Faig Ahmed (dal sito dell'artista)

Faig Ahmed (dal sito dell'artista )

Continua fino al 29 marzo la mostra dedicata al giovane artista azero al MACRO di Roma. Un percorso mistico e spirituale profondo, che ripercorre la storia dell'Azerbaijan

11/03/2016 -  Simone Zoppellaro Roma

Tradizione e innovazione, misticismo e tecnologia digitale si fondono nell’opera dell’artista azero Faig Ahmed . La mostra a lui dedicata dal Museo d’Arte Contemporanea di Roma (MACRO) al Testaccio, aperta fino al 29 marzo, è di quelle che non possono lasciare indifferenti. Un mondo artistico ed esistenziale cupo e inquieto, a tratti persino ossessivo, da cui affiorano continui rimandi al sufismo, la via mistica dell’Islam – filo conduttore delle opere esposte – che si innesta a sua volta su echi più remoti provenienti dallo sciamanismo. Un incontro, questo, tipico della terra da cui proviene Ahmed, l’Azerbaijan, dove la grande tradizione della letteratura mistica persiana si incontra con il retaggio religioso sciamanico tipico delle popolazioni turche. Ma lo sguardo dell’artista non si ferma qui: non contempla solo il passato per compiacersi, si interroga su se stesso e guarda oltre, alla modernità e al presente, rompendo gli schemi più consolidati della forma e del pensiero.

Points of Perception

Titolo della mostra è, non a caso, Points of Perception, quasi a voler sfidare le più comuni nozioni alla base dell’arte e della società. L’artista, che è nato e opera nella capitale azera, Baku, esordisce a Roma dopo aver esposto in diverse personali in alcuni dei principali centri internazionali dell’arte contemporanea, tra cui Londra, Dubai, New York, Delhi e Sharjah. Nonostante la giovane età (è classe 1982) dimostra una grande padronanza dei contenuti, e una notevole capacità di muoversi fra linguaggi anche molto diversi, dal video alla scultura, all’arte digitale, fino a forme più tradizionali come quella del tappeto. Un’interesse, quest’ultimo, al centro della ricerca artistica di Ahmed, e derivante dalla formazione dell’artista, avvenuta per lo più in patria. Non sarà un caso, allora, che nel 2010 l’arte della tessitura del tappeto tipica dell’Azerbaijan sia stata inclusa nel Patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’UNESCO.

Le opere esposte al MACRO, elemento non trascurabile, sono state realizzate appositamente dall’artista per la sede espositiva romana. Questo è indubbiamente uno degli elementi alla base del successo della mostra. Uno dei più importanti edifici industriali della capitale, il complesso ottocentesco dell’ex-Mattatoio, è stato adibito alla sua nuova funzione solo nei primi anni duemila. Ne è nato un dialogo originale fra Oriente e Occidente, tradizione e modernità, in cui i temi del sangue, del sacrificio e della morte ben si compenetrano con la storia del luogo. Originale è anche l’approccio alla tradizione di Ahmed: utilizzata non per lambire e assecondare il passato, ma per provocarlo in un continuo sforzo di portarne alla luce quanto vi è in esso di vitale e di inusitato. E lo fa sfruttando al meglio le tecniche più all’avanguardia dell’arte contemporanea.

L’artista, a un tempo sciamano e sufi, punta dritto all’essenza delle cose, semplificando il messaggio – e potenziandolo – con un’estetica a tratti minimale, ma non priva di pathos e di passione. Come spiega lo stesso Ahmed in una breve dichiarazione di estetica che leggiamo sul sito dell’artista: “La mia arte è un esperimento. Voglio esaminare il soggetto per vedere quanto in profondità si può andare dentro a qualcosa di compiuto e olistico, e per osservare l’influenza che questo tipo di mutamento può avere sulle persone. Ciò che mi influenza e ispira più di ogni altra cosa sono tutti i tipi di viaggio. Dicendo viaggio intendo sia il viaggio fisico in altri paesi, dove posso scoprire ed esplorare tradizioni e culti diffusi in un determinato territorio, sia il viaggio nel mio subconscio, per mezzo di diverse pratiche e di meditazioni”.

Onda spirituale

Fra le opere esposte a Roma, di grande impatto è Wave (2015), dove una struttura di metallo plasma una serie di tappeti verdi da preghiera disposti in un’ampia sala, come in una moschea. Il risultato è un’onda, appunto, che allude ai movimenti rituali dei fedeli musulmani nella preghiera, e che si alza fino al cielo, con chiaro significato simbolico. E il lavoro sul tappeto, tratto caratteristico della ricerca di Ahmed, è al centro di diverse altre opere esposte al Testaccio. Tappeti modificati, distorti o liquefatti, modernissimi, che creano percezioni estranianti che rimandano all’immaginario del mondo digitale, ma alludono al contempo alla preghiera e alla sfera spirituale.

Una riflessione sul corpo è al centro dell’ultima opera esposta: Limits (2015). Un’opera dura e dolente che rimanda da un lato alle sperimentazioni della body art, ma nello stesso tempo allude anche alla circumambulazione della Mecca e all’immaginario del sacrificio tipico dell’Islam sciita: si pensi, ad esempio, alle processioni di flagellanti che accompagnano – in Azerbaijan, in Iran, e altrove – le commemorazioni annuali del martirio dell’Imam Hussein. Un tappeto circolare cosparso di chiodi reca inequivocabili tracce di sangue sulla superficie. Nella sala seguente, un video svela il retroscena: un uomo cammina circolarmente sul tappeto chiodato, con legati ai piedi nudi quelli che hanno tutta l’aria di essere due cuori.

Ma non solo il tappeto – immagine al contempo del giardino e del paradiso, nella tradizione islamica – è al centro delle opere esposte. Centrale è anche il tasbih, il rosario musulmano usato dai sufi per la pratica del dhikr, la ripetizione incessante dei 99 nomi di Dio, e che secondo diversi storici sarebbe all’origine del nostro rosario, conosciuto nel Medioevo grazie ai pellegrinaggi in Terrasanta e le Crociate. Nell’opera Alef (2015) – anch’essa accompagnata da un video – troviamo così un tasbih bianco lungo alcuni metri che pende, spargendosi al suolo, da un un manoscritto lasciato aperto. Particolarità di quest’ultimo – che ha tutta l’aria di essere un Corano – è quella di avere un testo composto da una ripetizione ossessiva di una sola lettera: la alef a cui allude il titolo, ovvero la prima lettera dell’alfabeto arabo.

La mostra è stata curata da Claudio Libero Pisano ed è visitabile al MACRO insieme a una grande installazione dell’artista italo-iraniano Bizhan Bassiri (a cura di Bruno Corà). Promossa da Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e dall’Ambasciata della Repubblica dell’Azerbaijan in Italia, è stata realizzata in collaborazione con la galleria Montoro12 Contemporary Art di Roma, dove il giovane artista aveva esposto lo scorso anno.