La raccolta di racconti Il bene sia con voi! contiene un inno alla spiritualità armena e l'enunciazione della poetica dell'autore di Vita e destino

24/09/2014 -  Simone Zoppellaro Yerevan

Vasilij Grossman arriva in Armenia in un momento particolarmente drammatico della sua vita: è il 1961, e la sua opera più importante, il romanzo Vita e destino, è stata da poco confiscata dalle autorità sovietiche, timorose di veder ripetere il successo planetario – avvenuto solo pochi anni prima – del Dottor Živago di Pasternak. L’inviato di guerra che aveva celebrato dalle pagine del quotidiano Stella Rossa Stalingrado e il trionfo di Berlino, colui che fra i primi al mondo aveva descritto da testimone l’orrore di Treblinka, è ora relegato ai margini di quel mondo sovietico in cui, anche in quanto ebreo, aveva creduto.

Disilluso, non solo lo spirito, anche il corpo sembra abbandonarlo: proprio in Armenia, infatti, appariranno le prime avvisaglie di quel cancro che lo porterà in pochi anni alla scomparsa. Eppure, le cento e più pagine degli Appunti di viaggio pubblicati da Adelphi nel volume Il bene sia con voi! risultano a tratti bonarie, ironiche, piene di una sincera empatia per il prossimo. Il tema fondamentale che vi troviamo è la speranza. L’intensità della scoperta si congiunge qui a quella del commiato: l’ombra della morte incombe su queste pagine, dove il ricordo dei lager tedeschi si sovrappone alle purghe staliniane, ma è sempre la vita infine ad avere la meglio, il bene a trionfare sul male. Come in una favola.

V. Grossman, Il bene sia con voi!

V. Grossman, Il bene sia con voi!

Grossman giunge nell’Armenia sovietica un po’ per caso, in seguito all’invito rivoltogli dall’Unione degli Scrittori locale di tradurre in russo l’epopea della costruzione di una fonderia di rame dello scrittore armeno Martirosyan. Un’opera tanto lunga quanto noiosa, a cui Grossman lavorerà – lui che di armeno sa solo due parole, barev e che (‘ciao’ e ‘no’) – per i due mesi del suo soggiorno armeno, risistemando la versione interlineare predisposta da una seconda traduttrice linguisticamente più accorta. Ma non è l’Armenia ufficiale – quella dell’intellighenzia locale, degli scrittori e degli accademici – a colpirlo. È l’Armenia profonda: i suoi paesaggi, le chiese, la sua povera gente.

Come già il poeta russo Osip Mandel’štam prima di lui – che aveva definito l’Armenia “regno delle pietre urlanti” – lo impressionano “la pietra antica e brumosa del tragico paesaggio armeno”. La lotta quotidiana dei contadini armeni contro un territorio arido, infecondo, l’eroica pazienza di quella gente commuove Grossman. Ed ecco una breve descrizione della capitale: “I cortili interni! Non le chiese o gli edifici governativi, non le stazioni, né il teatro o la Filarmonica e nemmeno i tre piani dei grandi magazzini, ma i piccoli cortili interni sono l’anima, il cuore di Yerevan.”

Grossman riflette con particolare intensità sull’eredità spirituale armena: “Con la loro semplicità le antiche chiese armene dicono che fra le loro mura dimora il Dio dei pastori, delle belle donne, di scienziati e vecchiette, di eroi e di tagliapietre, il Dio di tutti gli esseri viventi.” Un’architettura “divinamente umana, umanamente divina”. E qui si lascia sfuggire una dichiarazione di poetica affatto soprendente: “Vorrei che anche i libri fossero come quelle chiese – sobri, espressivi – e che ogni libro, come ogni chiesa, fosse la casa di Dio.” Ma non è solo il cristianesimo a impressionarlo: ci parla così di uno “spirito del paganesimo” che in Armenia “ha resistito alla prova dei millenni”, e resta assai colpito dal ritrovamento di un antico tempio pagano sotto l’altare della Cattedrale di Echmiadzin, cuore della vita spirituale armena.

Ancora una volta, però, è ai margini che avvengono gli incontri più straordinari. Se l’incontro con il Catholicos – il leader spirituale armeno – Vazgen I si rivela un’amara delusione, un evento mondano come tanti, privo di un vero senso religioso, Grossman è scosso fino alle lacrime dalla visita a un umile presbitero della minoranza dei molokani, che va a trovare nella sua izba. Ed ecco quanto afferma di quell’Aleksej Michajlovič: un uomo che “non poteva vivere senza la sua fede come non poteva vivere senza pane e senza acqua, e che per essa avrebbe affrontato con fermezza il supplizio della morte sulla croce, la più tremenda prigionia perpetua.”

Percorre le pagine dell’opera di Grossman una continua tensione fra centro e periferia, male e bene, menzogna e verità. Grossman si trova a Yerevan nei giorni del XXII congresso del PCUS, della celebre denuncia di Chruščëv che segna la fine dello stalinismo, e annota con divertito cinismo il filisteismo di quanti nella capitale – impegnati fino a ieri a tessere le lodi del grande dittatore – si affrettano oggi a condannarlo. Lo infastidisce ugualmente, di alcuni suoi interlocutori, un certo nazionalismo tendente allo sciovinismo. Ma lo scrittore guarda altrove, a quelle che definisce “le fondamenta, le radici di un popolo millenario”: contadini e pastori.

L’Armenia di Grossman è appunto questa, quella dei margini e delle campagne, lontana dalle mode e dai centri del potere. Non Yerevan, bensì Tsaghkadzor, Dilijan e il villaggio ai piedi dell’Ararat dove si conclude il racconto, e dove avviene l’incontro più inatteso: quello fra l’intellettuale ebreo venuto da lontano e gli umili contadini armeni. Un riconoscersi nell’emarginazione, nella sofferenza, ma anche nella storia – vittime entrambi di persecuzioni di proporzioni prima d’allora impensabili: la Shoah degli ebrei e il genocidio armeno.

Completano il volume otto racconti, appartenenti alla stessa stagione letteraria, che ci parlano – come già il suo capolavoro Vita e destino – della simpatia profonda dello scrittore nei confronti degli ultimi, di una sua estrema fiducia nell’uomo e nella sua capacità di compiere il bene anche nelle circostanze più impensate.

Concludo con un’altra citazione tratta dai suoi Appunti di viaggio: “Gli armeni sono un popolo antichissimo, dalla cultura e dalla storia millenarie, un popolo sopravvissuto a guerre su guerre, un popolo viaggiatore, un popolo che per secoli ha patito il giogo degli invasori, che ha lottato per la libertà ed è tornato schiavo.”

Ma è davvero degli armeni, e non piuttosto degli ebrei – e di se stesso, di riflesso, dello stesso Grossman – che qui si sta parlando?