Immagine del film Aritmija

Immagine del film Aritmija

Un Trieste film festival ricco di premi e di buon cinema, dal russo "Aritimija" di Chlebnikov, vincitore del miglior lungometraggio, al lituano Matelis con un film sul ciclismo dei gregari, fino al premio OBCT al romeno Radu Jude con "La nazione morta"

12/02/2018 -  Nicola Falcinella

Il pubblico del 29° Trieste Film Festival ha premiato il cinema russo. Il Premio Trieste per il miglior lungometraggio è andato ad “Aritmija – Aritmia ” di Boris Chlebnikov (conosciuto per “Koktebel” in co-regia con Aleksej Popogrebskij). Una giovane coppia in crisi sullo sfondo di una sanità allo sbando. Le immagini di ambulanze, ferite, malattie ritornano in tutti i film vincitori della manifestazione, anche nel miglior documentario e cortometraggio. Chlebnikov ha realizzato un'opera in equilibrio tra risata e dramma, tra denuncia e intimismo.

Katya e Oleg sono sposati da qualche anno. La donna lavora come infermiera in un ospedale, il marito è un paramedico che fa servizio sulle ambulanze, attento ai malati ma costretto a trovare le soluzioni più improbabili, anche per placare gli anziani ipocondriaci. La moglie non è più disposta a tollerare i ritardi e le distrazioni del consorte e durante la festa di compleanno del padre decide di manifestare l'insoddisfazione e l'intenzione di separarsi e lo allontana. Per Oleg inizia una rincorsa per recuperare l'amore, mentre sul posto di lavoro si trova alle prese con un nuovo dirigente che vuole riorganizzare il sistema del soccorso e guarda solo al profitto.

Chlebnikov da una parte attacca il potere e i politici, come stanno facendo i migliori esponenti delle ultime generazioni del cinema russo, dall'altra lo bilancia con gli aspetti personali e sentimentali. Non ha la precisione stilistica e la regia controllata di un Andrei Zvyagintsev (“Il ritorno”, “Leviathan” e il recente “Loveless”), ma il regista di “Aritmia” è incisivo sia nel far partecipare alle tribolazioni della coppia sia nel mettere in mostra cambiamenti nella sanità che non guardano al bene degli esseri umani. Nel tono tragicomico spiccano alcune situazioni di intervento, dove servono nervi saldi e prontezza di riflessi e di parola, ma anche la spassosa scena della sirena dell’ambulanza bloccata nel traffico.

Vincitore del Premio Alpe Adria Cinema al miglior documentario

Il ciclismo professionistico è prima di tutto un lavoro. Per i grandi campioni e soprattutto per i gregari, coloro che assistono, guidano e proteggono i loro capitani e non appaiono quasi mai. Li racconta in modo decisamente inedito  “Wonderful Losers: A Different World ” dell'esperto lituano Arūnas Matelis, una coproduzione che ha coinvolto otto Paesi europei, compresa l'italiana SteFilm, vincitore del Premio Alpe Adria Cinema al miglior documentario.

Atleti che per il pubblico sono solo numeri e maglie colorate e raramente ottengono la ribalta. Uomini che devono essere forti, preparati, hanno responsabilità, giocano un ruolo decisivo nei successi o nelle sconfitte dei loro capitani e delle loro squadre ma che non appaiono, e raramente possono puntare a vincere. Non è il ciclismo spettacolare dei campioni e delle imprese, non il pedalare per la gloria, ma per lavoro. Un film sull'essere umano che prevale sull'atleta: la fatica, le cadute, la malattia, il sacrificio (come quello del ciclista che continua a pedalare per cinque giorni con il bacino fratturato), la passione per le due ruote, la vita del gruppo anche con i suoi riti, e poi ambulanze, ammiraglie, rifornimenti, infortuni e lunghe interruzioni dell'attività.

Il respiro di un ciclista dà il ritmo a molte scene, mentre la neve e la nebbia sui passi alpini contribuiscono a creare quasi un'atmosfera allucinata. Tra i quattro protagonisti principali di un documentario in buona parte filmato al Giro d'Italia, ci sono due corridori italiani, Paolo Tiralongo, per il quale arriva la prima vittoria, e Daniele Colli che racconta la propria malattia, la determinazione e il recupero.

Miglior cortometraggio

Ambulanze anche nel vincitore del premio per il miglior cortometraggio, “60 kilo niczego - 60 chili di nulla ” del polacco Piotr Domalewski, storia di lavoro nero in un cantiere. Kryszstof è appena diventato capo, grazie all'intervento del cognato, e trova un operaio vittima di un incidente. Chiama subito l'ambulanza, ma il lavoratore è un ucraino illegale (un milione  era impiegato in Polonia nel 2016, circa la metà illegalmente) e il direttore non vuole problemi, così è costretto a una messinscena per far tornare indietro i soccorritori e nascondere l'accaduto. In precedenza Kryszstof era stato duro (“sono una persona decente fuori dalla miniera” aveva risposto) con alcuni dipendenti e si trova rinfacciata la replica al momento in cui cerca aiuto. “E se fossi tu?” “Ma non sono io” è la risposta. Tutti se ne fregano, conta solo mettersi al riparo dai rischi. Un corto che dice molto sulle condizioni del lavoro e degli immigrati oggi, ma anche del degrado del clima sociale in uno dei Paesi europei che più sta facendo uscire il proprio lato oscuro e il proprio disagio.

Premio Balcani Caucaso Transeuropa

Il nostro ormai tradizionale Premio Balcani Caucaso Transeuropa ha riconosciuto i meriti di "Tara moarta - La nazione morta ” del romeno Radu Jude, di cui avevamo già scritto dal Festival di Locarno. Questa la motivazione: “Radu Jude con Ţara Moartă ci offre un contributo artistico di grande valore per la contrastata elaborazione della memoria pubblica della Shoah in Romania. E ci immerge in una storia poco sedimentata anche nella memoria comune europea proponendo il toccante diario di Emil Dorian, medico e scrittore, che documenta anno per anno il montare di discriminazione e violenza nella Romania degli anni '30 e '40. Alla voce del protagonista si contrappongono gli audio della propaganda fascista e comunista e soprattutto lo scorrere di decine di foto d'epoca che ritraggono scene di vita quotidiana e provocano una dissonanza angosciante. Ne risulta un film doloroso e potente che alimenta la consapevolezza del nostro devastante passato e ci scuote dal torpore di questo presente che normalizza razzismo e xenofobia. Jude infine con il suo originale lavoro ci mostra una strada per la trasmissione della memoria dopo la scomparsa dei testimoni diretti della violenza di massa del ‘900 europeo”.

Un ponte fra Est e Ovest

L'Eastern Star Award,  che vuole segnalare una personalità del cinema che ha contribuito a gettare un ponte tra l'Europa dell'est e dell'ovest, è stato consegnato all'attore croato Rade Šerbedzija. Il premio Cinema Warrior - Cultural Resistance Award per “l'ostinazione, il sacrificio e la follia di quei 'guerrieri' siano essi singoli, associazioni o festival che lavorano - o meglio: combattono - dietro le quinte per il Cinema” è stato ritirato dai friulani Piera Patat e Livio Jacob. Il Premio Cei – Central European Iniziative al film o alla personalità che meglio interpreta la realtà contemporanea e il dialogo tra le culture è stato consegnato alla produttrice romena Ada Solomon, mentre il Premio Sky Arte a “Soviet Hippies ” dell'estone Terje Toomistu.

Il premio Corso Salani per un film italiano non ancora distribuito è andato a “L'uomo con la lanterna ” di Francesca Lixi. La storia incredibile di Mario Garau, zio della regista debuttante, che nel 1924 andò a lavorare in Cina dopo aver combattuto la guerra mondiale (anche in Albania), filmando e fotografando ciò che vedeva. Materiali molto belli e preziosi non sorretti da una costruzione all'altezza, con animazioni pleonastiche e una voce principale non adeguata che fa perdere mordente al documentario. Una riflessione sulle radici, la memoria, l'evoluzione della memoria, l'ossessione del viaggio che avrebbe però bisogno di un ulteriore lavoro di montaggio per far emergere tutto il suo potenziale.

Cineuropa

A “Soldatii. Poveste din Ferentari - Soldati. Una storia da Ferentari ” è andato il Premio Cineuropa. L'esordio nel lungometraggio della serba, che vive in Romania, Ivana Mladenović tratta uno strano incontro e un improbabile amore ai margini di Bucarest. Il quarantenne sociologo Adi, neo separato, si trasferisce a vivere a Ferentari, quartiere nella zona sud della capitale, noto per gli episodi di delinquenza. Interessandosi di musica manele , conosce il vicino Alberto, un simpatico rom un po' sovrappeso che ha passato 14 anni in prigione. Uno corpulento ed energico, l’altro segaligno e pensoso, imprevedibilmente iniziano una storia. Due mondi che sembrano non avere niente in comune, differenze esplicitate dal fisico, ancor più quando camminano per strada. Una stramba relazione omosessuale tra due che negano di esserlo, in un contesto che li condannerebbe, impregnato di un machismo che essi stessi vivono e condividono. Non si capisce perché stiano insieme, eppure ci stanno, per solitudine o interesse o entrambi. La vita nel quartiere, con un donna con carretto e cavallo, ma anche quella dei senza tetto della stazione, è vista con occhio documentaristico. Intanto i due vivono la passione, le timidezze e le difficoltà della relazione, mentre percorrono un'odissea metropolitana per dare una carta di identità ad Alberto, che ha vissuto da barbone dopo la scarcerazione.

Altro interessante esordio romeno è “Breaking News ” di Iulia Rugina. In una fabbrica di Bucarest è appena avvenuta un'esplosione. Due giornalisti televisivi entrano nonostante i rischi, ma, mentre stanno registrando il servizio, crolla loro il soffitto addosso. Alex si ferisce leggermente, Andrei muore. Per ricordare il collega in un servizio, il sopravvissuto va a Mangalia, sul mare, dalla famiglia del defunto e ne trova la figlia quindicenne Simona. Questa un po' fugge e un po' si avvicina, racconta di un padre musicista fallito e spesso assente. Il film mostra il loro incontro, le loro prese di coscienza, il mettere insieme i pezzi della vita dello scomparso, il cinismo del sistema dei media, tutto senza alzare la voce, senza scene madri, ma lasciando che maturino i sentimenti.

Tra i migliori del lotto anche “Daybreak – Dita zë fill  dell'esordiente albanese Gentian Koçi. Un film che lavora di sottrazione per raccontare una vicenda al limite, che tratta temi delicati come l'eutanasia e l'assistenza agli anziani in punto di morte. Violeta ha un bambino piccolo, ha perso il lavoro come infermiera, ha un ingente debito verso il padrone di casa e non ha un soldo in tasca. L'amica Ariana, in partenza per la Francia dove vive suo marito, le lascia da accudire la madre Sophia molto ammalata. L'intensa e dolente protagonista (Ornela Kapetani, premiata come miglior attrice al Festival di Sarajevo 2017) cerca di sfuggire a un destino che appare segnato.

Documentari

Tra i documentari, oltre all'ottimo “Družina – The Family ” dello sloveno Rok Biček, merita “Druga strana svega – The Other Side of Everything ” di Mila Turajlić, nota per “Cinema Komunisto”. Un altro viaggio nella memoria personale e collettiva della Jugoslavia e del post Jugoslavia partendo dalla vicenda familiare e della casa in Birčaninova Ulica, a Belgrado, costruita dal bisnonno Dušan Peleš. L'avo fu tra i firmatari dell'unione nel 1919 che formò il Regno di serbi, croati e sloveni e successivamente ricoprì la carica di ministro della Giustizia. Guida nel passato è la madre della regista, Srbijanka Turajlić, a sua volta ministro a inizio anni 2000, alla caduta di Slobodan Milošević, dopo essere stata una delle voci del movimento d'opposizione Otpor. La donna aveva solo un paio d'anni quando il grande appartamento fu nazionalizzato a fine anni '40, diviso in due con la chiusura di alcune porte e l'ingresso della famiglia Lazarević.

Parlando della casa e degli usci sbarrati, Turajlić racconta la Jugoslavia con Tito e alla sua morte, fino al dito dello sloveno Vinko Hafner rivolto contro l'astro nascente Milošević, durante il congresso dei comunisti jugoslavi del 1988, per chiedergli di valutare le conseguenze delle sue parole. Per loro la donna e suoi amici si trattò dell'inizio della dissoluzione della Federazione. Poi gli anni delle manifestazioni di piazza, mentre la docente universitaria Srbijanka si ritrovò quasi per caso sui palchi. Oggi la delusione prevale, l'ex ministro considera il 5 ottobre “una rivoluzione fallita”. Il film, forse meno d'impatto e suggestivo rispetto al precedente, fa un bell'esame delle responsabilità che un cittadino o una cittadina si devono prendere per il loro Paese nel momento delle difficoltà.