La Commissione europea ha proposto una "clausola di salvaguardia", che rende possibile la reintroduzione dei visti per i cittadini dei Balcani occidentali. Pur non avendo effetti immediati, il documento (che dovrebbe essere approvato il 9 giugno) è sintomatico di una fase di difficoltà e scarsa fiducia
Tornano i visti per i cittadini dei Balcani occidentali? Per il momento il pericolo sembra scongiurato, ma una recente proposta della Commissione UE ribadisce che il crollo del “muro europeo dei visti Schengen”, abbattuto in due fasi (tra il 2009 e il 2010) per Serbia, Macedonia, Montenegro, Albania e Bosnia-Erzegovina, è un atto niente affatto irreversibile.
Il Commissario europeo per gli Affari Interni, la svedese Cecilia Malmström, lo scorso 24 maggio ha presentato la richiesta di introduzione di “una clausola di salvaguardia che consenta, in circostanze eccezionali, di ripristinare temporaneamente l'obbligo di visto per i cittadini di un dato paese terzo”.
Il nuovo meccanismo, seppur non citandoli esplicitamente, fa chiaro riferimento ai paesi dei Balcani occidentali, che (con l'importante eccezione del Kosovo) hanno visto cadere il muro dei visti negli ultimi anni, e dovrebbe rappresentare un valido correttivo “all'arrivo massiccio [sul territorio dell'UE] di migranti irregolari o richiedenti asilo le cui domande non siano fondate”.
Ora la parola passa al Consiglio dei ministri dell'UE che, il prossimo 9 giugno, dovrebbe votare (e approvare, a meno di colpi di scena) la proposta della Commissione.
Un'eventuale approvazione, come specificato più volte dai funzionari di Bruxelles, non significa un'automatica e immediata reintroduzione dei visti. Con il nuovo regolamento, però, ogni singolo paese dell'Unione, nel caso dovesse ritenerlo necessario, potrebbe richiedere nuovamente visti d'ingresso per i cittadini di paesi che venissero ritenuti “problematici”.
Visti e asilo politico
Dal dicembre 2009, data della prima ondata di liberalizzazioni, in alcuni paesi dell'UE, (Svezia, Germania, Belgio) è stato registrato un forte aumento del numero di richiedenti asilo politico dai paesi dell'area (soprattutto Serbia e Macedonia).
Secondo i dati Eurostat, nel 2010 circa 18mila cittadini serbi hanno chiesto asilo politico in paesi dell'Unione europea, risultando terzi dopo afgani e cittadini della Federazione russa. Se a questo numero aggiungiamo i kosovari, il numero dei richiedenti asilo tocca i 29mila, con un aumento del 54% rispetto al 2009. Un trend simile ha riguardato la vicina Macedonia: nel 2010 sono stati circa 6400 i richiedenti asilo, contro i 900 di un anno prima.
Il problema è che la stragrande maggioranza dei richiedenti non ha i requisiti legali per ottenere l'asilo politico: si tratta quasi sempre di persone in fuga da situazioni di povertà e degrado sociale, che tentano di approfittare dell'apertura delle frontiere per sfuggire ad una realtà resa ancora più dura dalla crisi economica. Alla base del viaggio e della richiesta di asilo sono state individuate molte truffe vere e proprie, organizzate da sedicenti agenzie decise a speculare su povertà e desiderio di una vita migliore.
Nel 2011 il fenomeno sembra essere almeno in parte rientrato. Secondo quanto dichiarato dal ministro degli Interni serbo Ivica Dačić, rispetto alla fine del 2010 il numero dei richiedenti asilo serbi sarebbe già sceso del 35%.
La questione ha comunque innervosito non poco i governi maggiormente investiti dalla “febbre da asilo”, e nei mesi che hanno preceduto la proposta della Malmström, ci sono stati numerosi scambi di accuse e minacce di revisione dell'accordo sulla liberalizzazione dei visti per lo spazio Schengen. Nel marzo 2010, l'allora primo ministro belga Yves Leterme si recò personalmente in Macedonia per spiegare che “le possibilità di ottenere asilo politico in Belgio per migranti economici è pari a zero”.
Il dibattito su Schengen
La questione dei visti va comunque inquadrata all'interno di un dibattito più ampio, che negli ultimi tempi ha investito e messo in discussione sia uno dei pilastri fondativi dell'Unione europea, quello della libertà di movimento, sia le politiche migratorie della stessa UE.
Non è un mistero che gli entusiasmi sull'apertura delle frontiere, sia interne che esterne dell'Unione, si siano smorzate sensibilmente negli ultimi anni, e che oggi, nonostante il perdurare di una retorica “europeista” si assiste ad una gara alla costruzione di nuovi muri, o almeno alla fine di ogni velleità di abbattere quelli esistenti.
Da questo punto di vista, la proposta della Commissione europea è un esempio lampante. Il documento denuncia formalmente l'impossibilità di un processo decisionale rapido. “Per abolire o introdurre un obbligo di visto occorre attivare una procedura ordinaria di codecisione che rischia di protrarsi per anni”.
La proposta, però, prende in considerazione soltanto procedure facilitate per ripristinare i visti, e non certo per abolirli. I kosovari, quindi, ultimi paria di quanto rimane del “ghetto balcanico dei visti”, non possono sperare in scorciatoie di sorta.
La proposta di reintroduzione dei visti, riflette poi le discussioni sempre più accese sullo stesso trattato di Schengen. L'episodio più eloquente, in questo senso, è stato la breve “guerra dei permessi di soggiorno provvisori”, scoppiata tra Italia e Francia nella primavera del 2011, all'indomani delle rivoluzioni in Egitto e Tunisia, e sfociata nella richiesta congiunta di Parigi e Roma di una revisione parziale del trattato. Non a caso, la proposta della Commissione, insieme alla clausola di salvaguardia sui visti, prevede iniziative di “Dialogo con i paesi del Sud del Mediterraneo per la migrazione, la mobilità e la sicurezza”.
Alzare gli steccati?
La liberalizzazione dei visti, non è certo stato un processo affrettato (vedi il box) ed è sicuramente un risultato politico di grande importanza, forse una delle migliori espressioni del soft power dell'UE, in grado di spingere i paesi dei Balcani occidentali a intraprendere riforme importanti in tempi relativamente rapidi.
Questo risultato, però, è arrivato in un momento molto travagliato della vita dell'Unione, che sembra aver perduto in buona parte la propria capacità di gestire e capitalizzare le proprie capacità di proiezione nel proprio “esterno vicino”.
Molti paesi europei guardano con crescente scetticismo la capacità di gestire il processo di allargamento (di cui l'abolizione dei visti è un passo di centrale importanza). Anche perché l'UE, molto efficace nello stimolare riforme nei paesi che vogliono integrarsi, fatica poi a implementare meccanismi efficaci di controllo una volta che si è entrati nel club. Ecco perché la tentazione è sempre più quella di tenere alti gli steccati, e usare più il bastone che la carota con chi (parliamo soprattutto degli stati dei Balcani occidentali) si affaccia sul cortile dell'Unione.
“Ci impongono nuovamente i visti o no? Questo è il problema”, si chiedeva recentemente (e con un pizzico di ironia) l'opinionista Svetlana Jovanovksa sul "Dnevnik", principale quotidiano di Skopje. La risposta per il momento è no. Per la Macedonia e gli altri Paesi dei Balcani che guardano a Bruxelles, però, le domande amletiche ancora irrisolte restano parecchie.