“Touch Me Not” dell'esordiente romena Adina Pintilie, ha vinto la 68ma edizione del Festival del cinema di Berlino, conclusosi lo scorso 24 febbraio. Una rassegna sui film dell'est
La Romania del cinema ha colpito ancora. L'Orso d'oro del 68° Festival del cinema di Berlino è andato a “Touch Me Not” dell'esordiente romena Adina Pintilie, che ha vinto pure il premio di migliore opera prima. Una conclusione a sorpresa e un verdetto che ha sconcertato molti. Il film più criticato della competizione, che aveva irritato buona parte degli addetti ai lavori, ha invece convinto due giurie, compresa la principale. Nella scelta dei giurati (presidente il regista tedesco Tom Tykwer, noto per “Lola corre” e il recente “Aspettando il re”) ha di certo avuto un peso che si trattasse dell'opera di una regista donna in un periodo di slogan come #metoo. E il Gran premio della giuria a “Twarz – Mug” della polacca Małgorzata Szumowska conferma il politicamente corretto della scelta, anche se Berlino ha spesso premiato registe (compresa la bosniaca Jasmila Zbanić con “Grbavica – Il segreto di Esma” nel 2006) e proprio lo scorso anno vinse la cineasta ungherese Ildiko Enyed con il bel “Corpo e anima”.
Ha inciso parecchio anche il trattarsi di un film strano, fuori dai canoni, in qualche modo sperimentale. Anche il tema, il rapporto con il corpo e il sesso, con persone di varie età che hanno problemi con il corpo e il toccare e toccarsi e cercano di superare in qualche modo la difficoltà, ha il suo interesse. Pintilie, che ha all'attivo il bel documentario “Nu te supara, dar…” (2007), mescola e confonde finzione e documentario, senza un vero racconto, con un susseguirsi di situazioni legate da una donna cinquantenne che incontra persone e dialoga con loro sul corpo, le difficoltà di accettarsi, di toccarsi e farsi toccare.
La Pintilie è solo omonima di Lucian, il più conosciuto regista romeno (tra le opere principali “Ricostituzione – Reconstituirea” del 1968 e “Terminus Paradis” del 1998) prima dell'avvento di Cristi Puiu, Cristian Mungiu e la generazione che in questo secolo ha conquistato innumerevoli riconoscimenti.
Sempre in concorso, “Dovlatov” del russo Aleksej German jr, ha invece rivelato il talento del giovane attore serbo Milan Marić, già visto in “Vlaznost” e “Dobra zena – A Good Wife” di Mirijana Karanović. Un interprete bravo e carismatico nei panni dello scrittore pietroburghese Sergei Dovlatov in sei giornate, all'inizio di novembre 1971. Un film raffinato e d'atmosfera che percorre vicende personali e sentimentali del trentenne tormentato e frustrato perché non riusciva a farsi ammettere all'Unione degli scrittori e a farsi pubblicare i testi. Al suo fianco, tra pittori, musicisti e poeti mal visti dal regime sovietico, c'è Joseph Brodskij, riconosciuto nel suo talento ma ostracizzato tanto dover emigrare in America: una strada che Dovlatov, mezzo ebreo e mezzo armeno (non risparmia critiche ai turchi) seguirà più tardi.
Con una magnifica ricostruzione d'epoca (la costumista e scenografa Elena Okopnaya ha ricevuto l'Orso d'argento per il miglior contributo tecnico), German restituisce minuziosamente il contesto, realizzando una pellicola meno visionaria e con meno elaborati movimenti di macchina rispetto ai lavori precedenti precedenti (“The Last Train”, “Garpastum”, “Paper Soldier”, “Under Electric Clouds”). La camera si muove con piani sequenza plastici in mezzo a tanti personaggi, per un film molto parlato, per far uscire dalle parole le preoccupazioni e l'arguzia di un uomo preoccupato.
Premio speciale della giuria del Teddy Award, che premia le opere a tematica omosessuale, al documentario “Obscuro Barroco” della franco-greca Evangelia Kranioti, nota per “Exotica, Erotica, Etc.”, presentato nella sezione Panorama.
Apprezzabile “Ága” del bulgaro Milko Lazarov, presentato fuori concorso come film di chiusura della selezione ufficiale. Il cacciatore di renne Nanook vive con la moglie Sedna in una yurta isolata su una grande distesa di neve in Yakuzia. Cacciano, pescano facendo fori nel ghiaccio, vivono con poco, non si lamentano, vivono in un luogo di leggende e miraggi, dove ci si raccontano i sogni o si ascolta e commenta la quinta di Mahler alla radio. La figlia Aga ha fatto qualcosa di grave e se n’è andata, ora lavora in una miniera di diamanti, come apprendono dal figlio Chena che li va a trovare. Una distesa bianca, limitata solo dalle montagne in lontananza, anche il cielo è azzurro chiaro, il senso di solitudine non è alterato neppure dalle scie degli aerei che passano in cielo. Nanook seppellisce anche gli animali che trova morti in giro, quasi si prepari a seppellire la moglie malata, come se uomini e animali fossero tutt’uno con la natura. Il film esprime un sentimento di unione e partecipazione, come se tutti formassero una grande famiglia, ed è l'elegia anche dolente di un mondo che finisce. Lazarov guarda a Robert Flaherty (fin dal nome del protagonista) e Akira Kurosawa, ma non copia, cerca l'emozione, con un'opera molto scritta e molto rispettosa, che si rivolge a un pubblico vasto.
L'elvetico Nicolas Wagnières ha sviluppato nel documentario “Hotel Jugoslavija”, presentato nella sezione Panorama, un cortometraggio del 2007. Figlio di madre belgradese emigrata in Svizzera negli anni '60, il regista ha filmato l'enorme albergo di Novi Beograd dal 2005 per una decina d’anni. Oggi lo prende come simbolo delle traversie di un paese che non c'è più, passato dalle ambizioni di Tito alle incertezze attuali attraverso le guerre. Il regista utilizza memorie personali, delle vacanze da bambino al mare e a Belgrado, per allargarsi a una riflessione generale, inserisce interviste agli ex dipendenti dell'hotel, immagini d'archivio e di uno dei più censurati film dell'onda nera jugoslava, “Mlad i zdrav kao ruza” (1971) di Jovan Jovanović.
Nella stessa sezione è stata una scoperta “Koly padayut dereva - When the Trees Fall” dell'esordiente ucraina Marysia Nikitiuk. Un film al femminile con tre generazioni e mezzo protagoniste: due sorelle di età diverse, la bambina Vitka e l'adolescente Larisa, la madre e la nonna. Il padre è morto da poche settimane, Larisa ama un piccolo criminale che finisce male, la madre fa quel che può ma è risucchiata dalla palude, la più anziana è infarcita di pregiudizi verso i rom. Un film molto libero, molto anni '60, con improvvisi momenti visionari affidati a Vitka. L'Ucraina ne esce come un paese da cui si fugge o ci si accontenta di sopravvivere.