Secondo Michele Nardelli l'amministrazione americana con la guerra all'Iraq vuole raggiungere un obiettivo che ritiene strategico: indebolire l'Europa e con essa l'Euro. Per questo la 'campagna acquisti' tra i Paesi dell'est.
Quali sono gli effetti della guerra contro l'Iraq sull'area balcanica? Perché l'amministrazione americana ha fatto pressione sui paesi dell'est europeo affinché sostenessero l'intervento militare anglo-americano e come sta cambiando la strategia USA verso questi paesi?
Se qualcuno pensa che la guerra contro l'Iraq sia una riedizione di quella del 1991, una sorta di completamento del lavoro lasciato a metà da Bush padre, o anche più semplicemente una nuova guerra per il controllo delle risorse petrolifere, si sbaglia. O quanto meno, coglie solo un aspetto forse addirittura marginale della partita.
Perché quella in atto rappresenta una guerra (preventiva) per affermare la supremazia nordamericana a fronte dell'insostenibilità del modello neoliberista come progetto per l'insieme dell'umanità e del possibile riaprirsi di una dialettica internazionale tanto sul piano delle istituzioni del diritto internazionale (l'ONU), che su quello dell'autorevolezza politica (l'Europa), che infine sul piano della regolazione dell'economia mondiale (il potere del dollaro).
Le argomentazioni usate per tentare di legittimare l'aggressione contro un paese sovrano si sono sgonfiate da sole. Si è parlato di lotta al terrorismo internazionale, ma per stessa ammissione degli strateghi del Pentagono non c'è connessione alcuna fra questo obiettivo e l'intervento in Iraq. Semmai avverrà il contrario, nel senso che l'aggressione avrà sicuramente come effetto quello di rinvigorire l'azione terroristica. Si è detto che il regime di Saddam Hussein aveva armi di distruzione di massa, cosa che può essere vera per gran parte dei paesi di questo mondo compresi gli Stati Uniti, ma le relazioni degli ispettori dell'ONU ci dicono che il disarmo è reale e non ci sono armi proibite. Il regime irakeno non rispetta i diritti umani e su questo non ci sono dubbi. Ma sono rispettati forse in Cina, paese campione nelle condanne a morte e nella repressione di ogni forma di dissenso? O in Cecenia, Kurdistan, Israele, Guatemala, Arabia Saudita...? E chi autorizza gli USA ad ergersi a paese difensore dei diritti umani nel mondo, dopo aver sostenuto decine di dittature militari in ogni parte del pianeta? No, nemmeno questa argomentazione regge alla prova.
Si è detto 'guerra del petrolio', e già qui ci avviciniamo ai motivi reali della guerra, ovvero alla difesa degli interessi degli Stati Uniti ovunque siano messi in discussione. Alla strategia di controllo delle materie prime, per un modello di sviluppo che può reggersi solo attraverso un uso ineguale delle risorse del pianeta: è la teoria dell'esclusione e della rinuncia al principio umanistico, che condanna una parte sempre più cospicua dell'umanità alla deriva.
Ma, accanto a questo, c'è una ragione più profonda e pericolosa della guerra e riguarda per un verso l'ONU, per un altro l'Europa e la sua moneta, l'Euro.
L'insofferenza per regole internazionali alle quali gli USA ormai sistematicamente si sottraggono, e per istituzioni considerate vecchi retaggi del passato dove vale il principio di rappresentanza e non quello della forza (quand'anche nel Consiglio di Sicurezza il diritto di veto sia ancor oggi appannaggio dei vincitori della seconda guerra mondiale), non è una novità. Lo svuotamento e la messa in mora delle Nazioni Unite è un processo che dura da tempo e che vede fra i protagonisti proprio quei paesi che detengono il monopolio della forza, gli USA in primis quali principali debitori verso il Palazzo di vetro. Ma l'idea di ridisegnare un nuovo ordine mondiale che si fondi sul primato di chi si sente vincitore dei conti con la storia, dell'alleanza del bene contro l'asse del male, risponde ad un neointegralismo post moderno con il quale i fondamentalismi etici irrompono nella sfera pubblica consentendo di intraprendere "ciò che nessun altro pretesto avrebbe potuto rendere valido e legittimo" (Trattato dei tre impostori, XVII secolo). Non è casuale che sempre più i signori della guerra si configurino come i nuovi feudatari, padroni della terra e degli uomini, nelle cui mani si concentrano potere economico, militare e, appunto, religioso. Che pregano prima di scatenare massacri. Poco importa se si chiama Jihad o Libertà duratura.
La crisi delle istituzioni internazionali ha messo ancor più in rilievo il ruolo dell'Europa, come ambito geopolitico in grado di riaprire una dialettica internazionale andatasi chiudendo con la fine del bipolarismo. L'Europa ha il peso economico e l'autorevolezza politica necessari per costituire un'altro possibile polo nelle relazioni internazionali. E con l'introduzione della moneta unica questo ruolo si è manifestato in tutte le sue potenzialità, se è vero che in pochi mesi l'Euro si è conquistato uno spazio di rilievo grazie a un numero crescente di paesi che hanno deciso di utilizzarlo come divisa per i propri scambi commerciali.
La già fragile economia statunitense si è retta in questi anni sul ruolo del dollaro quale strumento di stabilità economica interna e di regolazione degli scambi internazionali come valuta di riserva, tanto da costringere i paesi a tesaurizzare in dollari per l'approvvigionamento delle materie prime. Con l'entrata sullo scenario economico mondiale dell'Euro, questo primato è nei fatti messo in discussione. In particolare la scelta di alcuni paesi OPEC (fra i quali l'Iraq, il Venezuela e più recentemente, il Brasile) di usare l'Euro come valuta standard nelle transazioni petrolifere e commerciali, ha posto in grave allarme l'amministrazione americana. Un'eventuale decisione dei paesi OPEC di passare tutti all'Euro provocherebbe un tale deflusso di dollari dai fondi di riserva delle banche nazionali da farlo crollare secondo alcune stime dal 20 al 40%, con conseguenze disastrose per l'economia nordamericana. Qualcuno dice che Saddam ha preso questa strada convertendo la propria riserva all'ONU di 10 miliardi di dollari in Euro, perciò gli Stati Uniti vorrebbero un governo fantoccio in Iraq per farlo ritornare nel sistema del dollaro. Un monito anche verso altri 'stati canaglia' come l'Iran, il secondo maggior produttore OPEC, che sta orientandosi anch'esso per il passaggio all'Euro nelle sue esportazioni di petrolio. E analoga preoccupazione riguarda l'Arabia Saudita, paese tradizionalmente amico degli USA, dove il regime appare però sempre più debole e dove crescono le spinte per una 'rivoluzione saudita' che ne cambierebbe la collocazione internazionale. Non dimentichiamo che Bin Laden è espressione della cultura wahabbita insofferente all'occupazione militare degli USA, e che proprio per tale crescente insofferenza questo paese ha deciso di non sostenere gli Stati Uniti nella guerra all'Iraq. Per queste ragioni, tra l'altro, all'intervento americano farà seguito una grande e permanente presenza militare nella regione del Golfo Persico.
Altra strada per fermare il crescente ruolo dell'Euro è quella di dividere ed indebolire l'Europa. Il disegno appare chiaro: si affida da un lato a quella testa di ponte che è l'Inghilterra, da sempre estranea al processo di integrazione politica ed economica, accomunata da analoghe preoccupazioni sul futuro della Sterlina. Dall'altro alle correnti di euroscetticismo presenti in misura crescente nei paesi della vecchia Europa, che non hanno mai digerito le regole di Bruxelles e la determinazione con la quale il Presidente della Commissione Europea Romano Prodi sta completando il processo di riunificazione europea.
In questo contesto l'est europeo e l'area balcanica in particolare costituiscono il lato debole della nuova Europa. Sul quale non a caso l'amministrazione americana ha fatto breccia nella ricerca di nuove alleanze a sostegno della guerra, comprate a suon di miliardi grazie alla debolezza e alla scarsa lungimiranza delle classi politiche locali. Con un'adesione così convinta e sbandierata alla guerra, infatti, esse hanno contribuito a dividere quell'Europa che sarebbe invece il loro unico approdo realistico per il futuro. Smascherando al contempo gli interessi forti che li spingono a restare zona di diffusa economia nera e grigia, in un intreccio sempre più perverso fra potere politico e criminalità economica che è all'origine anche dell'assassinio del premier serbo Zoran Djindjic.
Il fatto che Macedonia, Albania, Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia... abbiano accettato questa pressione anziché sintonizzarsi sulla lunghezza d'onda dell'Unione Europea è sintomatico di una possibile altra polarizzazione indotta proprio dagli Stati Uniti, per indebolire l'Unione Europea e quella moneta che già oggi è riferimento di quasi tutto l'est europeo. E che la guerra contro l'Iraq si riverberi nel sud est europeo lo si capisce dal netto mutamento di rotta dell'amministrazione americana verso l'area, con il malcelato sostegno alle spinte indipendentiste in Montenegro - condizione di dichiarata inammissibilità per l'integrazione europea - e in Kossovo, la cui indipendenza riaprirebbe tutta la partita nella regione con Macedonia, Serbia (tanto con le minoranze albanesi nelle valli di Presevo e Bujanovac che con il Sangiaccato) e Albania. Una strategia che si evince anche dagli orientamenti dei funzionari della cooperazione americana nel sud est europeo, con il loro lavoro di dissuasione verso la prospettiva di integrazione europea in virtù di una presunta incompatibilità di natura culturale. Per la verità, lo stesso atteggiamento statunitense a Rambouillet, di ricerca della guerra ad ogni costo, lasciava trasparire un latente conflitto con l'Unione Europea, ma questo i primi a non comprenderlo furono proprio i paesi europei che alla fine parteciparono alla 'guerra umanitaria'.
Si tratta di una politica irresponsabile, che riapre profonde contraddizioni in un'area ancora largamente destabilizzata e che solo una nuova agenda politica nell'ambito della prospettiva europea poteva e può traghettare verso condizioni di vera stabilità. Condizioni ancora di là da venire, anche perché assistiamo ad una politica fondata su un Patto di stabilità che osserva burocraticamente l'evolversi dei paesi interessati, senza aver la capacità e la forza per agire su processi reali che, invece, remano nella direzione opposta. Un Patto che sembra non accorgersi di quanto accade nella realtà: della caduta verticale delle produzioni locali che accomuna tutti i paesi del sud-est europeo; della crescente devastazione ambientale, eredità di vecchi regimi dove in nome dell'industrializzazione non c'era limite e tutto era possibile, oggi alimentata dall'assenza di regole a tutela della salute e da multinazionali che sfruttano territori già fortemente provati. Non sembra accorgersi del sempre più preponderante peso della criminalità economica e delle mafie da essa alimentate; dell'aggravarsi delle condizioni di vita che espone deboli tessuti sociali al risorgere del nazionalismo e di quelle elite politico-affaristiche affermatesi nella guerra dei dieci anni o nello sfacelo dei vecchi regimi. Tanto da porsi come veri e propri poteri paralleli, in grado di condizionare la vita politica e sociale fino ad eliminare fisicamente - come è avvenuto con il premier serbo - chi vi si oppone.
In questo contesto occorre più Europa, serve uno scatto da parte di tutte le istituzioni europee nell'accelerare i processi di integrazione, così come serve più Europa dal basso, ovvero un grande movimento di opinione e di fitte relazioni comunitarie. Perché i Balcani hanno bisogno dell'Europa, ma anche l'Europa - se vuole avere l'autorevolezza necessaria per riaprire una forte dialettica internazionale e fermare le logiche imperiali - non può continuare ad essere un continente dimezzato.
Michele Nardelli
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