Oggi nell'immaginario dei paesi dell'area balcanica si incontra spesso una parola chiave: Europa. Non si tratta solo del richiamo ad un'appartenenza storica, peraltro niente affatto scontata se pensiamo alla sufficienza e al distacco con cui nell'intero '900 è stato trattato il sud est europeo. E non si tratta nemmeno soltanto di una riscoperta tardiva dello straordinario intreccio di culture al di là dell'Adriatico, per secoli quasi ignorato dal vecchio continente che non riusciva a leggervi la propria immagine riflessa.
Per i Balcani Europa oggi è soprattutto l'idea di fluidificare in un'entità più ampia gli incerti contesti nazionali usciti dalle guerre dell'ultimo decennio. Di pensare che il virus nazionalistico che ha fatto da sfondo e da maschera ideologica al disintegrarsi della nazione degli slavi del sud - e con esso alla crisi delle ideologie novecentesche - va affrontato superando gli angusti richiami ai mille possibili quanto improbabili "fondi genetici". Occorre al contrario definire uno spazio più ampio di riferimento, nel quale disegnare il futuro delle terre balcaniche.
Questo spazio virtuoso si chiama Europa, l'unica immagine forse in grado da un lato di superare le chiusure nazionalistiche dei micro-confini, e dall'altro di respingere la tentazione di trasformare l'intera regione nel paradiso senza regole dell'off shore. Prospettiva quest'ultima che accade talvolta di sentire apertamente teorizzata, pensando i futuri Balcani come zona franca da regole di civiltà economica e giuridica.
Il problema è che da quest'altra parte dell'Europa, quella ricca e politicamente definitasi con autosufficienza Unione Europea, si continua a non riflettere sulle tragedie degli anni '90 e a pensare ai paesi balcanici solo come terreno di incursione. Si persevera così nella ricerca -ormai fuori del tempo, ma ancora foriera di effetti disastrosi - di proprie aree di influenza nazionale, senza traccia alcuna di un approccio d'area. Oppure si interviene con una logica puramente emergenziale, per poi affidarsi nella ricostruzione al presunto potere taumaturgico dell'economia di mercato e della sua capacità di autoregolamentazione. Si dimentica così, tra l'altro, che le tragedie di questi anni non sono per nulla estranee alle stesse forme attraverso cui il libero mercato, nelle sue moderne versioni mondializzate, si è organizzato e ha influito dopo l'89. In ciò si è trovato certamente un fertile retroterra nello sfascio dei regimi comunisti e nella natura centralistica e piramidale - quasi sempre di tipo banditesco - dell'economia di stato, basata sull'intreccio tra potere politico e apparato burocratico. E hanno influito anche la deresponsabilizzazione collettiva e l'assenza di difese culturali diffuse, eredità perversa di regimi che hanno segnato e impoverito in profondità i loro corpi sociali.
L'assenza di una strategia di fondo delle istituzioni internazionali, di un loro progetto complessivo per l'area che fosse scevro da intenzioni miopi, ha lasciato mano libera alle forme più perverse dell'economia finanziarizzata. Esse hanno potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenza della derogazione estrema, cosi come nel traffico d'armi, nel riciclaggio, nel traffiking, nel mercato della droga e in quello dei rifiuti.
Per ribaltare questa deriva politico-culturale occorre dunque un'idea alta, e quella di Europa può esserla. Sta qui, attorno a questo nodo cruciale, la possibilità di superare il vuoto progettuale che caratterizza la diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche molta parte del mondo non governativo. Si tratta di riempire il vuoto tracciando un possibile itinerario di ricostruzione economica , sociale, ambientale e democratica di questa parte tanto importante del vecchio continente. Senza ripetere la stanca parodia degli investimenti occidentali, che sono destinati ad impoverire quei territori, e ricercando invece strade nuove.
Un percorso di ricostruzione simile andrebbe incardinato su due concetti di fondo: l'opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale criterio di rinascita economica, e l'autogoverno delle comunità come strada per ricostruire coesione ed identità sociale. Due idee - lo sviluppo locale e l'autogoverno - che non sono affatto la romantica illusione di uno sviluppo alternativo dolce rispetto al modello occidentale, ma l'unica via d'uscita all'implosione della statualità vissuta nel sud est Europa. Gli stati nazionali usciti da un decennio di devastanti conflitti, infatti, sono oggi in una vera e propria paralisi fiscale: mancano entrate tributarie stabili, perché non c'è lavoro regolare e l'economia esistente è in gran parte informale o addirittura criminale. Gli unici introiti significativi vengono dalle risorse non ancora privatizzate - molto spesso a scapito dei già precari equilibri ambientali - o dai programmi di aiuto internazionali, delineando così una condizione di dipendenza che rischia di divenire strutturale. È perciò necessario ricostruire un rapporto virtuoso fra cittadini e pubblica amministrazione, fra cittadini e comunità, fra cittadini e territorio, per sfuggire alle chimere degli investimenti occidentali di rapina e parimenti all'assistenzialismo umanitario. Si tratta di una questione vitale, che investe il rapporto fra aiuti internazionali, risorse locali e approcci culturali.
Se queste sono le premesse, il vecchio modello economico del sistema industriale pre-bellico non è più proponibile, perché affetto da gigantismo, gerarchia del comando, condizioni di mercato radicalmente mutate, arretratezza degli impianti e perdita di competenze tecniche a causa della guerra. Occorre invece un'impostazione radicalmente nuova, che porti con sé risvolti sociali, economici e culturali in parte inediti per i Balcani. Girare pagina infatti significa immaginare un percorso economico fortemente intrecciato ai saperi e alle intelligenze - che non mancano, data l'alta scolarità diffusa e per molti l'esperienza formativa all'estero - unite alle tradizioni culturali e alle nuove sensibilità ambientali. Bisogna costruire un disegno di sviluppo integrato del territorio, sul quale far convergere le risorse locali e gli aiuti internazionali. Un disegno fondato da un lato sulle professioni della qualità, ad alta intensità umana e creativa, e dall'altro sul settore primario dove convivano e si integrino progetti partecipati in agricoltura, zootecnia, indotto dei servizi, dell'artigianato e dell'industria di trasformazione, ma anche turismo rurale e termalismo.Questo approccio ha come caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di contare sulle proprie forze (risorse naturali, umane, finanziarie, organizzative); di prendere come punto di partenza la logica dei bisogni (salute, istruzione, trasporti, infrastrutture collettive, ecc.); di dedicarsi a promuovere la simbiosi tra le società umane e la natura; di restare aperto al cambiamento istituzionale.
Il secondo concetto di fondo per immaginare una rinascita dei Balcani dovrebbe essere l'autogoverno delle comunità. C'è bisogno di ricucire, sulle macerie dei regimi e delle guerre, un rapporto fra cittadini e pubblica amministrazione fondato sulla partecipazione e su un diffuso sistema di autonomie locali anziché su rapporti gerarchici e di delega. In altre parole, un approccio comunitario capace di affrontare i bisogni individuali e collettivi in un'ottica diversa tanto dallo statalismo, quanto dalla privatizzazione mercantile di ogni segmento della vita economica e sociale di un territorio. A tal fine è necessario avviare percorsi di riforma, prima di tutto culturali ma anche istituzionali, che possano prefigurare nella relazione orizzontale fra regioni e municipalità una comune appartenenza europea, anche al di sopra delle frontiere "etnicamente pure".
Quest'appartenenza europea già si è manifestata negli anni scorsi attraverso le mille relazioni della cooperazione decentrata e della diplomazia delle città, che hanno cercato di ricostruire i ponti di dialogo e di civiltà demoliti dalla guerra. Si tratta senza dubbio di un'esperienza che prefigura un itinerario possibile di integrazione europea, alternativo rispetto a quello lento e burocratico dei governi. L'integrazione a partire dai cittadini, dai territori e dalle singole municipalità, immesse però in una rete virtuosa di partecipazione democratica, sviluppo locale e autogoverno. Per Di-Segnare, assieme, la nuova Europa.
Michele Nardelli, Osservatorio sui Balcani
Articolo uscito sulla Rivista Carta
Oggi nell'immaginario dei paesi dell'area balcanica si incontra spesso una parola chiave: Europa. Non si tratta solo del richiamo ad un'appartenenza storica, peraltro niente affatto scontata se pensiamo alla sufficienza e al distacco con cui nell'intero '900 è stato trattato il sud est europeo. E non si tratta nemmeno soltanto di una riscoperta tardiva dello straordinario intreccio di culture al di là dell'Adriatico, per secoli quasi ignorato dal vecchio continente che non riusciva a leggervi la propria immagine riflessa.
Per i Balcani Europa oggi è soprattutto l'idea di fluidificare in un'entità più ampia gli incerti contesti nazionali usciti dalle guerre dell'ultimo decennio. Di pensare che il virus nazionalistico che ha fatto da sfondo e da maschera ideologica al disintegrarsi della nazione degli slavi del sud - e con esso alla crisi delle ideologie novecentesche - va affrontato superando gli angusti richiami ai mille possibili quanto improbabili "fondi genetici". Occorre al contrario definire uno spazio più ampio di riferimento, nel quale disegnare il futuro delle terre balcaniche.
Questo spazio virtuoso si chiama Europa, l'unica immagine forse in grado da un lato di superare le chiusure nazionalistiche dei micro-confini, e dall'altro di respingere la tentazione di trasformare l'intera regione nel paradiso senza regole dell'off shore. Prospettiva quest'ultima che accade talvolta di sentire apertamente teorizzata, pensando i futuri Balcani come zona franca da regole di civiltà economica e giuridica.
Il problema è che da quest'altra parte dell'Europa, quella ricca e politicamente definitasi con autosufficienza Unione Europea, si continua a non riflettere sulle tragedie degli anni '90 e a pensare ai paesi balcanici solo come terreno di incursione. Si persevera così nella ricerca -ormai fuori del tempo, ma ancora foriera di effetti disastrosi - di proprie aree di influenza nazionale, senza traccia alcuna di un approccio d'area. Oppure si interviene con una logica puramente emergenziale, per poi affidarsi nella ricostruzione al presunto potere taumaturgico dell'economia di mercato e della sua capacità di autoregolamentazione. Si dimentica così, tra l'altro, che le tragedie di questi anni non sono per nulla estranee alle stesse forme attraverso cui il libero mercato, nelle sue moderne versioni mondializzate, si è organizzato e ha influito dopo l'89. In ciò si è trovato certamente un fertile retroterra nello sfascio dei regimi comunisti e nella natura centralistica e piramidale - quasi sempre di tipo banditesco - dell'economia di stato, basata sull'intreccio tra potere politico e apparato burocratico. E hanno influito anche la deresponsabilizzazione collettiva e l'assenza di difese culturali diffuse, eredità perversa di regimi che hanno segnato e impoverito in profondità i loro corpi sociali.
L'assenza di una strategia di fondo delle istituzioni internazionali, di un loro progetto complessivo per l'area che fosse scevro da intenzioni miopi, ha lasciato mano libera alle forme più perverse dell'economia finanziarizzata. Esse hanno potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenza della derogazione estrema, cosi come nel traffico d'armi, nel riciclaggio, nel traffiking, nel mercato della droga e in quello dei rifiuti.
Per ribaltare questa deriva politico-culturale occorre dunque un'idea alta, e quella di Europa può esserla. Sta qui, attorno a questo nodo cruciale, la possibilità di superare il vuoto progettuale che caratterizza la diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche molta parte del mondo non governativo. Si tratta di riempire il vuoto tracciando un possibile itinerario di ricostruzione economica , sociale, ambientale e democratica di questa parte tanto importante del vecchio continente. Senza ripetere la stanca parodia degli investimenti occidentali, che sono destinati ad impoverire quei territori, e ricercando invece strade nuove.
Un percorso di ricostruzione simile andrebbe incardinato su due concetti di fondo: l'opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale criterio di rinascita economica, e l'autogoverno delle comunità come strada per ricostruire coesione ed identità sociale. Due idee - lo sviluppo locale e l'autogoverno - che non sono affatto la romantica illusione di uno sviluppo alternativo dolce rispetto al modello occidentale, ma l'unica via d'uscita all'implosione della statualità vissuta nel sud est Europa. Gli stati nazionali usciti da un decennio di devastanti conflitti, infatti, sono oggi in una vera e propria paralisi fiscale: mancano entrate tributarie stabili, perché non c'è lavoro regolare e l'economia esistente è in gran parte informale o addirittura criminale. Gli unici introiti significativi vengono dalle risorse non ancora privatizzate - molto spesso a scapito dei già precari equilibri ambientali - o dai programmi di aiuto internazionali, delineando così una condizione di dipendenza che rischia di divenire strutturale. È perciò necessario ricostruire un rapporto virtuoso fra cittadini e pubblica amministrazione, fra cittadini e comunità, fra cittadini e territorio, per sfuggire alle chimere degli investimenti occidentali di rapina e parimenti all'assistenzialismo umanitario. Si tratta di una questione vitale, che investe il rapporto fra aiuti internazionali, risorse locali e approcci culturali.
Se queste sono le premesse, il vecchio modello economico del sistema industriale pre-bellico non è più proponibile, perché affetto da gigantismo, gerarchia del comando, condizioni di mercato radicalmente mutate, arretratezza degli impianti e perdita di competenze tecniche a causa della guerra. Occorre invece un'impostazione radicalmente nuova, che porti con sé risvolti sociali, economici e culturali in parte inediti per i Balcani. Girare pagina infatti significa immaginare un percorso economico fortemente intrecciato ai saperi e alle intelligenze - che non mancano, data l'alta scolarità diffusa e per molti l'esperienza formativa all'estero - unite alle tradizioni culturali e alle nuove sensibilità ambientali. Bisogna costruire un disegno di sviluppo integrato del territorio, sul quale far convergere le risorse locali e gli aiuti internazionali. Un disegno fondato da un lato sulle professioni della qualità, ad alta intensità umana e creativa, e dall'altro sul settore primario dove convivano e si integrino progetti partecipati in agricoltura, zootecnia, indotto dei servizi, dell'artigianato e dell'industria di trasformazione, ma anche turismo rurale e termalismo.Questo approccio ha come caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di contare sulle proprie forze (risorse naturali, umane, finanziarie, organizzative); di prendere come punto di partenza la logica dei bisogni (salute, istruzione, trasporti, infrastrutture collettive, ecc.); di dedicarsi a promuovere la simbiosi tra le società umane e la natura; di restare aperto al cambiamento istituzionale.
Il secondo concetto di fondo per immaginare una rinascita dei Balcani dovrebbe essere l'autogoverno delle comunità. C'è bisogno di ricucire, sulle macerie dei regimi e delle guerre, un rapporto fra cittadini e pubblica amministrazione fondato sulla partecipazione e su un diffuso sistema di autonomie locali anziché su rapporti gerarchici e di delega. In altre parole, un approccio comunitario capace di affrontare i bisogni individuali e collettivi in un'ottica diversa tanto dallo statalismo, quanto dalla privatizzazione mercantile di ogni segmento della vita economica e sociale di un territorio. A tal fine è necessario avviare percorsi di riforma, prima di tutto culturali ma anche istituzionali, che possano prefigurare nella relazione orizzontale fra regioni e municipalità una comune appartenenza europea, anche al di sopra delle frontiere "etnicamente pure".
Quest'appartenenza europea già si è manifestata negli anni scorsi attraverso le mille relazioni della cooperazione decentrata e della diplomazia delle città, che hanno cercato di ricostruire i ponti di dialogo e di civiltà demoliti dalla guerra. Si tratta senza dubbio di un'esperienza che prefigura un itinerario possibile di integrazione europea, alternativo rispetto a quello lento e burocratico dei governi. L'integrazione a partire dai cittadini, dai territori e dalle singole municipalità, immesse però in una rete virtuosa di partecipazione democratica, sviluppo locale e autogoverno. Per Di-Segnare, assieme, la nuova Europa.
Michele Nardelli, Osservatorio sui Balcani
Articolo uscito sulla Rivista Carta