Vera Bekteshi appartiene a quel gruppo di vittime del regime di Enver Hoxa che non ha rinunciato alla memoria storica, anche a costo di non piacere a tutti. Un'intervista
Ho incontrato per la prima volta Vera Bekteshi alla Fiera del Libro di Tirana, durante la presentazione dell’ultimo libro di Antonio Caiazza. Di fronte a un uditorio ammutolito e partecipante, l’autore in persona, giornalista prestato alla letteratura e frequentatore dell’Albania sin dagli anni Novanta, presentava i frutti del suo “strano” lavoro. La notte dei vinti è un romanzo ibrido e originale: racconta una storia vera, cita documenti d’archivio e non rinuncia a fare nomi e cognomi, ma completa la realtà storica con l’immaginazione letteraria, facendo vivere al lettore gli ultimi mesi di vita del suo protagonista: il generale Beqir Balluku, il ministro della Difesa dell’Albania Popolare eliminato da Enver Hoxha a metà anni Settanta. La riuscita rievocazione di Caiazza non è stata facile per l’uditorio albanese, e nemmeno per Vera, che in quella stessa purga politica, assieme alla sua famiglia, perse la libertà.
Quella sera era seduta in prima fila, annuiva con gli occhi rossi: sapeva già tutto. Non avevo idea che fosse la figlia di un generale, mi colpì la sua commossa partecipazione. Al termine dell’incontro, timidamente, mi presentai. Vera è una di quelle sessantenni che incassa la classica approvazione dei giovanissimi – "Deve essere stata una gran bella donna!" – se non fosse che è ancora bella: il suo sguardo verde, acuminato, è più fresco e vitale di quello di un’adolescente.
Vera era emozionata: non capita spesso, in Albania, di sentir parlare della dittatura. Ogni famiglia, ogni persona che è stata toccata dal regime – in pratica tutti quelli che hanno più di trent’anni – fatica a parlarne, perché ne porta i segni. Il regime albanese si distingue dalle altre dittature comuniste non solo per l’efferatezza del sistema coercitivo – un controllo di stampo sovietico venne applicato a una società minuscola, ancora legata a logiche claniche, dunque facilmente controllabile – ma per la sua durata: la dittatura di Hoxha fu tra le più longeve al mondo, tra i suoi contemporanei solo Kim Il-sung, despota della Corea del Nord, e l’imperatore Hirohito del Giappone rimasero più a lungo al potere.
Il suo regime riuscì a perpetuarsi grazie a un efferato sistema di purghe cicliche, uno spietato e inarrestabile tritacarne in cui i potenti dell'oggi domani sarebbero caduti vittime. Ciò accadde anche alla famiglia Bekteshi: Vera, figlia del generale Sadik, ex comandante partigiano del nord, visse un’infanzia di giochi nel bllok, il quartiere della nomenklatura. Terminata l’università, la caduta del ministro Balluku, capo di suo padre, condannò lei e tutta la sua famiglia a un confino che sarebbe durato fino alla caduta del «Palazzo dei Sogni» – così la Bekteshi chiama il regime albanese, riprendendo il titolo del celebre romanzo di Kadare.
Vera Bekteshi appartiene a quel gruppo di vittime del regime che non ha rinunciato alla memoria storica, anche a costo di pestare qualche piede, di non piacere a tutti, di combattere le maldicenze e le strumentalizzazioni che coinvolgono chiunque non rinunci ad esporsi, ad esporre il suo pensiero, a sfidare il muro del silenzio. Qualche anno fa, non senza sforzo, anche Vera decise di scrivere un libro sulla sua vita. Lo intitolò «Vila me dy porta», «La villa con due porte», in onore alla sua prima abitazione, al luogo dove tutto ebbe inizio. Similmente al lavoro di Caiazza, anche il suo libro è, in un certo senso, un romanzo storico: ma al posto delle fonti d’archivio c’è la memoria personale, ecco perché l’autrice stessa, di concerto con l’editore che ne ha riconosciuto anzitutto il valore letterario, ha preferito definirlo un "romanzo autobiografico".
Dal dicembre scorso, grazie alla casa editrice BESA, il libro di Vera è disponibile anche in italiano. Subito dopo aver girato l’ultima pagina, l’ho chiamata: ci siamo incontrati a più riprese, sempre nello stesso bar. La prima volta era il 14 febbraio e lei aveva delle scarpe rosse: "I miei vicini di casa mi hanno vista uscire con queste scarpe audaci: gli è bastato questo per spettegolare… Non oso immaginare cosa penserebbero se mi vedessero il giorno di San Valentino al bar con un ragazzino!". Vera è così, da ogni malignità ricava il pretesto per un sorriso. Fumando e chiacchierando è nata quest'intervista: sul regime albanese, sul senso della memoria e della letteratura, sulla democrazia. Sul suo libro, sulla sua vita.
So che Vila me dy porta non è il tuo unico sforzo letterario. Spiegami come nasce questo libro, ma prima ancora il tuo bisogno, la tua decisione di scrivere.
Ho sempre saputo che prima o poi avrei scritto perché se ami una cosa così profondamente a un certo punto non puoi fare ameno di parteciparvi. Sto parlando della letteratura, con la quale ho avuto sempre un legame quasi morboso. Dopo l’esilio ho avuto una ragione in più per scrivere, solo che ho dovuto aspettare quasi vent’anni per vedere gli eventi dalla giusta distanza, temporale e spaziale. Volevo lasciare una testimonianza, ma dentro di me c’era anche il desiderio di rendere omaggio alla mia famiglia, che similmente ad altre famiglie che ci erano accanto o che erano sperdute da qualche parte in Albania ha saputo resistere contro il male.
La prima domanda che mi sono fatto chiudendo il tuo libro è forse la più difficile. Uno dei motivi per cui questo romanzo è prezioso è perché testimonia, con grande spontaneità, il trapasso di una famiglia importante dai vertici alla disgrazia. Tuo padre era un generale, tua madre un giudice, tu eri una promettente insegnante di fisica all’Università. Eppure la mannaia cala anche su di voi. La famiglia Bekteshi, assieme a tante altre, ha conosciuto entrambe le facce del regime di Hoxha. Come hai ricomposto questo passaggio dentro di te? Immagino che non pochi, oggi, nell’Albania democratica, guardino a storie come la vostra con diffidenza: perché per un lungo periodo anche voi siete stati “quelli del bllok”. Secondo te il pubblico albanese ha inteso che proprio in questo risiede il senso profondo, il valore del tuo libro e della tua testimonianza? Ti senti compresa dai tuoi concittadini, dal tuo pubblico?
Forse anche per questo ho tardato tanto a scrivere questo libro, oltre che per motivi pratici: la famiglia, le difficoltà, le malattie... Ma a dire la verità il mio libro è stato ricevuto molto bene dal pubblico albanese, in particolare da quello della mia generazione.
Forse questo si spiega anche con altri fattori importanti. Quand’anche sia appartenuto alla nomenklatura, mio padre ha sempre goduto di buon nome presso la comunità dei confinati e dei prigionieri, non solo per la resistenza mostrata contro il regime per tutta la durata della prigionia (lo stesso esempio l’hanno dato altri, come Fatos Lubonja e Spartak Ngjela, anche loro figli di membri di nomenklatura), ma anche, più in generale, per le sue qualità di uomo.
In secondo luogo, il fatto che nessuno di noi sia mai stato manipolato dalla Sigurimi, la polizia segreta del regime, mi ha dato una grande forza morale, al tempo per lottare, oggi per scrivere di quei tempi. Ci sono state anche persone che non hanno affatto gradito il mio libro, ma non si sono dichiarate apertamente. Ho ricevuto centinaia di telefonate da lettori albanesi, non solo dall’Albania ma da tutto il mondo. Questa è stata davvero una delle mie piccole grandi felicità.
Lasciando l’albanese il libro perde senza dubbio parte della sua vena ironica, ma ora che è stato tradotto in italiano – grazie alla casa editrice BESA e specialmente grazie a Livio Muci che da anni svolge un grande lavoro per la conoscenza della letteratura albanese in Italia – sto ricevendo con grande piacere chiamate dall’Italia, anche se in numero più limitato. Ma io sono abituata ad aspettare.
Intanto Villa con due porte è stato in lizza per il Premio europeo 2014, tra 168 candidati della categoria «nuovi talenti». Ovviamente mi rendo conto che è bizzarro chiamare «nuovo talento» chi vive in un corpo, diciamo così, abbastanza maturo. C’è un detto russo che dice: "La vita ti gioca dei brutti scherzi, disse l’orso dopo che aveva provato a fare l’amore con l’ape".
Ciò che gli stranieri faticano a comprendere della transizione albanese è il dramma di chi ha vissuto a cavallo tra due o più mondi. Il tuo libro disegna un bellissimo percorso vitale, ma al di fuori della letteratura, nel quotidiano, come vivi dentro di te le tue tre vite: bllok-esilio-Albania democratica?
Durante una mia recente intervista su Top Channel, a un certo momento ho proprio protestato per il fatto che mi si identifica sempre con due figure, con la ragazza del bllok e con la donna dell’esilio. È vero che, proprio per essere stata del bllok, sono stata per sedici anni in esilio, ma ogni tanto mi piacerebbe essere abbinata ad altro, ad esempio al fatto che ho una lunga carriera scientifica.
Giusto per darti un’idea, a ventisei anni fui insignita assieme ad altri ricercatori di un premio della Repubblica sul tema climatico; all’università ho lavorato in diversi settori, ancora oggi mi occupo di ambiente e cambiamenti climatici. Attraverso istituzioni comuniste, e con scuola russa, non c’è dubbio, ma la mia formazione scientifica è maturata da un percorso valido. Sono convinta che le mie tre vite, anche se non sono passate senza danno, mi abbiano arricchito. Denaro escluso.
Nel libro le questioni politiche fanno da sfondo alle vicende umane, vere protagoniste. Ammesso che ci fossero, tu hai un’idea delle cause politiche, delle logiche di potere che scatenarono la «purga dei generali»?
Io penso, ma non solo io, che a scatenare il ’74 fu innanzitutto la paranoia d’accerchiamento del dittatore. Anche perché i generali erano ex comandanti della guerra partigiana, avevano tutti compiuto gli studi nelle accademie più eccellenti dell’Unione sovietica, oltre che in Italia, prima della Seconda guerra mondiale.
Nel romanzo Vera Bekteshi è una bionda un po’ ribelle: schietta, coraggiosa, forse troppo appariscente e spontanea per il puritanesimo del regime. Dici che la tua «condotta» possa aver influito nell’identificarvi come pericolosi? In che misura il regime temeva la diversità?
È molto vero: alle dittature questo tipo di donna ha sempre creato fastidio, lo ha scritto anche il filosofo francese Foucault. Lui le definiva «un’entropia in movimento». La dittatura albanese ha allontanato spesso dagli occhi del pubblico queste donne, le ha condannate. Per questo ho riportato nel libro che in esilio una delle «competizioni», almeno così sperava la Sigurimi, era sul campo della bellezza: perché tutte le esiliate del nostro villaggio erano donne splendide. Secondo me ci avevano messe insieme apposta.
Uno dei tuoi ricordi storicamente più interessanti è quello della visita di Enver Hoxha a casa vostra. Mentre gli servi il tè, tocchi senza volerlo un nervo scoperto: in qualche modo gli ricordi di non aver mai terminato gli studi. Nel descrivere il profilo psicologico di Enver Hoxha in molti si sono soffermati sui suoi complessi: mediocre percorso di studio, una Resistenza vissuta lontano dal fuoco della battaglia. Secondo te che ruolo ebbero le debolezze del dittatore nell’esercizio del suo potere?
È noto a tutti che i complessi gravi e profondi, calati nelle persone dall’ambizione infinita, li trasformano in mostri (Hitler ne è l’esempio più celebre), ma dobbiamo ammettere che anche noi abbiamo aiutato queste persone a diventare così, con il nostro silenzio e la nostra approvazione. È un fatto che fosse molto difficile, praticamente impossibile, contrastare Hoxha: quelli che hanno osato esprimere qualche idea diversa o anche solo una parola contraria, non sono più tra noi.
Due episodi del libro sono a mio giudizio centrali: quando il regime «tende la mano» a tua madre, offrendole la possibilità di vivere libera assieme ai suoi figli, purché abbandonasse il marito; e quando, ancora a Tirana, tu inizi a ricevere strane visite di cortesia da un’amica di vecchia data, divenuta spia al soldo del regime. Due cartoline terrificanti della distruzione umana e morale cui la dittatura albanese costrinse migliaia di persone….
Sì, ogni volta che ricordo la conversazione che avemmo tutti insieme, io, i miei genitori e Guxi, mio fratello maggiore, mi commuovo. Fu una grande prova: ci venne chiesto di scegliere tra vivere in esilio eterno e vivere senza onore. Noi abbiamo scelto la prima, non abbiamo abbandonato papà. Anche la mia vecchia amica fece una scelta, penso sbagliata, perché dovrà sopportare per tutta la vita questo enorme peso sulla sua coscienza.
Il tuo libro è cosparso di personaggi meravigliosi: le tue due nonne diversamente nonne, la prudenza di tua madre che ti dava sui nervi, tuo padre, intelligenza silenziosa e costante, ma soprattutto tuo fratello Guxi, che ogni sera al confino rientrava in casa urlando «Viva il fascismo, marxismo leninismo!». Una sorta di Roberto Benigni, invincibile…
Mi fa molto piacere il fatto che tu abbia sentito esattamente quello che io volevo trasmettere attraverso la loro descrizione. Le mie nonne erano così diverse, così a loro modo meravigliose. Dicono che una persona che è molto legata alle sue nonne abbia maggiori probabilità di diventare un giorno scrittore, ma io non credo ciecamente a questo detto. Mio fratello ti posso garantire che continua a essere così, anche adesso che vive a New York.
In che modo, secondo te, la letteratura è legata alla memoria? Scrivere non modifica i ricordi? È scorretto credere che ora esistono due Guxi, due Vera, le persone reali e i personaggi del romanzo?
Ovviamente lo scrittore narra il suo punto di vista, è per forza legato alla sua memoria, senza la quale non potrebbe scrivere. Tuttavia io sono stata molto attenta a ricordare gli eventi con precisione, in maniera scientifica, senza lasciarmi andare a facili sentimentalismi. Ho la fortuna di avere una buona memoria, ma a volte ho anche dovuto ascoltare altre versioni, ricostruire insieme alla memoria altrui.
La memoria emozionale invece non la puoi controllare, ha plasmato la tua mente, è come una scultura lavorata su una pietra: quella quando scrivi finisce per forza sulla carta. Va poi detto che noi nel tempo siamo cambiati, spero in meglio, anche perché l’esilio è stato una grande scuola.
In generale sono molto d’accordo: esistono sempre due persone, quella reale e il personaggio, anche perché l’essenza della persona vera non si vuole mai scoprire fino in fondo. Per quanto riguarda il mio libro, posso solo credere e sperare che la differenza tra persona e personaggio sia minima, perché ho voluto che la mia descrizione fosse il più vicino possibile alla realtà. Ma in fin dei conti cos’è la realtà?
Che cos’è, per te, la democrazia? La vedi nel presente o la scorgi nel futuro del tuo paese?
Per me la democrazia significa prima di tutto libertà, ma non basta. Perché il concetto è legato anche allo stato di diritto, che io distinguo dallo «stato di legge», dal momento che anche la dittatura era uno «stato di legge».
Per quanto riguarda il presente, non possiamo dire che viviamo in una democrazia, anche se tutto è molto diverso dal passato, molto meglio. Penso che tutti, in modo diverso, possano contribuire alla democrazia, ognuno facendo come si deve il proprio lavoro.
Quanto a noi intellettuali, sempre se meritiamo questa parola, non dobbiamo tacere, mai più. Il 21 gennaio 2011 sono state uccise alla luce del sole quattro persone innocenti: in uno stato di diritto la giustizia spetta alla giustizia, ma questo non impedisce a noi cittadini di alzare la voce e di denunciare vite perdute invano. In quei giorni ero estremamente turbata e ho deciso di scrivere un racconto. È una storia ironica e assurda, che ho intitolato Gjeneralin s’ka kush ta denojë («Non c’è nessuno che possa condannare il generale»), facendo un parallelo con il celebre titolo di Gabriel Garcia Màrquez.
Penso di aver fatto bene, perché uno dei problemi odierni del mio paese è che tutto ciò che è cattivo viene identificato con il comunismo. Ma non basta essere anticomunisti, dobbiamo essere anzitutto umani, perché ogni sistema produce i suoi fenomeni diabolici, anche il capitalismo. Platone ha detto che il sistema ideale esiste solo nella nostra mente.