(© Peter Schwarz/Shuttestock)

Peter Schwarz/Shuttestock)

Il titolo del nuovo romanzo di Dunja Badnjević riprende una celebre frase di Noam Chomsky e ha un significato pregnante per l'autrice, affetta da apolitudine, concetto che lei stessa ha coniato e che rappresenta "una ferita offerta all’anima dalla nostalgia"

20/01/2020 -  Giuliano Geri

Se la nostalgia ha a che fare con un desiderio pressante e inappagato di ritornare al passato e a ciò che si è perduto, il lutto, reale o simbolico, ne è uno dei fili conduttori, spesso sottotraccia, come una nascosta scaturigine di percorsi di senso che contribuiscono a districare la trama di quel romanzo in nuce che è ogni biografia. Perché il lutto chiama in causa prima di tutto le relazioni, che sono la vera sostanza della vita. Capita a chiunque di ritrovarsi orfani o vedovi, di perdere amici, compagni, persone care, di perdere oggetti amati o luoghi d’infanzia. Assai più raramente capita invece di perdere il proprio paese, e con esso buona parte della propria storia personale, e di ritrovarsi in una condizione esistenziale del tutto inedita, straniante, che trova la sua plastica definizione in un felice neologismo. Quale? «Apolitudine: ovvero aver vissuto in un paese che non esiste più, e che niente e nessuno può più restituirci – a noi che (forse) vorremmo riaverlo – se non il ricordo.

Apolitudine: la condizione di chi si sente solo ed estraneo un po’ ovunque, anche a “casa”, una condizione di non appartenenza, una ferita offerta all’anima dalla nostalgia.» Così recita l’incipit di un testo che faceva da presentazione a Fino all’ultimo respiro (Zandonai, 2010), l’edizione italiana di quella sorta di Zibaldone jugoslavo che sono le memorie del noto attore e cantautore Rade Šerbedžija, affresco monumentale e quasi autobiografia per interposta persona di una nazione scomparsa, tragicamente implosa nelle sue stesse nobili quanto illusorie utopie fondative. La paternità del neologismo è della curatrice di quel volume, Dunja Badnjević, che adesso, a distanza di una decina d’anni, riprende in mano il filo di un discorso allora soltanto abbozzato o semplicemente rimesso alla narrazione del grande artista, anch’egli rimasto orfano del proprio Paese, la Jugoslavia. Si addentra nelle pieghe di un lutto collettivo, segue le molteplici rifrazioni di un fascio di eventi e combinazioni destinato a rimanere un gigantesco interrogativo, a metà tra un sogno frantumato e un inganno abilmente perpetrato. La sua “apolitudine” si nutre però di uno sguardo e di un sentimento del tutto particolari, quelli di chi ha avuto in sorte il vivere altrove: «Ogni volta che tornavo nel Paese che non esiste più, scoprivo che mancava di un altro pezzo. Sulla carta geografica a me nota ecco nascerne un’altra, ignota, di cui fatico a mettere insieme i contorni. Non riuscivo a capire che la mia vita precedente non esisteva più». Se molti dei suoi compagni di strada hanno vissuto la dissoluzione tra autoimposta cecità, accettazione fatalistica o amaro disincanto, in lei quella cesura traumatica con il proprio passato continua a generare stupore e disorientamento. A differenza delle rane che vengono messe in una pentola di acqua fredda e si abituano gradualmente al suo lento e progressivo surriscaldarsi, lei è la rana gettata direttamente nell’acqua bollente.

È da questa metafora resa celebre dal filosofo americano Noam Chomsky che prende spunto lo struggente ed elegante memoir di Dunja Badnjević, Come le rane nell’acqua bollente (Bordeaux Edizioni, pp. 164, € 14,00), nel quale sfila oltre mezzo secolo di storia jugoslava e italiana. Tra le più affermate traduttrici dal serbocroato, avendo dato voce nella nostra lingua ai grandi della letteratura jugoslava – da Danilo Kiš a Meša Selimović, da Filip David a Dragan Velikić, fino a Ivo Andrić, di cui ci ha regalato, tra gli altri, il fondamentale Meridiano Mondadori progettato da Predrag Matvejević –, l’autrice ha trascorso infatti buona parte della sua vita in Italia, tra Roma e l’Umbria, dove si è trasferita dalla natia Belgrado a metà degli anni sessanta. È un racconto delicato, il suo, un attraversare le stanze della memoria quasi in punta di piedi, su un pavimento disseminato di schegge e tra pareti abbellite da foto di famiglia e ritratti di grandi uomini appesi alla rinfusa, dove le vicende private si intersecano, fin quasi a confondersi, con eventi storici di portata straordinaria. Sullo sfondo la rivendicazione di un’identità multipla cui aggrapparsi con un senso di gelosa appartenenza: di padre erzegovese, ateo ma di famiglia musulmana, e di madre croata, nipote di un viennese e di una friulana, Dunja Badnjević è quasi un cortocircuito vivente, uno scacco alla logica identitaria che ha dato vita agli attuali Stati postjugoslavi, residuo di quella «paranoia collettiva e individuale» che è il nazionalismo, come ebbe a scrivere Danilo Kiš, nonché scellerato equivoco dell’antica nozione di ethnos. In quel senso di appartenenza prima di tutto familiare si colloca la sua personale jugonostalgia, che lungi dall’essere una celebrazione mistificatoria o la mitologizzazione di un grande esperimento politico e sociale, è il rimpianto mai sopito per uno spazio polifonico e una casa un tempo comune, per un patrimonio condiviso di esperienze e ideali.

Ogni elaborazione del lutto che si rispetti parte da un funerale. Quello di Josip Broz Tito, per esempio, che segna «l’inizio della fine». Una figura controversa, la sua, capace di trasformare, «con una mano di ferro rivestita di velluto», il crogiolo balcanico in un pur fragile modello di convivenza e tolleranza, di costruire intorno ai fondamenti dottrinari della “dittatura morbida” un interessante ibrido tra socialismo dal volto (non sempre) umano e federalismo, un’inedita ricetta di sviluppo economico-produttivo che aveva nella “autogestione” il suo ingrediente fondamentale. E soprattutto l’intuizione della “terza via” in politica estera, rappresentata dal Movimento dei Paesi non allineati, alla cui testa ci fu appunto la Jugoslavia socialista. Di quel sistema tenuto in vita dal carisma del suo demiurgo, Badnjević evidenzia la forte carica idealistica, la piena garanzia di beni e servizi primari ed essenziali, e soprattutto l’inesausto fervore creativo che si insinuava tra le maglie assai larghe del controllo sociale, ma non ne nasconde i lati più oscuri e tragici. Ne è emblematica la vicenda del padre, Ešref, ex comandante partigiano e diplomatico, uomo colto e marxista ortodosso, forse troppo ortodosso secondo i canoni della “nuova classe”, strappato improvvisamente agli affetti domestici e imprigionato per quattro lunghi anni in quella “Kolyma jugoslava” che fu il campo di “rieducazione politica” di Goli Otok almeno fino alla metà dei cinquanta. A quell’assenza, che le ha «sottratto l’infanzia», Dunja ha dedicato buona parte del suo memoir precedente, L’isola nuda (Bollati Boringhieri, 2008), di cui il presente libro è l’ideale continuazione.

Il racconto viene aperto da un altro evento di massa, anch’esso a suo modo l’annuncio di una fine, il funerale di Enrico Berlinguer, leader di quel Partito comunista italiano che fu per Dunja una seconda Heimat, o piuttosto una famiglia allargata, nella quale venne accolta sin dal suo arrivo in Italia e a cui rimase fedele fino alla sua dissoluzione, non meno traumatica di quella che si sarebbe consumata solo pochi mesi più tardi nelle pianure della Slavonia. Al sogno frantumato di Unità e Fratellanza fa da contrappunto il «sogno rattrappito», citato in esergo e mutuato da Giorgio Gaber, di un «un sentirsi a casa», di un’indefinibile quanto rassicurante «consapevolezza di far parte di un’umanità migliore». Un partito all’interno del quale Dunja Badnjević non solo ha militato, ma ha lavorato dapprima come interprete per le delegazioni jugoslave e poi come redattrice per la casa editrice affiliata, gli Editori Riuniti. Inevitabile dunque, scorrendo queste pagine, il raffronto tra due personalità diverse, per certi versi diametralmente opposte, rese simili dagli incroci della Storia e dalle responsabilità politiche più che da attitudini o cifre stilistiche. Entrambi comunisti eretici, entrambi leader di massa, Tito e Berlinguer incarnarono due diverse tipologie di quel “dono” chiamato carisma: circonfuso di retorica, paternalismo bonario e di un certo mistero (sapientemente coltivato) il primo, radicato nella modestia e in una sobria autorevolezza il secondo – «forse il carisma più vero». Mentre il feretro sfila tra due ali di folla da Botteghe Oscure verso San Giovanni tra lacrime e applausi scroscianti, in quell’ultimo, oceanico e commosso ritrovo di famiglia che ha luogo l’11 giugno 1984, suonano spiazzanti e profetiche le parole pronunciate da un membro della delegazione jugoslava presente nel corteo: «I comunisti italiani non hanno il potere, ma hanno il popolo. Noi invece abbiamo il potere, ma abbiamo perso da tempo il popolo». Da cui sembra profilarsi – aggiungiamo noi – il vero tratto comune tra i due, un’affinità postuma, per così dire: non aver saputo, o voluto, allevare una classe dirigente giovane che ne garantisse una degna successione. Se Tito lasciò il potere a una congrega di grigi cleptocrati nonché abili manipolatori che portarono il popolo alla rovina e alla guerra, Berlinguer lasciò il popolo – il “suo” popolo – alle cure di un’altra macchina da guerra, stavolta “gioiosa”, manovrata perlopiù da meschine controfigure dallo scarso spessore politico e umano, che al potere e all’interesse personale avrebbero consacrato intere e ingloriose carriere.

Il racconto si snoda poi in tanti frammenti di vita, che si susseguono in ordine sparso, in un flusso di ricordi spontaneo ma sempre controllato. Agli episodi dell’infanzia e adolescenza fa da cornice una mappa sentimentale di Belgrado, che nonostante la fatwa di Le Corbusier – «la città più brutta del mondo nella posizione più bella» – riesce a sprigionare in queste pagine tutto il suo fascino riservato: spazzata dalle folate di košava d’inverno e avvolta dal profumo di tigli in estate, la sua nebbiosa anima fluviale, le sue spiagge urbane e alcuni pittoreschi e cadenti suoi scorci le conferiscono sembianze vagamente neorealiste, mentre i numerosi androni degli ottocenteschi palazzi dalle facciate scrostate offrono un riparo ai primi baci furtivi, a tenere e balbettanti dichiarazioni d’amore. Un reticolo di cicatrici della Storia nel quale vive una borghesia colta e raffinata, e pulsa un’effervescente attività artistica, dove cinema e teatri sono tra i luoghi pubblici più frequentati, anche perché vi hanno libero accesso le migliori produzioni dell’Occidente. Del resto alla cultura e in special modo alla formazione scolastica il regime dava massima priorità, così come alla coltivazione di uno spirito solidaristico figlio del pionierismo delle Brigate del Lavoro e in generale dell’epopea dell’edificazione della comune patria socialista. Si disvela così, da quell’osservatorio privilegiato che è il grande appartamento di famiglia sulla centrale piazza Slavija, una città dal composito tessuto urbano e sociale cui l’ultima ferita inferta dalle bombe NATO, che a differenza di quelle della Luftwaffe nazista sono tuttavia “intelligenti” e “umanitarie”, lascia pesanti strascichi materiali ed emotivi. La memoria torna alla primavera del 1999, di cui l’autrice è testimone-narrante dagli studi RAI, dove viene in fretta e furia ingaggiata come interprete, e si nutre della consapevolezza che «in realtà siamo stati solo un banco di prova per quello che sarebbe arrivato dopo, la cavia per le guerre successive, condotte in nome della democrazia». Ma torna anche ai drammatici anni che anticiparono la pioggia di bombe, allo stigma della colpa per la guerra fratricida, alla violenza e alla miseria dilaganti, a un’intera comunità ostaggio dell’iperinflazione e di bande criminali.

Ai fotogrammi di gioventù, di un’esistenza spensierata e frugale in cui trovava sempre spazio una certa idea di eleganza e una malcelata passione per i costumi occidentali, opportunamente rivisitati, si sovrappongono gli anni italiani, i matrimoni, gli incontri fortunati e meno, le frequentazioni dell’intelligencija e di alcuni numi tutelari della sinistra italiana, ma anche l’atmosfera verace che si respirava alle Feste de l’Unità o nelle sezioni, il lavoro culturale in redazione, le lotte per i diritti civili, le conquiste sociali, alcuni gustosi aneddoti (il più divertente riguarda proprio Berlinguer). Pezzi di un mondo che non esiste più e di cui l’autrice, e non solo lei, prova terribilmente la mancanza, un mondo più umano e solidale, dove il sentirsi parte di un’idea in movimento finisce per assorbire o nascondere le contraddizioni che di quell’idea sono pur sempre una componente essenziale.

A questo diario della nostalgia spetta quasi un posto di diritto al massimo rappresentante del nostos algos, l’Ulisse omerico, che per almeno tre generazioni ha tuttora il volto e i tratti di Bekim Fehmiu, protagonista dell’Odissea di Franco Rossi. Di etnia albanese ma jugoslavo fin nelle viscere, la sua “apolitudine” forzata fu un’esperienza così intimamente dolorosa da culminare in un gesto estremo. «Talvolta mi sento come uno sciacallo che cerca cibo tra le cose morte. Lo sciacallo della mia vita più felice», scrive Dunja Badnjević. Una felicità che risiede, in ultima istanza, nelle cose semplici, nel sentirsi protetti e parte di un tutto, nella lenta costruzione di un avvenire. Alla fine non è altro che la sottrazione di futuro a muovere il desiderio del ritorno: «Provo nostalgia per le sicurezze che avevano i giovani una volta – la scuola, il lavoro, la casa, i figli, la pensione, la salute – e che oggi non esistono più. Per la certezza che un domani sarebbe stato migliore per i miei nipoti, più di quanto non lo sia stato per la nostra generazione. E invece accade tutto il contrario».

L’epilogo è affidato all’ultimo («in ordine cronologico») dei funerali, questo più privato e raccolto, ma non meno “ecumenico”. Il funerale della madre centenaria, ex partigiana e «combattente della prima ora», la quale poco prima di congedarsi dal mondo, non in pienissima coscienza a dir la verità, ha abbracciato la fede cattolica. Un estremo, bizzarro, sconclusionato ricomporsi dell’identità multipla che sa di riappacificazione, come nelle più riuscite tragicommedie in salsa balcanica. Un finale perfetto per un libro di schietta e dolente finezza, di una bellezza a tratti commovente.