L’Armenia sembra un paziente al quale si sta praticando una sorta di suicidio assistito: disperatamente attaccata ad una bombola d'ossigeno la cui manopola è nelle mani di Mosca. Un reportage
No, questa volta non avevo proprio voglia di tornare in Armenia. L’avevo ripetuto più volte all’eurodeputata finlandese Heidi Hautala che insisteva perché mi aggregassi alla missione di osservazione elettorale del parlamento europeo di cui lei faceva parte. “Il regolamento parla chiaro”, le dicevo per giustificare la mia recalcitranza, “solo nel caso tu venga eletta presidente della missione hai diritto ad un assistente ad personam”. In quel week end, peraltro, avevo già previsto una trasferta a Firenze al seguito della mia squadra del cuore, il rugby Viadana, impegnata nella finale di Coppa Italia. Poi, come spesso capita, è il corso imprevedibile degli avvenimenti a stabilire il calendario e determinare il destino dei miei appuntamenti trasformando, in questo caso, le mie parole in un clamoroso autogoal.
L’amministrazione del parlamento mi chiama indicandomi Heidi Hautala come la candidata più affidabile per condurre la delegazione europea a Yerevan. Sondo, quindi, i colleghi dei gruppi politici e li convinco, per inerzia, a sostenere l’eurodeputata finlandese che alla riunione costitutiva della delegazione viene eletta presidente all’unanimità con la conseguenza inevitabile di dover cambiare i miei piani e correre in agenzia viaggi per recuperare in extremis un biglietto per il Caucaso. Non tutti i mali vengono per nuocere e questo, in fin dei conti, è davvero un male minore perché l’Armenia è uno di quei paesi dove l’ospite si sente sempre a casa anche se spesso si fatica a capire chi comanda in quella casa e quale sia il senso delle decisioni prese.
Relazioni
“Mi auguro che le elezioni siano libere ed eque”, esordisce il ministro degli Esteri Eduard Nalbandyan mentre ci accoglie nell’ampia sala del nuovo edificio in cui si è trasferito da poco il ministero. “L’Armenia è sempre stata e continua ad essere il ponte fra il processo di integrazione europeo e quello euroasiatico”, sottolinea ricordando come il capo di stato dell’Armenia Serzh Sargsyan sia appena tornato dal Belgio dove ha siglato il nuovo accordo di cooperazione avanzata con l’Unione Europea che rimpiazza il vecchio ormai inadatto a coprire l’intero arco delle accresciute relazioni fra le due parti.
Nalbandyan ci tiene a rimarcare che nonostante il suo paese faccia parte dell’Unione Economica Euroasiatica è grazie a Bruxelles se continua il processo di riforme indispensabile per modernizzare l’economia e rendere più efficienti le istituzioni. “Vogliamo avere buone relazioni con tutti i nostri vicini”, aggiunge con malcelata insoddisfazione, “anche se non sono ottimista”. Il riferimento fin troppo implicito è alla Turchia che continua a sigillare il confine meridionale dell’Armenia, dopo avere accennato negli anni scorsi ad una politica di disgelo ben presto abortita. L’asse Ankara - Baku, d’altronde, è ancora ben saldo. Sul lato orientale, infatti, la linea di contatto con l’Azerbaijan, che non corrisponde ai confini riconosciuti internazionalmente, è sempre incandescente con sparatorie e scaramucce quotidiane, tiri di cecchini e conseguenti vittime sia militari che civili.
“Continuiamo a batterci in tutte le sedi per una soluzione pacifica al conflitto in Nagorno Karabakh e il rilancio della cooperazione regionale”, osserva desolato, “anche se l’Azerbaijan si rifiuta pregiudizialmente di partecipare a qualsiasi iniziativa multilaterale di cui faccia parte anche l’Armenia”.
Per quanto riguarda la situazione economica il ministro non si sbilancia: “Abbiamo ottenuto alcuni buoni risultati negli ultimi mesi ma è ancora presto per esprimere una valutazione approfondita sull’Unione Economica Euroasiatica considerando che ha solo due anni di vita e che deve fare i conti con l’impatto negativo delle pesanti sanzioni occidentali alla Russia”. E sulla crisi siriana Nalbandyan ci tiene a evidenziare il comportamento modello tenuto dal suo paese che ospita 22.000 rifugiati mediorientali sottacendo, però, il fatto che buona parte di questi provengono dalla minoranza armena di Aleppo e Damasco e che alcuni di loro sono stati risistemati nel Nagorno Karabakh suscitando le ire delle autorità di Baku.
L’Armenia, d’altronde, è un paese anomalo visto che due terzi della sua comunità risiede all’estero costituendo una potente e influente diaspora divisa fra Federazione Russa, Europa e Stati Uniti che, però, per legge non può partecipare al voto. Pressoché ogni famiglia armena ha un proprio membro o un parente che vive e lavora extra-muros convogliando verso casa un flusso costante di denaro fresco. È anche grazie a questo se il paese sopravvive nonostante aumenti la fascia di povertà che ormai tocca un terzo della popolazione. Non è certo un buon biglietto da visita per un governo che si presenta al giudizio degli elettori.
Monitoraggio
Sono circa 28.000 gli osservatori che vigilano sulla regolarità della consultazione elettorale armena [svoltasi lo scorso 2 aprile] ma solo 600 di questi, secondo associazioni indipendenti, provengono da organizzazioni credibili. Alla missione internazionale dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), del Parlamento Europeo e dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio di Europa, infatti, si affiancano, ad esempio, anche i rappresentanti della Comunità degli Stati Indipendenti (Cis), di cui fanno parte nove ex repubbliche sovietiche che non brillano certo per quanto riguarda gli standard democratici e il rispetto delle libertà fondamentali.
Comunque sia, a detta di tutti il numero degli osservatori appare sproporzionato rispetto a quello dei seggi e degli elettori. E a proposito di questi ultimi, le statistiche ufficiali assegnano all’Armenia tre milioni di abitanti mentre nella realtà i residenti risultano essere molti di meno, poco più di due milioni, con un costante flusso in uscita di armeni che cercano fortuna all’estero. La discordanza dei dati ha permesso in passato di giocare sul numero dei votanti consentendo alle autorità, secondo le accuse dell’opposizione, di gonfiare la partecipazione a vantaggio dei partiti al governo.
Sono ancora vive le critiche che hanno fatto seguito al referendum costituzionale del dicembre 2015 quando vennero denunciati numerosi brogli confermati da osservatori indipendenti. Allora le piazze si riempirono di manifestanti che protestavano contro l’ennesima frode commessa dai compagni di partito del presidente, ininterrottamente al potere dal 2008 dopo avere ricoperto, in precedenza, l’incarico di Primo ministro, ministro della Difesa e ministro degli Interni. Proprio per evitare il ripetersi di episodi simili e il conseguente strascico di polemiche alle autorità di Yerevan, questa volta, non è rimasta altra scelta che adeguarsi alle raccomandazioni dell’Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani, l’organismo dell’Osce delegato al controllo e alla verifica dei processi elettorali.
“Solo una mente contorta può avere escogitato un sistema di voto così complicato”, commento sotto voce con il deputato italiano seduto al mio fianco mentre i responsabili della missione di osservazione internazionale ci spiegano le procedure elettorali che saremo chiamati a verificare nei seggi il giorno successivo. A volte i rimedi sono peggio del male che si vuole curare, altre volte le soluzioni proposte risolvono un problema ma ne creano altri. Dopo avere ascoltato attentamente il briefing degli addetti ai lavori già mi prefiguro quello che mi troverò di fronte il giorno del voto.
Procedure di voto
È una mattina di tempo incerto a Yerevan. In lontananza, tra le nubi, si scorge la cima innevata del monte Ararat, oggi al di là del confine, in Turchia, simbolo dell’Armenia storica, quella che non c’è più e che qualche nostalgico oltranzista vorrebbe resuscitare. Nelle stazioni di voto fervono i preparativi per accogliere i primi elettori. Si allestiscono le cabine, si ordinano i tavoli, si predispongono le liste elettorali e si prova il funzionamento dei dispositivi elettronici per il controllo dell’identità forniti dall’Unione Europea. Ci sono tre congegni elettronici per seggio in grado di funzionare solo se in sintonia.
L’elettore arriva, consegna il documento di riconoscimento la cui banda criptata viene fatta scorrere nell’apposita fessura del dispositivo, dopodiché appoggia la punta dell’indice su un occhiello luminoso che funge da lettore digitale. Una volta ottenuto il via libera dalla macchinetta che emette un tagliando di conferma da ritirare avanza verso il banco successivo, dove è chiamato ad apporre la propria firma sull’elenco cartaceo. Qui uno scrutatore gli consegna un pacchetto di nove schede, una per ogni partito o coalizione che partecipa alla competizione, con una busta. Nella cabina, quindi, si sceglie la scheda che corrisponde alla forza politica preferita, eventualmente marcando con una croce il nome del candidato gradito di quella lista, e la si mette in busta buttando gli otto foglietti scartati nell’apposito cestino. Fuori dalla cabina un altro scrutatore è seduto a lato dell’urna nella quale introdurre il voto imbustato e vidimato con un adesivo con, a fianco, una piccola scatola trasparente dove infilare il tagliando.
Il risultato, come facilmente prevedibile, è una fila interminabile di cittadini costretti ad aspettare imbufaliti per decine di minuti il proprio turno nei corridoi di ingresso dei seggi, con all’esterno dell’edificio poliziotti e soldati che trattengono a fatica la folla che spinge. Nelle mie precedenti esperienze di osservazione elettorale più recenti, Moldavia e Macedonia in particolare, gli accorgimenti adottati per evitare brogli non avevano rallentato più di tanto le operazioni di voto. Sarebbe bastato utilizzare procedure simili. Calcolo un minimo di cinque minuti a testa per completare l’intera operazione salvo gli inevitabili intoppi di coloro che dimenticano o gettano il tagliando o la busta nel cestino della cabina con presidente e scrutatori chiamati d’urgenza a soccorrere il malcapitato. La vera beffa, comunque, è constatare come tutte queste precauzioni non riescano a prevenire comportamenti illeciti.
Analisi
Larisa Minasyan, una mia vecchia conoscenza, me l’aveva detto: “Queste elezioni sono in assoluto le meno politiche della storia dell’Armenia”. E nella stessa occasione un altro amico, Richard Giragosian aveva rincarato la dose sottolineando come nella campagna elettorale si fosse consumato uno scontro di personalità piuttosto che un confronto di idee o di programmi. “Il voto di domenica forse sarà più libero ma senz’altro meno equo”, aveva aggiunto denunciando l’abuso di risorse amministrative da parte dei dirigenti pubblici con pressioni politiche manifeste sul personale scolastico, universitario, sanitario e militare perché sostenesse le forze di governo.
Un altro analista, Daniel Ioannissyan, in rappresentanza dell’ong “Unione dei Cittadini Informati”, si era spinto oltre parlando apertamente di compravendita di voti. “Bastano 10.000 dram (circa 20 euro), che le autorità fanno passare per beneficenza, per acquistare il sostegno dell’elettore”, aveva aggiunto lamentandosi dell’inerzia della polizia. In altre circostanze mi era capitato di notare irregolarità di voto ma si era sempre trattato di situazioni sporadiche tipo la segretezza non sufficientemente garantita o il ricorso occasionale all’aiuto di parenti.
Questa volta, messo in allerta dalle denunce ascoltate, decido di cambiare approccio. La mia squadra di osservazione è composta da quattro persone: Heidi Hautala, l’eurodeputata rumena Maria Grapini, il sottoscritto e un altro funzionario europeo, Julien Crampes. Invece di sostare tutti all’interno di un seggio due si fermano all’esterno per controllare quello che succede tra la folla in attesa. Ed è qui che noto l’arrivo di pulmini di partito che scaricano gli elettori organizzati, il passaggio di mano in mano di documenti con denaro, la consegna di schede non votate per dimostrare che nella busta c’è finita quella buona. Ci rechiamo anche in un ospedale psichiatrico al seguito di un seggio mobile dove mi accorgo sbirciando dalla porta come l’infermiere faciliti sempre la scelta della scheda giusta, quella di un partito di governo, al paziente che la imbusta. Tutto viene, ovviamente, annotato sugli appositi verbali che consegniamo ai coordinatori della missione internazionale di osservazione per poi essere aggregati e rielaborati con quelli delle altre squadre per la redazione del rapporto finale.
“Dopo la cocente delusione delle ultime elezioni presidenziali falsate da brogli ed irregolarità sistematiche questa volta ho deciso di non partecipare al voto”, mi dice Nune, la giovane interprete che ci accompagna nell’ispezione dei seggi. Sono numerosi i cittadini che come lei hanno deciso di disertare le urne manifestando pubblicamente il proprio sdegno nei confronti degli uomini al potere in Armenia. Lo hanno fatto iscrivendosi alle liste su un sito online di una apposita organizzazione non governativa. Così facendo i renitenti al voto intendono testimoniare il dissenso tutelandosi, allo stesso tempo, che qualcuno non scippi la loro identità presentandosi al seggio sotto false spoglie come accaduto, frequentemente, in passato.
“Le cose in Armenia non cambieranno mai se tutti fanno come te rinunciando al diritto elettorale”, obietto durante una pausa mentre sorseggiamo un denso caffè turco che qui, per ragioni storiche e politiche, è stato ribattezzato “caffè armeno”. “Forse hai ragione”, ribatte lei, “ma la delusione è così forte che non mi resta altra scelta che un atto di denuncia pubblica”. Nune è una dei tanti armeni frustrati che hanno abbandonato ogni speranza. Nonostante questo e al contrario di altri, però, ha deciso di restare nel proprio paese anche se le prospettive non appaiono incoraggianti.
Come fa notare un ambasciatore europeo in uno degli ultimi incontri della nostra missione l’Armenia è forse l’unico caso di economia in transizione che si trova in recessione e deflazione. Interi settori economici sono controllati da oligarchi in simbiosi con il governo che operano in regime di monopolio. Non c’è spazio per la concorrenza e chi ne fa le spese è, come ovvio, il consumatore costretto a pagare caro prodotti che nei paesi vicini si trovano a buon mercato. Se nel 2013, sotto la pressione di Mosca, l’Armenia non avesse improvvisamente abbandonato il percorso di integrazione economica con l’Unione Europea forse la situazione sarebbe differente ma per le autorità di Yerevan si è trattato di una scelta obbligata.
Il ruolo della Russia
C’è un diffuso malumore nei confronti della Russia. Nessun politico armeno ha il coraggio di dirlo apertamente ma tutti lo sussurrano a mezza voce. Nei mesi scorsi in corrispondenza di uno dei periodici sussulti di guerra in Nagorno Karabakh ci sono state anche manifestazioni spontanee davanti all’ambasciata russa nella capitale armena per protestare contro le forniture di armi da parte di Mosca all’Azerbaijan.
Russia e Armenia fanno parte della stessa alleanza militare, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva. Tutto l’apparato bellico armeno è di provenienza russa. Migliaia di soldati russi, inoltre, presidiano il confine fra Armenia e Turchia e stazionano in permanenza in due diverse basi. Di fatto e da sempre Mosca è garante della sicurezza armena ma non per questo i russi si sentono obbligati a non fare affari con altri paesi della regione anche se questi, come l’Azerbaijan, minacciano la sicurezza del paese da loro protetto. Negli ultimi anni Mosca ha venduto a Baku armi, anche sofisticate, per miliardi di dollari, cifre che l’Armenia non potrebbe, di certo, permettersi. Se oggi le forze di Yerevan continuano da più di vent’anni ad occupare il 20% del territorio azero è grazie all’implicito beneplacito della Russia che sorveglia il conflitto in Nagorno Karabakh modulandone gli sviluppi in funzione dei propri interessi.
È il segreto di Pulcinella che nessuno osa confessare. Senza l’appoggio russo per l’Armenia sarebbe difficile sopportare la forza d’urto dell’esercito azero armato fino ai denti dalla stessa Russia. Dal giorno della ritrovata indipendenza nel 1991 élite al potere a Yerevan hanno costruito la propria fortuna politica sul Nagorno Karabakh trasformato in un vero e proprio feticcio da idolatrare. È sull’altare di questo feticcio che periodicamente si inchinano celebrando un rito sacrificale la cui vittima ultima, però, è, paradossalmente, la stessa Armenia sempre più isolata e in declino.
Per la prima volta in campagna elettorale un partito ha avuto il coraggio di violare il tabù parlando apertamente della necessità di trovare un accordo con gli storici nemici del Mar Caspio. Lo ha fatto l’ex presidente della repubblica Levon Ter-Petrossian durante i comizi della sua forza politica, il Congresso Nazionale Armeno. Gli è andata male. I voti raccolti non gli sono stati nemmeno sufficienti a garantirgli il superamento dello sbarramento del 5% necessario per entrare in parlamento.
Nulla cambia, quindi, e si continuerà ancora a spacciare l’immagine di un paese che avanza fingendo che la situazione volga al meglio. Sperando che i russi non stacchino l’ossigeno. Quello che si sta consumando, infatti, è una sorta di suicidio assistito con il paziente armeno disperatamente attaccato ad una bombola la cui manopola è nelle mani di Mosca.
I conti non tornano
Dopo tre ore di spoglio si ripete ostinatamente il conteggio dei voti nel seggio della capitale dove abbiamo deciso di fermarci per controllare le operazioni. Il numero delle firme degli elettori votanti non coincide con quello delle schede che a sua volta non coincide con quello dei tagliandi. Due, tre, quattro volte, nulla da fare, i conti non tornano. Decidiamo di rientrare alla base per un primo scambio di opinioni con le altre squadre abbandonando gli scrutatori al loro infausto destino. Finiranno, poi, ci verrà detto, alle quattro del mattino.
Problemi analoghi si registrano anche in altri seggi. Le irregolarità constatate, però, ancorché diffuse, nella valutazione finale della missione internazionale non saranno ritenute tali da mettere in discussione il risultato finale complessivo del voto. Chi era pronosticato vincente, il Partito Repubblicano del presidente Sargsyan, ha vinto a mani basse consolidando e perpetuando il potere. Così come si perpetuano i guai dell’Armenia, un paese in bilico tra guerra e pace dal giorno dell’indipendenza. I pochi che scommettono sulla pace perdono mentre chi scommette sulla guerra stringe saldamente le redini del potere. Sono decine di migliaia quelli che ogni anno abbandonano l’Armenia rinfoltendo le file della diaspora e pochissimi di questi ritornano. E quando occasionalmente lo fanno si accorgono che nessuno dei problemi che affliggono il paese è stato risolto. Alla fine, quindi, tutti contenti come in una favola, quella che si racconta ai bambini per farli addormentare.