, ma essenzialmente si tratta di un codice etico imperniato sul senso dell’onore. Ora, il concetto di onore contempla il perdono, perché l’uomo che sa perdonare è il più forte di tutti. È su questo punto che lavoriamo con le famiglie che frequentiamo, persone che a seguito di un torto subito (dal più banale, come un incidente stradale, ai casi più tragici come la perdita di un parente) vivono la tentazione della vendetta: la risposta giusta, la forza del perdono, la cerchiamo nel loro codice culturale, non nel nostro. Possiamo anche spiegare alle nostre famiglie le origini della tradizione cui fanno appello, il perché oggi non abbia ragione di esistere, ma dal momento che il nostro obiettivo è la riconciliazione, è infinitamente più utile lavorare per sopire la parte conflittuale di quella regola storpiata, valorizzandone l’antica radice etica".

La filosofia delle colombe è coerente e cristallina: nessuna ingerenza esterna, nessun modello esogeno imposto, perché qualsiasi conflitto si risolve da dentro. Ma a parole qualsiasi realtà torna, bisognerebbe conoscere i risultati di quest’approccio. Stringo i denti, mi rivolgo a Giulia e faccio la domanda sgradevole: "In cinque anni sarà successo che famiglie che seguivate abbiano comunque scelto la via del sangue". "Sì, è successo ed è stato per noi un momento difficilissimo. Il nostro lavoro e la nostra speranza è quella di dare una mano a trovare una soluzione di pace, non possiamo scegliere per gli altri".

La risposta di Giulia è talmente amara che l’unica cosa che mi rimarrebbe da chiedere ai coetanei che ho di fronte è cosa li spinga a fare quella vita, a stare a contatto con una realtà così dura, così lontana da loro. Ma il quesito mi si strozza nella gola: la semplicità delle persone che ho di fronte, la totale assenza di narcisismo e di senso eroico per la loro scelta di vita, la rende, penso tra me e me, priva di senso. Durante il pranzo, chiacchierando, la chiave per comprendere me la fornisce Sara (che prima di incontrare «la Colomba» lavorava in uno studio legale di Milano e che a Pavia ha un ragazzo molto paziente che la aspetta): "Ogni tre mesi noi siamo obbligati a tornare a casa. È una misura che l’associazione prende a tutela di tutti i volontari, indipendentemente dalla regione in cui operano. I primi giorni, lo ammetto, fatichi anche solo a stare con gli amici: rispetto alla vita che hai lasciato tutto ti sembra così frivolo e leggero, ti infastidisce. Ma per fortuna dopo poco torni “normale”". "L’importante", aggiunge Giulia, "ma lo si impara con il tempo, è non sentirsi speciale o più giusto per il tipo di vita che hai scelto: se uno mi rompe le scatole parlandomi dei suoi problemi io gli rompo le scatole parlando dell’Albania, così siamo pari".

Mentre inforchetto gli ottimi maccheroni preparati da Giacomo, piccolo grande ascoltatore, penso a quanto i racconti di Giulia e Sara assomiglino a quelli dei soldati che ritornano da una missione. Dopotutto, seppur con mezzi alternativi al peacekeeping tradizionale, anche il lavoro di questi corpi è quello di interporsi tra esseri umani in conflitto.

Cifre e politica

Chi, come me prima della gita a Scutari, avesse la tentazione di archiviare la presenza di OC in Albania come "generoso afflato di filantropi un po’ matti", può cominciare a mettersi in discussione da questo link . Perché oltre a essere simpatici e determinati, quei volontari sono degli specialisti, e in quanto tali tutt’altro che naive. Le attività degli ultimi anni, portate a termine con successo in un paese dove la politica dal basso non esiste ancora, ci danno un quadro della loro competenza.

Due anni fa OC-Albania ha raccolto quasi 6000 firme in 6 mesi su un documento che impegnava i firmatari a contrastare il fenomeno della vendetta di sangue, richiedendo l'intervento dello stato. L’estate scorsa, invece, sempre alla testa di OC più di 300 persone hanno marciato da Scutari a Tirana per sensibilizzare le istituzioni locali: una settimana a piedi e 130 chilometri, passando per più di 10 comuni. L’obiettivo era quello di chiedere ai cittadini la sottoscrizione di un appello per l'attuazione della legge sulla lotta alla gjakmarrja – "una buona legge", mi spiega Giulia, "votata dal parlamento albanese nel 2005, ma per la quale mancano ancora i decreti attuativi del governo". La campagna di sensibilizzazione registrò un notevole successo: poche settimane dopo, il 23 luglio, una delegazione di colombe venne ricevuta dal Presidente della Repubblica Bujar Nishani – "ci ha ascoltato a lungo e con attenzione, garantendoci il suo impegno per l’implementazione della legge". Ma la più politica delle iniziative rimane quella di quest’anno: in occasione del turno amministrativo, i volontari di OC hanno contattato ogni singolo candidato sindaco ponendo loro specifiche domande per conoscere le loro posizioni sul tema della vendetta di sangue e quali provvedimenti avrebbero preso in merito una volta eletti. Le risposte dei candidati che hanno accettato il confronto sono state raccolte in questa pagina .

Dopo cinque anni di permanenza, va detto che OC-Albania è diventata un punto di riferimento anche per le istituzioni internazionali: rinunciando con fatica alla loro modestia, Giulia e Sara mi hanno confermato di aver ricevuto sullo stesso divano su cui ero seduto delegazioni provenienti da Bruxelles. Nel monitorare l’accesso dell’Albania all’Ue, la Commissione europea si sta infatti occupando anche della gjakmarrja: i dati che OC raccoglie sul campo risultano essenziali per stimare le attuali proporzioni del problema – "negli ultimi progress report della Commissione abbiamo ritrovato tracce del nostro lavoro", arrossisce Giulia soddisfatta.

Per coloro che, albanesi e stranieri, sostengono superficialmente che la gjakmarrja sia un fenomeno scomparso o in declino, le colombe aggiornano ogni anno questo Description Document , disponibile sia in inglese che in albanese. I numeri contenutivi, riferiti a fonti talvolta divergenti, sono in ogni caso più che allarmanti. Secondo il Comitato di Riconciliazione Nazionale operante a Tirana, dal 1991 al 2009 sono cadute vittime di vendette private 9.800 persone, mentre circa 6000 famiglie sarebbero state costrette a vivere in isolamento. Nel 2012 il ministero degli Interni albanese ha pubblicato le prime stime ufficiali relative al fenomeno: secondo i dati contenuti nel rapporto, dal 1998 al 2012 sarebbero stati 225 gli omicidi legati alla gjakmarrja, con un trend affatto decrescente. Accusati di sottostimare il fenomeno, i dati governativi non hanno mancato di destare le critiche di varie organizzazioni no profit. Al fine di usufruire di dati il più possibile oggettivi, OC ha deciso di monitorare direttamente le aree sotto al suo controllo: al momento attuale, tra Tirana, Scutari, Lezhë e Tropojë sarebbero coinvolte in dinamiche vendicative all’incirca 200 persone. Stando alle testimonianze dei locali raccolte mensilmente nel centro di Scutari, il persistere di forme arcaiche di «giustizia» privata sarebbe anzitutto dovuto alla mancanza di fiducia nella giustizia pubblica. Pur riconoscendo il problema, una fetta non trascurabile degli intervistati dichiara di non escludere a priori l’uso della forza per rifarsi di un torto subito.

Quando il qytetar ti dice che sei un malok

Durante il viaggio di ritorno, in pullman ero seduto vicino a Gjon: scutarino di nascita e pugliese d’adozione, tornato in Albania solo per passare qualche settimana con la famiglia. Capisce che sono italiano e iniziamo a chiacchierare, è molto curioso di sapere cosa mi abbia portato a Scutari. Gjon non sa nulla delle vendette di sangue, fatica a credere a quello che gli racconto. Dopo essersi chiuso in un silenzio un po’ inquietante, esterna una riflessione di una lucidità disarmante: "Devi sapere che per non affrontare i problemi che la riguardano, la mentalità albanese ha elaborato una dicotomia antropologica di comodo: quella tra qytetar (cittadino) e katunar («contadino») o ancora meglio tra qytetar e malok («montanaro» in senso dispregiativo). È una tecnica di rimozione antica come il mondo: quando fenomeni riconducibili alla tua cultura ti infastidiscono, invece di comprenderli e superarli all’interno della storia di cui anche tu fai parte li esternalizzi, inventando un capro espiatorio a cui attribuire ciò che non riesci a risolvere".

Esterrefatto dalla dichiarazione del mio nuovo amico, scartabello nello zaino alla ricerca del blocchetto. Bene o male lo acchiappo, bene o male mi appunto quanto ha detto e quanto segue: "Come gli italiani del nord insistono sul carattere meridionale della mentalità mafiosa – dimenticandosi volentieri che è al nord che la mafia fa i soldi – gli abitanti di Tirana sono lieti di scaricare tutti i loro anacronismi culturali sull’albanese proveniente dalla campagna: l’ignorante, incolto e rozzo montanaro che con i suoi modi fuori dal tempo ha inquinato il tiranese vivere civile. Se vivi a Tirana avrai sentito anche tu la frase “sono quelli gli albanesi che ci fanno vergognare all’estero”».

In effetti, confermo a Gjon, katunar e malok sono forse le due prime parole che ho imparato nella capitale. "Non mi sorprende", sorride amaro il mio compagno di viaggio, "pensa che io subisco questa cosa due volte: come albanese del nord e come italiano del sud. Peccato che giudicare una persona dalla sua provenienza non sia certo indice di “modernità”. Fatico a credere a quello che mi racconti sulle vendette di sangue, ma non mi stupisce che di questo si incolpino le montagne. Se a Tirana i politici si facessero domande moderne sulla violenza arcaica che persiste in certe zone dell’Albania, se decidessero di studiarne le profonde ragioni storiche e culturali, forse scoprirebbero che la debolezza dello Stato che dirigono è anche dovuta al fatto che negli altri paesi d’Europa il sangue non conta più dalla Rivoluzione francese, mentre in Albania la società è ancora strutturata sul legame di parentela. Possono pure continuare a prendersela con i malok del nord, ma per vedere la cugina della cassiera saltare la fila (il legame di sangue prevalere sull’uguaglianza delle regole) qui da noi non devi mica andare in montagna, puoi tranquillamente rimanere in città".

Le parole di Gjon mi aprono squarci d’infinito. Sono dure e risentite, ma suonano vere, perché sgorgano da un vissuto personale, da una riflessione portata avanti per anni a cavallo tra due paesi. Vorrei che il viaggio non finisse mai, ma purtroppo il filosofo albanese che mi è capitato di fianco scende a Fushë-Kruja: mi saluta spiccio com’è d’uso quando scendi da un furgone, non ho nemmeno il tempo di chiedergli la mail. Dopo pochi minuti intravedo «l’aquila dell’indipendenza»: entriamo a Zogu i zi, l’autobus scarica anche me. Cammino verso casa, sfinito. Mi ero alzato per cercare di capire, vado a letto con la nitida sensazione di non averci capito nulla. Ripenso a quello che ho visto ed ascoltato: ai sorrisi di Giulia, al cruccio di Gjon, al ruolo del legame di sangue nella società albanese. La frase cui tutte queste immagini mi rimandano è «Jam tironzë» («sono tiranese»), l’asserzione che il cittadino presunto d’hoc utilizza per smarcarsi da una storia secolare, pretendendo di umiliare chi è inurbato cinque minuti dopo di lui. Quella frase è figlia della stessa mentalità che su scala nazionale ha partorito il concetto «autoctonia», una categoria di successo proprio perché lega il sangue alla terra: il più puro sono io, sono qui da prima di te. Il giorno in cui, con la coscienza e la maturità di Gjon, smetteremo di circoscrivere a «terroni» e katunar le mentalità arretrate che rallentano lo sviluppo di un moderno vivere civile, il giorno in cui, come Giulia, Sara e Giacomo suggeriscono, cercheremo di trovare in noi stessi, nella nostra cultura, le virtù per metterla in dubbio e superarla, quel giorno, sogno, non avremo più bisogno né di aquile bicipiti né di colombe.