La provincia armena di Syunik è al centro di nuove tensioni tra Armenia e Azerbaijan: la sua posizione strategica stimola appetiti e rivendicazioni contrastanti, creando nuove tensioni tra Yerevan e Baku dopo il conflitto armato in Nagorno Karabakh
La crisi intorno all’area di Syunik è iniziata con il contenzioso transfrontaliero del 12 maggio. Si inserisce nel quadro di problemi di demarcazione di confine che recentemente hanno anche causato un ritorno alle armi. Il cessate-il-fuoco è minacciato da questioni irrisolte, e gli incidenti di scambio di fuoco che causano feriti e morti – tre armeni solo nella giornata del 28 luglio - sono ormai più frequenti lungo il confine armeno-azero che nell’area contesa del Nagorno-Karabakh. La delimitazione del confine è divenuta una crisi a sé stante, e all’interno di questo quadro Syunik ha una posizione particolare.
Il fronte meridionale
Syunik si insinua fra la exclave azera del Nakhchivan e le aree tornate sotto il controllo azero con l’ultima guerra. Inizialmente le tensioni hanno riguardato il lato est, dove il confine non è delimitato. Da fine maggio la sicurezza è andata deteriorandosi anche lungo il confine con il Nakhchivan, da sud, Syunik, fino alla zona di Ararat e sono iniziati una serie di incidenti non sempre confermati da ambo le parti. In genere è il ministero della Difesa dell’Azerbaijan che lamenta più provocazioni da parte armena. In alcuni casi invece gli episodi di violazione del cessate-il-fuoco sono confermati da entrambe le parti. È il caso dei numerosi incidenti segnalati nella seconda metà di luglio intorno a Yeraskh, dove il 20 luglio un militare azero e un civile armeno sono rimasti feriti.
Syunik è insomma presa, letteralmente, fra due fuochi, per via dei confini. Ma anche il suo nome e l’uso che si intende fare del suo territorio sono fonte di grande tensione.
Rivendicazioni storiche
Per l’Azerbaijan Syunik è lo Zangezur occidentale. Così lo ha definito anche recentemente in un discorso ufficiale il Presidente Ilham Aliev, indicandolo come storica terra dell’Azerbaijan, dove gli azeri dovranno tornare a vivere. Gli armeni, ovviamente, vedono queste rivendicazioni storiche come fumo negli occhi, e temono che i presidi militari che gli azeri hanno creato in aree di confine a demarcazione ancora non concordata non siano altro che il preludio di una nuova aggressione azera.
Non sono solo parole, per quanto la retorica incendiaria sia un problema tangibile nella risoluzione del conflitto. A marzo una delegazione della Turchia ha presenziato ai lavori di inaugurazione del cosiddetto "corridoio di Zangezur", e a maggio - durante la visita del ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture turco Adil Karaismailoğlu in Azerbaijan - il presidente Erdoğan ha ribadito l’importanza del progetto, che la Turchia inserisce nella Nuova Via della Seta . Molto diversa la posizione armena, che non accetta che Syunik sia solo un corridoio, uno spazio passivo di transito fra Turchia e Azerbaijan, ma sostiene che debbano riaprire tutte le vie di comunicazione e che i territori che ne saranno attraversati debbano essere protagonisti per trarne quanto più benessere possibile.
Fra tensioni e interessi
La questione butta la benzina sul fuoco, in un quadro in cui la sfiducia reciproca continua ad aumentare, e proporzionalmente alla sfiducia i motivi di contesa e rancore. Oltre al recente conflitto - con tutte le ferite che questo ha comportato - rimangono le questioni dei prigionieri di guerra, dei campi minati, dei processi ai prigionieri che sono in corso, dei confini da demarcare, degli spostamenti di militari non concordati e dei successivi, conseguenti, nuovi scontri.
A causa di questa sfiducia e del peggioramento del quadro della sicurezza è stata sospesa una parte sostanziosa degli accordi che hanno messo fine ai combattimenti. Oltre all’accordo trilaterale del 9-10 novembre 2020, c’è quello dell’11 gennaio che ha previsto la creazione di un gruppo di lavoro trilaterale incaricato di concordare l’apertura delle vie di comunicazione e di tutte le infrastrutture che dovrebbero comportare una fitta rete di trasporti e scambi regionali. Gli incontri del gruppo si tengono sia in formato di tecnici, sia in una dimensione politica a livello di vice-premier russo, armeno e azero. Il vice-premier russo ha recentemente cercato di sollecitare un nuovo impulso al lavoro del gruppo trilaterale , le cui attività si sono interrotte a causa degli scontri di inizio giugno. Non sono solo la Russia e la Turchia a premere in questo senso. Anche l’Iran è sceso energicamente in campo per quella che gli pare un'inattesa e tempestiva opportunità per ridurre il proprio isolamento, incrementare le proprie esportazioni e far ripartire l’economia per un paese che ha subito in modo pesante l’impatto della pandemia.
Intorno a Syunik, insomma, pullulano vasti interessi, e la regione armena può diventare uno snodo pivotale nelle direzioni nord-sud ed est-ovest.
La pace avvelenata
L’Azerbaijan preme in questo senso e si dichiara disposto a trasformare questa seconda fase post-bellica in una pace duratura. Questa proposta per l’Armenia appare però come un frutto avvelenato: firmare la pace vuol dire riconoscere reciprocamente l'integrità territoriale e i confini, che potrebbe voler dire per l’Armenia mettere fine alle dispute di confine e facilitare l’opera di demarcazione, ma allo stesso tempo mettere una pietra tombale sulla questione del Nagorno Karabakh, riconoscendolo de jure parte dell’integrità territoriale azera. La pace quindi per l’Armenia arriva dopo la definizione dello status del Karabakh. Per l’Azerbaijan lo status è stato invece deciso con la guerra. Come già ricordato, per Aliyev la questione dell’indipendenza/autonomia del Karabakh non esiste più. Esiste un presidio militare temporaneo russo, in attesa che la popolazione locale accetti di venire riannessa all'interno dello stato azerbaijano. Il 7 luglio è nata per decreto la zona economica Karabakh-Zangezur orientale, e questa è l’unica peculiarità amministrativa che Baku vuole concedere all’area secessionista.
Inutile dire che per l’Armenia questa è una non opzione. Di pace il primo ministro armeno Pashinyan non vuole sentire parlare fino al ritiro dei militari azeri – stimati un migliaio – che dal cessate-il-fuoco ad oggi si sono insediati in aree che l’Armenia considera proprie, e fino a quando non si sarà trovata una soluzione politica per lo status del Karabakh. L’Armenia ne insegue ancora la secessione, l’Azerbaijan dice che non esiste più.
Se possibile, le posizioni sono ancora più lontane e incompatibili di prima della guerra. E come uno scoglio fra onde contrastanti sta Syunik, esposto alle bramosie di chi ha fretta di cominciare a costruire anche là dove ancora non si è bonificato.