"Se non puoi dire la verità, sta zitto". E’ seguendo queste massime che Predrag Matvejević ha vissuto. Lo ricorda la sociologa, saggista e mediatrice culturale Melita Richter
E’ curioso, di fronte a tante immagini che scorrono nella mia mente pensando a Predrag, s’impone una nella quale io sono assente e che si svolse in un tempo antecedente alla nostra conoscenza. E’ l’immagine di due bardi della letteratura del mondo jugoslavo, uno più maturo, l’altro più giovane, che condividono un viaggio in treno che li porta dalla costa adriatica verso l’entroterra, discutendo della letteratura e del potere. Si tratta di Danilo Kiš e di Predrag Matvejević. Sarà Kiš, a formulare un decalogo di ammonizioni sotto forma di “Consigli a un giovane scrittore”, tramandandoli all’amico fraterno.
- Coltiva il dubbio verso le ideologie regnanti e verso i prìncipi,
- Sii persuaso di essere più forte dei generali,
- Non associarti a nessuno: lo scrittore è solo,
- Se non puoi dire la verità, sta zitto.
E’ seguendo queste massime che Predrag Matvejević ha vissuto, fino alla sua recente morte.
Alla ricerca della verità era dedicato il suo incessante lavoro, per molti una verità scomoda, per lui stesso a volte dolorosa, ma senza la quale sarebbe stato smarrito. Era la bussola che guidava la sua presa di posizione.
“Bisognava prendere posizione, oppure tradire se stessi”, ripeteva. “Ho poca stima per coloro che pongono lo spirito di parte al di sopra dei principi, la nazionalità prima dell’umanità. Una grandissima responsabilità incombe su di loro”.
E se il suo continuo interrogarsi sul destino del mondo nella ricerca di risposte era costellato di incertezze, il suo agire da intellettuale impegnato era sostenuto da radicali convinzioni: il rifiuto del nazionalismo e degli estremismi di ogni sorta e provenienza, la condanna ed il ripudio di ogni dogmatismo e totalitarismo e dei tentativi della loro riabilitazione, la profonda indignazione di fronte all’intolleranza, alla marginalizzazione ed esclusione dell’altro e del diverso, al particolarismo culturale, alla trasformazione della cultura nazionale in ideologia della nazione.
Di questo scriveva, di questo era fatta la sua linfa esistenziale, di questo il suo respiro. E, come canta il poeta-cantautore russo Bulat Okudžava che lui amava tanto, nella straordinaria ballata Я пишу исторический роман (“Sto scrivendo un romanzo storico”), “respirava come scriveva, scriveva come respirava”, non curandosi di piacere, non mentendo.
In una recente intervista mi chiesero della nostra amicizia, di chi era Predrag per me. Mi trovai in difficoltà a svolgere la lunga pellicola della nostra conoscenza. Sicuramente ebbe inizio nei caldi giorni tra maggio e giugno del ’68. Io rientrai a Zagabria da Parigi da una gita studentesca (ebbene sì, i giovani jugoslavi si muovevano nel mondo allora, e non è stata una escursione degli adepti al partito comunista! Per favore, non parlatemi della Cortina di ferro) dove partecipai alle vibranti scosse della rivolta studentesca. Non ci volle molto che lo smottamento parigino infiammasse le moltitudini studentesche di Belgrado e Zagabria. Avevamo il sentore che la storia si fosse messa in camino e che le redini potessero essere pese da forze nuove, giovani, lontane dall’ipocrisia e dal ladrocinio rosso. Il ‘continente intellettuale’ come lo proclamò all’epoca Marcel Gauchet, era in allerta. Il piazzale davanti allo Studentski Centar di Zagabria si riempì di masse di studenti e di qualche professore progressista. Predrag era con noi. Giovane docente di letteratura francese alla Facoltà di Filosofia, allievo del noto estetologo francese Étienne Souriau, fresco dal dottorato alla Sorbona, era uno di noi, si rivolse agli studenti circondato dalla polizia. Avrebbe potuto, come la maggioranza di coloro che tenevano stretta la cattedra e il potere, essere dall’altra parte. Lo riconobbi come una stella luminosa che brillava. Era un uomo libero. A questa libertà egli cercava di dare il senso a tutta la vita.
Poi ci fu il tempo della Scuola estiva di Curzola, un'arena aperta al dibattito della sinistra mondiale tra filosofi e sociologi di orientamento marxista che con spirito critico rivolto al mainstream partitico, forgiavano la teoria del socialismo dal volto umano. Matvejević fu uno dei frequentatori della Scuola fino al 1974, quando venne chiusa. Noi, all’epoca giovanissimi studenti di sociologia, la frequentavamo trascinandoci i nostri sacchi a pelo e le tende prese in prestito, assistevamo agli incontri rapiti dalle discussioni accese, dalla poetica della filosofia, dalla politicizzazione della sociologia, dalla straordinaria potenzialità che sprigionava il concetto di praxis. Nessuno più rimaneva custode della propria disciplina, il canto delle parole libere in quell’aurea mediterranea ha contaminato idee e generazioni che hanno sperimentato in vivo l’opposizione alla vulgata marxista. Vicini all’utopia.
Credo che Predrag rimase colpito profondamente da questa esperienza. Non fu più soltanto un letterato, un docente universitario. Già dalle frequentazioni di Krleža, un altro grande della letteratura jugoslava, si convinse che senza l’alleanza tra letteratura e azione, il mondo rimarrebbe privo di significato. La filosofia e la sociologia acuirono il suo sguardo critico sulla società, ma egli divenne molto più di un sociologo. Non abbandonò mai i valori universali e umanistici, s’impegnò già d’allora alla difesa dei diritti dell’uomo. Ebbe il coraggio di esporsi in prima persona nella lotta per i diritti degli intellettuali dissidenti scrivendo ai potenti del mondo. I regimi non lo amavano. Ancora meno i nazionalisti che fomentavano le ‘guerre patriottiche’ assieme ai loro scrivani lacchè. I ‘signori della guerra’ chiamò i primi, i ‘nostri talebani’ i secondi. E un Tribunale di Zagabria lo condannò. Una pagina poco onorevole per la magistratura croata. Egli non arretrò. ‘Bisogna prendere parte’ era la sua radicata convinzione.
Quando, qualche giornalista a Sarajevo gli si rivolse ringraziandolo per il coraggio nella difesa della causa delle vittime civili colpite dalla barbarie dell’assedio, egli rispose, “non sono coraggioso io, sono soltanto sincero”.
Questo è stato Predrag Matvejević, uomo di cultura europea, di appartenenza europea, profondamente segnato dalla cultura dei popoli slavi del Sud e del loro destino. Antifascista, convinto jugoslavista e allo stesso tempo dall’animo anarchico che per niente ama gli stati, non rifuggiva dal dire: “Quel paese meritava un destino migliore”. E, mentre gli altri indicavano i popoli di quel Paese ex come gli ultimi barbari e scannatori balcanici, egli riprese a viaggiare il mondo scegliendo l’esilio per portare con sé il bagaglio prezioso della letteratura, della filosofia, della sapienza e della pratica dialogica alle quali non ha mai rinunciato, dispiegandole davanti agli interlocutori stupiti di tanta e ‘inattesa’ ricchezza. Lo ha fatto negli atenei, nei parlamenti, nelle piazze, nei teatri, nelle commissioni europee, nei salotti letterari, come tra le rovine della sua patria, della sua Mostar colpita a morte, schierandosi con coloro che hanno sofferto di più.
Grazie della tua vita, indimenticabile Maestro.