Rifugiati a Goris. Foto: Arshaluys Barseghyan/OC Media.

Rifugiati a Goris, Armenia - Foto: Arshaluys Barseghyan/OC Media

Un mini dossier in tre puntate per rendere conto delle popolazioni colpite dai conflitti per il Nagorno Karabkah e che sono sfollate dalle aree che abitavano, anche se non coinvolte direttamente nei combattimenti. Prima puntata

03/07/2024 -  Marilisa Lorusso

I conflitti per il Nagorno Karabakh hanno comportato un massiccio esodo delle popolazioni che abitavano l’area, inclusa quella non direttamente interessata dai combattimenti. Prima sono scappati gli azeri dal Karabakh e zone limitrofe e poi, specularmente, gli armeni nel 2023, gli azeri dall’Armenia, gli armeni dall'Azerbaijan.

Questi svasi di popolazione, drammatici, tragici, si sono inseriti in contesti di progressiva divisione di gruppi etno-linguistici dalla miscela tipica degli imperi multinazionali e delle migrazioni e conformazioni demografiche locali, e riguardano diverse centinaia di migliaia di persone. Numeri quindi molto elevati per la relativamente ridotta demografia dell’area.

Delle comunità preesistenti le storie nazionali hanno largamente rimosso il ricordo, fino a negare la presenza storica di intere culture nei territori che ora corrispondono agli stati repubblicani.

Questa storia, che è soprattutto una storia di sfollamento e dolore individuali e collettivi, potrebbe finalmente giungere a una ricomposizione, a un assai postumo risanamento, ora che la geografia politica dell’area fra Armenia e Azerbaijan va chiarificandosi e forse, a grande fatica, stabilizzandosi e normalizzandosi.

Purtroppo anche questo possibile ridare spazio alle comunità di sfollati e ai rientri è intossicato dall’odio e dalla retorica dello scontro. Il discorso del rientro delle popolazioni sta piuttosto diventando uno strumento di appropriazione territoriale a posteriori e di revanscismo.

Un governo in esilio

Mentre continua il Grande Ritorno, cioè il rientro degli azerbaijani nelle zone riconquistate da Baku, la comunità degli esuli armeni rimane totalmente fuori dal territorio. Il numero di quanti hanno accettato di diventare cittadini azerbaijani rimane bassissimo, e limitato di fatto alle poche unità che non erano riuscite ad evacuare al momento della resa del 2023. Gli armeni del Karabakh sono quindi quasi nella totalità in Armenia, a parte circa tremila persone, ma i dati sono approssimativi, che dall’Armenia si sono spostate in altri paesi.

Di questa popolazione di circa 100mila sfollati, la stragrande maggioranza rimane in Armenia con un documento di protezione provvisorio, una esigua minoranza ha accettato la cittadinanza armena.

Formalmente il governo dell’Artsakh (Nagorno Karabakh in armeno) esiste ancora. Il previsto scioglimento di tutti gli organi governativi è stato cancellato da un contro-decreto a inizio gennaio 2024, quando il presidente de facto Samvel Shahramanyan ha reso nota la decisione di annullare il decreto sulla dissoluzione. La decisione è stata firmata il 10 dicembre 2023 e una copia è stata inviata al primo ministro dell'Armenia Nikol Pashinyan.

Shahramanyan ha deciso di non renderla pubblica , tenendo conto delle minacce e delle speculazioni espresse dalle autorità armene riguardo all'attivismo possibile dei rappresentanti dell’Artsakh come qualcosa che potrebbe mettere in pericolo la sicurezza dell’Armenia e ostacolare il processo di firma del trattato di pace.

I deputati del Parlamento dell’Artsakh alla fine del 2023 avevano convocato una sessione segreta e deciso di creare un comitato e si erano impegnati a portare avanti attività a difesa dei diritti della comunità che aveva loro dato un mandato, in tempi ben diversi da quelli attuali.

Il 18 gennaio 2024 l'ex ministro degli Esteri dell’Armenia (1998-2008) Vartan Oskanian ha annunciato che avrebbe presieduto e coordinato il lavoro del nuovo Comitato per la difesa del diritto al rimpatrio collettivo del popolo dell’Artsakh e dei loro altri diritti fondamentali.

Il Comitato è stato istituito in collaborazione con le principali forze politiche del Nagorno Karabakh. La missione principale del Comitato è quella di sostenere e perseguire il diritto al rimpatrio collettivo del popolo degli armeni in Nagorno Karabakh con garanzie internazionali per il loro re-insediamento sicuro, protetto e dignitoso.

Secondo le parole di Oskanian l’obiettivo di una pace duratura nella regione rimane irraggiungibile se un segmento del popolo armeno viene sradicato dalla propria terra, e viene imposto all’Armenia un concetto coercitivo di pace con la minaccia imminente di ulteriori perdite. Una pace duratura e stabile può essere realizzata solo attraverso una risoluzione completa che coinvolge il ripristino dei diritti del popolo del Karabakh.

Oskanian e altri membri del comitato si sono incontrati a febbraio con i rappresentanti dell’Assemblea parlamentare dell’Artsakh per parlare di rimpatri, di garanzie di sicurezza internazionali e dell’autodeterminazione degli armeni del Karabakh nonostante “il disarmo e l’occupazione” che sono stati definiti temporanei.

Un territorio altrui

Mentre la comunità di armeni del Karabakh quindi si organizza e crea organi per un eventuale rimpatrio, il Nagorno Karabakh diventa effettivamente territorio altro rispetto a quello in cui vivevano.

Il Grande Ritorno sta dando vita a nuovi insediamenti, green village completamente ricostruiti con l’intenzione di divenire il fiore all’occhiello dell’Azerbaijan. Sono state inaugurate nuove grandi infrastrutture, incluse quelle aeroportuali, e la memoria della comunità precedentemente insediata – illegalmente, ricorda Baku – rimossa.

A gennaio è stato smantellato il complesso dedicato ai caduti armeni nelle guerre del Karabkh: terroristi secondo Baku , le cui spoglie devono lasciare il territorio dell’Azerbaijan e essere trasferiti in Armenia. Di nuovo non c’è pace nemmeno per i morti, e i cimiteri del Karabakh prima epurati dalla memoria azera, ora sono epurati da quella armena.

Distrutto anche il parlamento armeno di Stepanakert, tornata Khankendi, e il pantheon degli eroi in città. Ed è anche il patrimonio religioso a subire il processo di lustrazione: a Shusha è stata rasa al suolo la chiesa di Giovanni Battista, nota con il nome Kanach Zham.

La politica della ruspa ha sollevato preoccupazioni anche a livello internazionale, cui Baku risponde che nessuno è intervenuto quando il processo era diretto contro la memoria storica azera. Alla riconquista, l’Azerbaijan si è trovato davanti a un territorio stravolto rispetto a quello abbandonato, ed è chiaro che l’ascia di guerra non è sepolta sulla questione della cancellazione culturale.

Ospiti scomodi

Non c’è pace per i morti, ma nemmeno per i vivi. Lo status degli armeni del Karabakh in Armenia è complesso, e la questione è stata politicizzata. Il leader dell’opposizione, gli ex presidenti Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan - che a marzo hanno firmato una dichiarazione congiunta con i rappresentanti del Karabakh contro il governo di Nikol Pashinyan - cavalcano l’onda della frustrazione e strumentalizzano la questione del non-rientro in Karabakh.

I rapporti del governo armeno con i rappresentati del Karabakh sono gelidi: nessun contatto diretto. È chiaro che per Yerevan è una questione estremamente spinosa ospitare sul proprio territorio un governo in esilio fortemente revanscista mentre cerca di portare a termine un trattato di pace.

Inoltre c’è una questione politica che si trascina da prima della guerra e che è sfociata adesso in una tensione latente, cioè il fatto che l’allora Stepanakert e Pashinyan non siano mai stati in buoni termini.

Pashinyan è il primo capo di esecutivo d’Armenia eletto non membro del “clan del Karabakh” e non ha mai avuto lo stesso rapporto dei suoi predecessori, che erano karabakhi, con il governo de facto. Ed è quindi un continuo rintuzzare il governo Pashinyan, da una parte, e una spigolosità verso le rivendicazioni politiche karabakhi in Armenia dall’altro.

Un malanimo che non fa bene a una comunità di sfollati, ma nemmeno alla coesione del paese che dovrà con ogni probabilità continuare ad assorbire e integrare la comunità karabakhi, visto che i requisiti per un rientro consensuale e pacifico, inclusivo di differenze culturale e che sia una vera riconciliazione appare molto remoto, e non in agenda da nessuna delle parti.