Area di Vardenis, in Armenia, dove frequenti sono le violazioni del cessate il fuoco - © Keshishyan Avetis/Shutterstock

Area di Vardenis, in Armenia, dove frequenti sono le violazioni del cessate il fuoco - © Keshishyan Avetis/Shutterstock

A due anni esatti dalla fine del conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno Karabakh, si parla sempre più di un accordo di pace che dovrebbe essere firmato entro la fine dell'anno, ma le violazioni del cessate il fuoco sono quotidiane

10/11/2022 -  Marilisa Lorusso

La notte fra il 9 e il 10 novembre 2020 con una dichiarazione congiunta fra Armenia, Azerbaijan e Russia si poneva fine ai combattimenti di quella che è a volte chiamata la seconda guerra del Karabakh o dei 44 giorni. A distanza di 2 anni molte cose sono cambiate nelle dinamiche di questo conflitto che si protrae dalla fine degli anni ’80 e che deve ancora trovare una reale soluzione, ma anche solo una effettiva stabilizzazione.

Si parla di un accordo di pace che dovrebbe essere firmato entro la fine dell’anno, sul cui testo i ministri degli Esteri di Armenia e Azerbaijan starebbero negoziando, ma le parti sostengono che non esista una bozza, e se esiste non è pubblicamente discussa. È chiaro che sarà elemento fondamentale dell’accordo di pace il reciproco riconoscimento dei confini dei due paesi.

Uno degli aspetti del conflitto che si è evoluto più pericolosamente negli ultimi due anni è legato alla delimitazione e demarcazione dei confini armeno e azero. Riconquistate da Baku le regioni della così detta cintura di sicurezza, i due paesi si trovano oggi a condividere un confine molto più esteso, e la strategia che sta prevalendo è di presidiare militarmente i supposti confini, delimitandoli attraverso avamposti armati.

Questo processo ha scarsa validità giuridica e crea continue situazioni esplosive, in cui di fatto l’Azerbaijan tende ad avanzare, e l’Armenia continua a minare il confine: due strategie che portano all'aumento di incidenti e di conseguenza a un peggioramento del quadro della sicurezza. Sono più di 250 in due anni le vittime di mine nei territori riconquistati dall’Azerbaijan, un numero che continua ad aumentare nonostante il conflitto si stia allontanando nel tempo.

L’avanzamento azero, di cui gli scontri di settembre sono l’ultimo tassello, cambia anche la natura del quadro di sicurezza per l’Armenia. Quello che ora è esposto a rischio non è il territorio dell’entità politica del Nagorno Karabakh, non riconosciuta da alcun paese e de jure parte dell’Azerbaijan, ma l’Armenia propria e la sua integrità territoriale come riconosciuta internazionalmente. Dopo gli scontri di settembre l’Armenia ha apertamente chiamato in causa l'Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva, e su sua iniziativa si è tenuta a fine ottobre una riunione di emergenza. Durante la riunione è stato discusso il rapporto della missione di monitoraggio che l’Organizzazione ha mandato dopo gli scontri di settembre, una misura che Yerevan ha considerato del tutto insufficiente per offrire effettive garanzie di tutela della propria integrità territoriale. Anche la riunione è risultata un buco nell’acqua per quanto riguarda la creazione di un meccanismo che scongiuri nuove erosioni territoriali e nuovi scontri. La riunione ha visto Yerevan subire un offensivo monologo del presidente bielorusso Lukashenko che si è abbandonato a uno dei suoi show personali accusando Pashinyan di combattere una guerra per montagne su cui non pascolerebbero manco le capre.

Il quadro della sicurezza

Non stupisce che il governo Pashinyan si stia rivolgendo altrove, e freneticamente. L’Armenia non solo non ha trovato uno scudo nelle alleanze di cui fa parte, ma nemmeno sarebbero stati rispettati gli accordi sulla fornitura di armi. Yerevan ha aperto nuovi canali di acquisto dall’India, e si muove con inedita agilità alla ricerca di nuove garanzie di sicurezza. Questo è uno dei fattori che ha aperto la porta a un nuovo ruolo protagonista dell’Unione Europea, della Francia, degli Stati Uniti, dell’Iran.

La Russia ritiene invece di essere ancora il mediatore del conflitto e a fine ottobre con una nuova mossa che precede i venturi incontri a Bruxelles e a Washington dei ministeri degli Esteri armeno e azero e dei capi di governo, ha convocato il primo ministro Pashinyan e il presidente Aliyev a Sochi. Un'intera giornata – anche se l’effettivo trilaterale è durato 2 ore, in serata – da cui è scaturita una nuova dichiarazione . È di fatto la quarta, dopo quella che ha posto fine ai combattimenti e due seguenti nel 2021. Il punto saliente di questa dichiarazione sarebbe un rinnovato impegno al non ricorso della forza.

Va notato che sulla carta, per la soluzione del conflitto, esiste di fatto già tutto. Armenia e Azerbaijan hanno già sottoscritto un trattato con cui riconoscono i reciproci confini stabiliti alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Nel 1991 i paesi membri della Comunità degli Stati indipendenti, l’ex URSS, hanno sottoscritto la dichiarazione di Alma Ata (Alma Aty) che nel quinto paragrafo recita che le parti contraenti riconoscono e rispettano l'integrità territoriale e l'inviolabilità dei confini esistenti. L’Armenia ha dichiarato di essere in cerca di un originale che dimostrerebbe che aveva posto una deroga per quanto riguarda il Nagorno Karabakh, che non riconoscerebbe parte dell’integrità territoriale azera. È caccia al documento, che comunque non sarebbe riconosciuto come vincolante da Baku.

Per quanto riguarda una soluzione pacifica dei contenziosi, le dichiarazioni precedenti prevedono già un impegno reciproco a non ricorrere all’uso della forza. Fatto sta che alla prova dei fatti l’assenza di un accordo di pace bilaterale che preveda anche dei meccanismi di de-escalation e tutela dei confini oltre agli impegni più o meno orali reciproci sta rendendo la situazione sempre più difficile da gestire sotto il profilo della sicurezza. E anche questo nuovo incontro non ha cambiato il quadro. Dal 25 ottobre ai primi di novembre è sembrato che il cessate il fuoco stesse tenendo, ma il nuovo mese si è aperto con nuove accuse di violazione. Il 3 novembre il ministero della Difesa ha nuovamente diramato il bollettino che negli ultimi 2 anni è divenuto quasi quotidiano. Unità militari armene da Verin Shorzha (in azero Yuxarı Şorca) e Vardenis avrebbero aperto il fuoco contro forze azere dislocate nel paese di Bezirkhana (Bəzirxana) a Kalbajar. L’area di Kalbajar è quella in cui nei bollettini azeri viene indicata come la più frequente per quanto riguarda le violazioni del cessate il fuoco. Il ministero della Difesa armeno pressoché sistematicamente nega la veridicità di queste informazioni e sostiene che questa campagna di disinformazione crea i presupposti per una nuova operazione militare.

L’episodio del 3 novembre non è rimasto isolato, e si sta tornando al trend precedente al 25 ottobre. Di nuovo il 4 novembre il bollettino azero ha riportato che a Yellicə e Mollabayramlı in Kalbajar si sia sparato per rispondere al fuoco proveniente da Verin Shorzha, Vardenis, Norabak. Di nuovo il ministero armeno ha negato che ci siano state violazioni del cessate il fuoco e accusa gli omologhi di disinformazione.

A due anni dalla fine del conflitto, sotto il profilo della sicurezza, la situazione non è né normalizzata né stabilizzata, e se la pace pare auspicabile e negoziabile, è altrettanto chiaro che l’opzione militare rimane sul tavolo anche a causa della profonda sfiducia reciproca fra i belligeranti, che paiono saper stare vicini solo se separati da trincee armate e minate.