Gli scozzesi votano oggi per l’indipendenza. Come già successo in maggio, dopo il referendum in Crimea, ci si torna a chiedere quale potrebbe essere l’impatto nel sudest europeo. E si rispolvera il vecchio spettro della ‘balcanizzazione’ dell’Unione Europea

18/09/2014 -  Rodolfo Toé

(Pubblicato originariamente da Rassegna Est e Le Courrier des Balkans)

Gli scozzesi, i catalani, forse anche i corsi. Ogni volta che si tenta di cambiare le frontiere europee, per crearne di nuove, i Balcani tornano al centro dell’attenzione. È stato così per la Crimea in maggio. Ed è vero, ora, per la Scozia, che vota per rendersi indipendente da Londra.

La domanda è sempre la stessa: ovvero se il cambiamento delle frontiere nel vecchio continente non rischia di riaprire il vaso di Pandora delle tensioni autonomiste che tuttora esistono nell’ex Jugoslavia. Per questo le ambasciate occidentali, a Belgrado, Pristina o Sarajevo, sono obbligate a gettare acqua sul fuoco. “Una nuova carta dei Balcani è assolutamente impensabile”, ha dichiarato per esempio l’ambasciatore britannico a Sarajevo, Edward Ferguson, in un’intervista rilasciata recentemente al quotidiano bosniaco Dnevni Avaz.

Ferguson si riferiva evidentemente all’entità serba di Bosnia Erzegovina, la Republika Srpska, e alle velleità autonomiste del suo leader, Milorad Dodik. “Il referendum in Scozia, che sarà organizzato con il consenso di tutti i principali partiti politici del paese, non può assolutamente essere comparato a una secessione unilaterale della Republika Srpska. Il futuro della Bosnia Erzegovina è nell’unità, non nelle divisioni”, ha sottolineato Ferguson.

L’ennesimo “precedente” per delle ulteriori divisioni?

La Bosnia Erzegovina, con le sue tensioni nazionali rimaste irrisolte anche dopo gli accordi di pace di Dayton, torna naturalmente sotto i riflettori ogni qual volta in Europa si parla di cambiare le frontiere, rompendo quel tabù apparentemente dato per scontato dopo la convenzione di Helsinki del 1975. Ed è solo parzialmente a causa del vecchio cliché, evidentemente tuttora valido per i media internazionali, della polveriera balcanica.

In effetti, la circostanza che il paese si stia preparando alle elezioni politiche (previste per il prossimo 12 ottobre) non aiuta a calmare i toni bellicosi della politica, ormai ufficialmente nel pieno della campagna elettorale. E così, mentre l’Europa aspetta di sapere se la Scozia sarà indipendente o no, Milorad Dodik prepara manifesti elettorali che lo ritraggono assieme a Putin, fa visita ai “fratelli” di Belgrado, assicura che “i serbi non combatteranno più alcuna guerra”, ma che “continueranno a difendersi”, e che, in ogni caso, “se l’indipendenza della Republika Srpska non sarà possibile nell’immediato, rimane comunque il nostro obiettivo di lungo periodo”.

“L’obiettivo della mia politica è che la RS sia sempre meno un’entità, e sempre di più uno stato”, ha dichiarato recentemente Dodik all’agenzia France Presse. “Osserviamo molto da vicino quello che sta succedendo in Italia, in Scozia o in Catalogna. Si tratta di esperienze d’importanza capitale per la Republika Srpska e, quando arriverà il momento, ci serviremo di questi esempi”.

Si tratta chiaramente, al meno in parte, dell’usuale retorica elettorale utilizzata da Banja Luka. Niente di nuovo, quindi. Tuttavia, resta una certa preoccupazione: la ri-nazionalizzazione di gruppi autonomisti in tutta Europa potrebbe, nel lungo termine, avere degli effetti negativi anche sulla stabilità dei Balcani.

L’agenzia di stampa serba, Tanjug, ha dato molto spazio a un’intervista di James Ker-Linsday, un’analista della London School of Economics, esperto di politica estera britannica. Nel suo intervento, Ker-Linsday ha sottolineato che “il referendum scozzese potrebbe avere degli effetti negativi sulla regione, soprattutto in Bosnia Erzegovina, Macedonia, Serbia e Kosovo. Se gli scozzesi votano per l’indipendenza, delle altre comunità in tutta Europa potrebbero seguirne l’esempio. Questo potrebbe tradursi in una maggiore instabilità regionale”.

Nello stesso articolo, tuttavia, la validità del referendum scozzese come possibile “precedente internazionale” per organizzare delle consultazioni analoghe nei Balcani viene duramente rigettata da Kristof Bender, il vicepresidente dell’Iniziativa europea di stabilità.

“In Scozia, non c’è stata alcuna repressione della popolazione locale, come nel caso del Kosovo; non c’è stato alcun intervento militare da parte di una potenza confinante come in Crimea; infine, non c’è stata nemmeno una guerra, come per l’Abkhazia o l’Ossezia”, ha spiegato Bender. Alla fin fine, secondo lui, il risultato del referendum non dovrebbe interessare che i cittadini britannici.

Il vecchio cliché della balcanizzazione

Se gli eventi di Scozia (e di Catalogna) potrebbero influenzare gli equilibri futuri nella regione dell’ex Jugoslavia, è anche vero che molti commentatori stranieri parlano di una crescente balcanizzazione dell’Unione europea, una formula divenuta ormai abituale quando si parla della rinascita di movimenti nazionalisti e identitari nel continente, e della possibilità di una divisione degli stati nazionali esistenti.

Tim Judah, corrispondente dell’Economist ed esperto di Europa dell’est, già nel 2012 denunciava i rischi di una balcanizzazione del Regno Unito. “Vent’anni fa, la Jugoslavia implodeva nel sangue e il mondo assisteva all’inferno dell’assedio di Sarajevo. Oggi, i cittadini britannici contemplano la dissoluzione del Regno Unito”. Secondo Judah, l’indipendenza della Scozia sarebbe parzialmente comparabile a quella del Kosovo dalla Serbia, o meglio del Montenegro. “La secessione della Scozia sarebbe un divorzio consensuale, dopo il quale ci sarà una situazione di relativa armonia, e non un conflitto armato o delle nuove tensioni internazionali”.

Sempre secondo Judah, l’indipendenza scozzese avrebbe già avuto dei (limitati) effetti sui Balcani, dal momento che “negli ultimi anni, la Spagna aveva cominciato a dimostrare una certa maggiore apertura di fronte alla prospettiva di dare un riconoscimento internazionale al Kosovo”. Un’apertura bruscamente interrottasi dopo l’organizzazione del referendum scozzese, e le manifestazioni a favore dell’indipendenza della Catalogna.

Lo spettro di una dissoluzione del Regno Unito, e delle sue ripercussioni sul continente, era stata evocata anche dal Ministro degli esteri svedese, Carl Bildt, che al Financial Times aveva parlato apertamente del rischio di una (di nuovo) “balcanizzazione delle isole britanniche”. Lo stesso termine era stato utilizzato anche dall’ex generale della Nato scozzese, George Robertson, secondo cui “l’indipendenza scozzese sarebbe catastrofica, in termini geopolitici, per l’intera Europa”. Le sue dichiarazioni erano state a tal punto allarmiste che uno dei principali giornali scozzesi, The Scotsman, gli aveva risposto con un articolo dal titolo piuttosto eloquente: “Non ti preoccupare dei Balcani, George”.

“La Scozia nel cuore della Serbia”

E alla fin fine, al di là delle boutade retoriche di Milorad Dodik, che già era stato molto svelto a sfruttare l’impatto mediatico della secessione della Crimea, anche i Balcani sembrano non preoccuparsi troppo del referendum scozzese. I principali giornali delle regioni più “calde”, il Sangiaccato di Novi Pazar, la Macedonia, il Kosovo, la Voivodina o il Montenegro non sembrano attribuire un’importanza particolare al voto degli scozzesi.

La sola a rivelarsi sensibile alla tematica è, in modo forse non troppo sorprendente, l’opinione pubblica serba. “L’Europa paga l’indipendenza concessa al Kosovo”, scrive il giornale Vesti. “Le potenze occidentali si trovano a pagare il conto per avere riconosciuto la secessione della provincia serba”. L’articolo cita tutte le tensioni nazionali ancora presenti in Europa e conclude: “se è ancora possibile, nell’Europa del ventunesimo secolo, parlare della nascita di nuovi stati, è solo grazie al precedente internazionale del Kosovo”.

Il paragone tra la Serbia e il Regno Unito è mantenuto, seppure in modo molto meno aggressivo, da uno dei principali giornali di Belgrado, Politika. “La Scozia nel cuore della Serbia”, è il titolo di un commento a firma di Zorana Šuvaković. “Sappiamo bene come si sente una persona quando il suo paese va in pezzi, anche se il divorzio è civile e consensuale”, scrive l’autrice. “Le separazioni fanno sempre male. Lo sanno in molti di noi, come ci si sente quando si arriva alla frontiera e si deve mostrare il passaporto. È strano come altri paesi, più fortunati e più ricchi del nostro, debbano conoscere forse il nostro stesso destino”.