In Armenia assume in aprile il proprio mandato il nuovo presidente della Repubblica, Armen Sargsyan. Ma il potere rimane altrove
Era il dicembre del 2015 quando un referendum costituzionale decretava la trasformazione dell’Armenia da repubblica semi-presidenziale a parlamentare. Due anni dopo le elezioni portavano alla formazione di una nuova maggioranza, sempre dominata dal Partito Repubblicano. Ad inizi del marzo 2018 si è poi svolto il voto per il nuovo presidente. Un’elezione sui generis per almeno due motivi: perché per la prima volta il presidente è stato votato dall’Assemblea nazionale (e non dall’elettorato) e perché Armen Sargsyan, il candidato espresso dal Partito repubblicano, ha corso da solo. Questo perché, per nominare un candidato, si devono avere almeno ¼ dei seggi in parlamento e di quei numeri poteva disporre solo la maggioranza. Il 2 marzo l’Assemblea ha votato Sargsyan con un solido 85% di preferenze, non senza l’appoggio di una parte dell’opposizione.
La fine dell’era Sargsyan I?
Nel corso del mese di aprile il nuovo presidente entrerà in carica e si formerà un nuovo governo. Finisce così il decennio della presidenza Serzh Sargsyan (che non ha relazioni di parentela con il nuovo presidente, ndr), inaugurato nel 2008 con il sangue, fra le proteste che avevano caratterizzato il dopo-voto, e certo non privo di colpi di scena.
Due i grandi eventi di politica estera: l’ingresso a sorpresa nell’Unione Eurasiatica, annunciato da Sargsyan a Mosca, che ha implicato il ritiro del paese dagli accordi di associazione con l’Unione Europea, strappo solo recentemente sanato. Poi nel 2016 la così detta guerra dei 4 giorni con scontri lungo il confine del Karabakh di intensità ben superiore a quelle che sono ormai le continue violazioni del cessate il fuoco.
In politica interna due gli elementi principali: continuità di potere da un lato e stagnazione economica dall’altro. Un quadro in cui si sono insinuate crepe culminate in due crisi: la BaRevolution, crisi post-elettorale al rinnovo del mandato presidenziale e la crescente mobilitazione civile su questioni economico-sociali, il cui apice è stata ElecricYerevan.
Un decennio intenso, ma è davvero finito? Al tempo della riforma costituzionale molti avevano ipotizzato che Sargsyan avrebbe cercato un nuovo mandato di peso candidandosi a primo ministro, una volta terminati i due incarichi presidenziali. Insomma, sul modello russo del tandem Putin-Medvedev. Nel caso andrebbe a sostituire l’attuale primo ministro, Karen Karapetyan, scelto come “volto nuovo”. Un giovane che ha alle spalle due anni di cooperazione con Sargsyan ed è una sua figura di fiducia.
Un subentro come primo-ministro non è da escludere anche perché l’Armenia ha una peculiarità tutta sua nello spazio post-sovietico: è il paese dove gli ex presidenti riescono a rimanere nel paese dopo aver terminato l’incarico, e non solo rimangono ma continuano a svolgere attività politica. L'elezione a primo ministro però rischierebbe di esporre Serzh Sargsyan alle critiche di chi affermava che la riforma costituzionale era fatta su misura per lui. Il presidente uscente potrebbe accontentarsi di controllare il paese attraverso il controllo del partito di maggioranza, il Partito Repubblicano.
Il paese dove l’ex presidente rimane, anche vivo
Esclusi i paesi baltici, nell’ex URSS di norma non si rimane da ex presidenti. Una serie di presidenti in fuga (dall’Ucraina al Kyrgyzstan e alla Georgia), si alternano ad altri il cui incarico è terminato con il loro decesso. Questo fenomeno è legato alla lunghezza dei mandati ottenuti a causa di varie manipolazioni costituzionali, all’assenza di alternanza, al fatto che la fine effettiva dei mandati sia spesso caratterizzata da gravi crisi politiche o da vicende giudiziarie.
L’Armenia fa però eccezione, con ben due ex presidenti, Levon Ter-Petrosyan e Robert Kocharyan, che sono rimasti nel paese a scadenza di mandato e hanno continuato in modo più o meno istituzionalizzato la propria attività politica. A questi si aggiunge ora Serzh Sargsyan.
Come i suoi predecessori ha costruito il suo potere nel proprio partito e nello stato, e una evidente forma di consolidata negoziazione all’interno dell’élite dominante gli permette ora di rimanere nel paese a coltivare quanto costruito in questi anni al timone dell’Armenia. Sinergie fra i massimi poteri dello stato - non necessariamente virtuose - e la continuità di potere garantita da un passaggio di consegne e incarichi che dura ormai da due anni, fa sì che non siano all'orizzonte scenari che mettano a rischio Sargsyan, il suo prestigio nel paese e soprattutto il suo controllo del Partito Repubblicano.
Nel frattempo, lontano dal timore di drammi improvvisi, Serzh Sargsyan ha chiuso la serie dei propri incontri diplomatici a Roma, dove il 5 aprile scorso ha incontrato il Papa. Un’agenda dedicata alle crisi regionali, ai rapporti fra l’Armenia Apostolica e il Vaticano e alla condizione dei cristiani nelle zone di guerra. E poi l’inaugurazione nei giardini vaticani di una statua dedicata a San Gregorio di Narek , mistico armeno dal 2015 dichiarato dottore della Chiesa Cattolica, proprio per volere di Papa Francesco. Papa che ha conquistato popolarità in Armenia parlando apertamente di genocidio armeno.
Intanto, Sargsyan II
Il quarto presidente armeno, Armen Sargsyan, non è parente del presidente uscente Serzh Sargsyan. Il neopresidente non appartiene a nessun partito, come da nuova disposizione costituzionale ed ha sviluppato la propria carriera politica prevalentemente all’estero. Primo ministro nel biennio 1996-97, è stato poi ambasciatore per ben tre volte nel Regno Unito (dal 2013), dove si trovava quando ha preso forma la sua candidatura nelle fila del Partito Repubblicano, con il sostegno dell’alleato di coalizione, la Federazione Rivoluzionaria Armena.
Proponendo una figura ben nota a Londra, il presidente uscente ha dato segno di voler continuare a coltivare i rapporti con l’Occidente. D’altra parte, Armen Sargsyan, ha anche buone relazioni in Russia e in Kazakistan.
Il Kazakistan rappresenta un nodo non facile per l’integrazione dell’Armenia nell’Unione Eurasiatica. L’interscambio fra i due paesi è praticamente nullo e Astana si è resa protagonista di uno sgambetto nel 2016: nel pieno della crisi bellica con l’Azerbaijan nel 2016 ha rifiutato un incontro organizzato a Yerevan adducendo questioni di sicurezza e non assicurando così il proprio pieno sostegno al partner nell’Unione, palesando posizioni filo-azere.
Sargsyan II non avrà comunque il peso politico del suo omonimo: eletto indirettamente, ha una funzione più cerimoniale che politica. Anche rispetto ad altre repubbliche parlamentari è una figura istituzionalmente debole. Nella veste di presidente, Sargsyan potrà ad esempio solo sollevare questioni di costituzionalità di una legge, ma non rinviarla all’Assemblea. E non sarà comandante supremo delle Forze armate, che fanno capo al governo. Infine ha diritto a un solo mandato di 7 anni, non rinnovabile. Il vero timone sarà altrove, e Sargsyan I rimane in loco per raccogliere la propria eredità, come eminenza grigia o attraverso nuovi incarichi istituzionali.