Un sguardo "diverso" sul tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia. Un approfondimento a cura di Claudio Bazzocchi.
Gli avvenimenti delle ultime settimane, che hanno visto l'estradizione di Slobodan Milosevic e la decisione del governo di Zagabria di consegnare due generali all'Aja, hanno fatto tornare alla ribalta il tribunale dell'Aja per la ex-Jugoslavia e la sua procuratrice generale, la magistrata svizzera Carla Del Ponte.
Con questa scheda vogliamo cercare di capire cos'è e come funziona il Tribunale e di riflettere sulle contraddizioni del Tribunale, che spesso è stato accusato di essere uno strumento di giustizia politica e non un tribunale super partes. Lasceremo da parte le obiezioni che sono venute al tribunale da parte di gruppi accecati dal fanatismo ideologico e ci concentreremo in particolare sulle analisi di Danilo Zolo, che in questi anni ha criticato in modo profondo e puntuale non solo il Tribunale dell'Aja per la ex-Jugoslavia e la nascente Corte Penale Internazionale costituita a Roma nel 1998, ma anche i fondamenti del globalismo giuridico.
Cos'è e come funziona il Tribunale dell'Aja
Il Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia (http://www.un.org/icty/) è stato istituito nel maggio del 1993 con la risoluzione 827 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il tribunale può perseguire tutti coloro che si siano macchiati di crimini di guerra e contro l'umanità nel territorio della ex-Jugoslavia dopo il 1' gennaio 1991.
Non dispone di una propria polizia e si appoggia quindi per gli arresti sulla Sfor in Bosnia e sulla Kfor in Kosovo, in pratica sulla NATO.
Il Tribunale non può processare imputati in contumacia. La sua pena massima è l'ergastolo.
Il lavoro del Tribunale prevede:
- una fase istruttoria, che comprende la raccolta di prove, l'interrogatorio di vittime, testimoni o indagati, l'analisi di documenti, le eventuali indagini in loco; si conclude con un atto di accusa oppure con la decisione di non procedere oltre. Tale fase è affidata al Procuratore;
- una fase pre-giudiziale, in cui l'atto di accusa viene esaminato da un giudice della Camera di giudizio che potrà accoglierlo oppure respingerlo o anche modificarlo; è in questa fase che possono essere emessi ordini o mandati di arresto, di detenzione, di trasferimento e consegna degli imputati;
- una fase di giudizio, vale a dire il processo di primo grado; tale compito è svolto dalla Corte, organizzata ora in tre Camere di giudizio (fino al 1998 soltanto due) con tre giudici ognuna;
- una fase di appello per i giudizi di secondo grado, cioè in caso di ricorso dell'imputato o del Procuratore contro la sentenza di primo grado, con una Camera di appello composta da cinque giudici.
La Cancelleria è l'organo amministrativo del Tribunale, assiste il Procuratore ed i giudici in ogni fase del lavoro; presso la Cancelleria è istituita una Unità per le Vittime e i Testimoni, con la funzione di stabilire misure di protezione e di sostegno.
L'Ufficio del Procuratore e la Camera di appello sono in comune con il Tribunale "gemello" per i crimini commessi in Ruanda: segno della volontà del Consiglio di Sicurezza dell'ONU di mantenere un'uniformità fra le due strutture, anche se istituite ad hoc per due realtà diverse.
Il personale del Tribunale, costituito nel 1994 da 112 persone, ammontava nel 1999 a 803 dipendenti, provenienti da 60 Paesi, a cui si affiancano alcune decine di volontari (1).
In questo momento sono 39 i detenuti nel carcere di Scheveningen. Tre sono in libertà provvisoria.
I ricercati sono attualmente 37. I condannati sono stati finora 19, gli assolti 2. I procedimenti definitivamente conclusi sono 6. La pena più lunga è stata inflitta al generale croato-bosniaco Tihomir Blaskic, condannato nel marzo del 2000 a 45 anni di reclusione.
Si attende in questi giorni (luglio 2001) l'arresto dei due generali croati Rahim Ademi e Ante Gotovina, accusati dell'uccisione di civili serbi fra il 1991 e il 1995. L'8 luglio 2001 il governo croato ha accettato l'invito della Procuratrice Generale Carla Del Ponte a consegnare al Tribunale i due alti ufficiali. A seguito di questa decisione quattro ministri del gabinetto Racan si sono dimessi in segno di protesta.
Il Tribunale dell'Aja sulla ex-Jugoslavia: un passo verso una giustizia internazionale, come condizione della pace fra i popoli
"Dobbiamo liberare questo pianeta dall'oscenità per cui ci sono più probabilità di portare in giudizio chi ha ucciso un essere umano piuttosto che chi ne ha uccisi 100.000": queste parole di José Ayala Lasso, Alto Commissario dell'ONU per i Diritti Umani al tempo della costituzione del Tribunale, riassumono sinteticamente lo spirito morale e giuridico dell'istituzione di questa istituzione.
Il tribunale viene visto da molto autorevoli giuristi e filosofi del diritto come un primo passo verso l'attuazione piena di quel "pacifismo giusridico" che da Kelsen ad Habermas fa leva sulla repressione penale internazionale - esercitata sui singoli individui aldilà della loro appartenenza politica e statale e delle loro eventuali cariche istituzionali - come chiave di volta per la costruzione di una pace stabile universale.
Per i fautori del pacifismo giuridico la costituzione della Corte Penale Internazionale, avvenuta a Roma nel 1998, sarebbe un'ulteriore e fondamentale tappa nella promozione del sistema dei diritti umani, superiore a quello della ragion di stato e dei popoli.
Siamo qui al cuore delle questioni che sono fondamentali per i fautori del "globalismo giuridico", quella linea di pensiero filosofico e teorico-giuridica che può essere fatta risalire al celeberrimo Per una pace perpetua di Kant e alla sua idea del diritto cosmpolitico. Nell'età contemporanea colui che ha articolato l'ispirazione kantiana all'unità morale del genere umano è stato, come si sa, Hans Kelsen (2) con alcune tesi teorico-giuridiche innovative e radicali: l'unità e oggettività dell'ordinamento giuridico, il primato del diritto internazionale, il carattere "parziale" degli ordinamenti giuridici nazionali e la necessità di bandire l'idea stessa di sovranità come principale ostacolo al mantenimento di una pace stabile e universale.
Vediamo schematicamente quali sono i principi fondamentali del globalismo giuridico.
Unificazione planetaria e globalismo giuridico: i principi fondamentali
1) Produzione del diritto globale affidato ad un organismo centrale mondiale.
2) Una giurisdizione universale e obbligatoria, competente a giudicare i comportamenti dei singoli individui e non soltanto le responsabilità dei singoli stati.
3) La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948 elevata a norma fondamentale.
4) Rafforzamento delle istituzioni internazionali oggi esistenti, soprattutto delle Nazioni Unite. Nell'era dell'interdipendenza globale non si può più puntare per il mantenimento della pace e per la risoluzione dei grandi problemi del pianeta sul "modello di Westfalia". Il sistema dell'equilibrio degli stati sovrani ha fatto ormai il suo tempo.
5) Istituzione di organismi sovranazionali di carattere poliziesco o giudiziario, provvisti di un autonomo potere di coercizione e aventi quindi a loro disposizione una forza militare internazionale.
I critici del Tribunale penale per la ex-Jugoslavia: una giustizia politica e non imparziale
Le critiche più profonde e lucide al tribunale, ed in generale alle prospettive di un sistema penale internazionale, sono venute in Italia dal filosofo del diritto Danilo Zolo, che nel suo libro sulla guerra del Kosovo, Chi dice umanità, analizza anche l'operato del Tribunale dell'Aja per i crimini nella ex-Jugoslavia (3).
Innanzitutto si deve sottolineare per Zolo il carattere selettivo ed esemplare della giustizia penale internazionale che incrimina solamente poche decine di persone a fronte di grandi crimini contro l'umanità che prevedono una rete estesa di colpevolezze e connivenze e che quindi si pone come giustizia arcaica e sinistramente sacrificale. Tale giustizia viene inoltre esercitata molto al di fuori e al di sopra dei contesti sociali entro i quali hanno operato i soggetti incriminati, tanto che i membri dei vari tribunali, come quello dell'Aja, non verrebbero scelti sulla base della consapevolezza dei problemi storici, politici ed economici di una data area.
C'è poi il problema della scarsissima efficacia deterrente dei tribunali internazionali. Basti pensare che l'attività in Bosnia del Tribunale dell'Aja non ha assolutamente impedito i crimini delle varie parti in causa in Kosovo.
Si devono inoltre considerare gli effetti "stragiudiziari" dell'attività di tali tribunali. Si pensi all'incriminazione di Milosevic al tempo della guerra in Kosovo che l'ha escluso da qualsiasi trattativa a cui era invece stato ammesso a Dayton dove era stato peraltro lodato come "uomo della pace", e l'ha costretto inoltre a legare indissolubilmente il suo destino alla Serbia e quindi alla sua permanenza al potere.
Vi sono inoltre pesanti perplessità sul fatto che tribunali che si affidano alle forze armate di grandi potenze per compiti di polizia giudiziaria possano garantire un'effettiva tutela internazionale dei diritti umani.
L'analisi critica di Zolo non risparmia neppure la Corte penale internazionale istituita a Roma nel 1998. Tale corte ha comunque il merito di nascere in base ad un accordo multilaterale e verrà nominata d'autorità dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU, e di includere entro la propria competenza anche il crimine di aggressione accanto al genocidio e ai crimini contro l'umanità e di guerra. Zolo però sottolinea due punti critici fondamentali per l'istituenda Corte penale internazionale:
"Devono essere inoltre sottolineati due aspetti, gravemente regressivi rispetto all'esperienza dei tribunali precedenti, che restringono o minacciano l'autonomia della nuova Corte internazionale che si intende istituire. Il primo riguarda la contaminazione "costituzionale" introdotta dall'articolo 16 dello Statuto di Roma: il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avrà il potere di impedire o sospendere, a sua discrezione, le iniziative della Procura della Corte. E si ripresenta dunque, nella forma più acuta, la tensione fra il particolarismo politico del massimo organo delle Nazioni Unite e l'aspirazione universalistica di una giurisdizione penale ancorata alla dottrina dei diritti dell'uomo. Il secondo aspetto riguarda la sorprendente disposizione dell'articolo 116 che apre le casse della Corte ai "contributi volontari di Governi, organizzazioni internazionali, privati, società ed altri enti", trasformando cosí in previsione normativa per il finanziamento della futura Corte la prassi illegittima del Tribunale dell'Aia" (4)
Questa è la conclusione filosofico-giuridica di Zolo:
"E non può mancare infine una considerazione filosofico-giuridica di ordine generale: ciò che lascia perplessi nella posizione dei teorici occidentali che in quest'ultimo decennio hanno sostenuto con fervore l'idea di una giurisdizione penale internazionale, è l'assenza di una riflessione, in termini di filosofia della pena e di sociologia delle istituzioni penitenziarie, sulle funzioni e sui possibili effetti di tale giurisdizione. Sorprende che sia cosí diffusa una visione semplificata del rapporto fra esercizio del potere giudiziario e ordine mondiale, all'insegna di un feticismo penale che applica ai rapporti internazionali un modello di giustizia punitiva che nella sua esperienza "domestica" continua a sollevare gravi interrogativi. E sorprende l'entusiasmo giustizialista che affida le sorti della democrazia, della pace e dell'ordine mondiale ai verdetti di una burocrazia giudiziaria sovranazionale. Al fondo di tutto questo ci sono probabilmente nuove insicurezze e nuove aspettative che emergono in un mondo meno semplificato dalle ideologie e dalle credenze religiose e, nello stesso tempo, piú complesso, turbolento e diviso, nonostante i processi di globalizzazione" (5).
Rispetto alle considerazioni di carattere generale l'esempio del Tribunale dell'Aja è molto significativo e conferma tutti i dubbi di Zolo sulla giustizia penale internazionale. Per Zolo il Tribunale dell'Aja è manifestamente dipendente dalle potenze della NATO. Infatti esso dipende dal contingente NATO in Bosnia-Erzegovina per le funzioni di polizia giudiziaria e la cosa si configura come una conclamata anomalia giuridico-istituzionale dal momento che la NATO non è assimilabile a nessuna delle organizzazioni regionali previste dall'art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Tale anomala collaborazione fra Tribunale dell'Aja è diventata col tempo una vera e propria sinergia istituzionale:
"Questa anomala collaborazione è divenuta autentica sinergia istituzionale quando la presidenza del Tribunale dell'Aia è stata assunta dalla statunitense Gabrielle Kirk McDonald e l'ufficio di procuratore generale è stato svolto dalla canadese Louise Arbour. Quest'ultima non ha mai sottaciuto, nelle sue frequenti esternazioni giornalistiche, la sua piena condivisione degli obiettivi politici delle potenze occidentali e la sua ostilità nei confronti del governo jugoslavo. La sinergia, come vedremo - ed è questo l'aspetto più sconcertante - è continuata, ed anzi si è intensificata, dopo l'attacco della Nato contro la Federazione Jugoslava in violazione della Carta delle Nazioni Unite. Si è cosí stretto, con l'intercessione di Madeleine Albright, un autentico "sodalizio umanitario" fra la bilancia della giustizia e la spada della Nato" (6).
La canadese Arbour, procuratrice generale del tribunale dell'Aja, ha rilasciato infatti a più riprese dichiarazioni di approvazione della politica statunitense ed ha spesso ringraziato il governo statunitense per i generosi contributi al tribunale. Durante i 78 giorni della guerra per il Kosovo il tribunale ha secondo Zolo:
"offerto ampie dimostrazioni della sua consonanza politica con i punti di vista e le aspettative delle potenze occidentali in guerra contro la Federazione Jugoslava. Ha dato anzitutto prova di un pregiudizio positivo accordando alle autorità politiche e militari della Nato una presunzione di "innocenza umanitaria". Di fronte a comportamenti palesemente contrari al diritto internazionale di guerra - e a numerose, autorevoli denunce - la Procura del Tribunale non ha avviato alcuna indagine nei confronti dei comandi della Nato né, a maggior ragione, ha iniziato alcun procedimento nei confronti di singoli membri dell'Alleanza". (7)
Per Zolo il Tribunale dell'Aja rientra così nel modello dei Tribunali militari degli anni Quaranta dal momento che sostanzialmente "asseconda le grandi potenze nella loro guerra contro un nemico - il regime politico di Slobodan Milosevic - la cui sconfitta militare è del tutto scontata e che si intende annientare anche dal punto di vista morale e giuridico".
Dalla critica ai sistemi penali internazionali a quella dei principi del globalismo giuridico: la prospettiva del realismo politico di Danilo Zolo
La critica di Zolo al Tribunale dell'Aja lascia intravedere anche quella ai principi generali del globalismo giuridico che sono state affrontate in due libri usciti negli ultimi anni: Cosmopolis (8) e I signori della pace (9).
La critica di Zolo si appunta in primo luogo sull'idealizzazione della giustizia internazionale che non farebbe i conti con la stretta connessione che lega tra loro il diritto internazionale, il potere politico e la forza militare. Tale visione affida al diritto internazionale di complessi fenomeni sociali, militari ed economici quali sono quelli implicati nelle guerre:
"In realtà niente garantisce che un'attività giudiziaria che applichi sanzioni, anche le più severe, contro singoli individui responsabili di illeciti internazionali incida sulle dimensioni macrostrutturali della guerra, possa cioè agire sulle ragioni profonde dell'aggressività umana, del conflitto e della violenza armata. E notevoli dubbi possono essere sollevati anche sulla qualità di una giustizia sovranazionale che venga esercitata, come è inevitabile che sia, molto al di fuori e al di sopra dei contesti sociali, culturali ed economici entro i quali hanno operato i soggetti sottoesposti alle sue sanzioni". (10)
Zolo denuncia inoltre nel globalismo giuridico un pregiudizio etnocentrico (europeo e occidentale). Il progetto di unificazione del mondo si mostrerebbe infatti particolarmente indifferente nei confronti delle varie tradizioni politiche che nulla hanno a che fare con quella occidentale e spesso sono in conflitto con essa.
L'approccio di Zolo al problema della pace è invece di tipo realistico, si richiama cioè alla tradizione del realismo politico. Il richiamo forte è alla teoria dei "regimi internazionali" di Stephen Krasner e Robert Keohane (11). Essi mostrano infatti come esistano ampie aree di "anarchia cooperativa" nelle relazioni fra stati, nelle quali "le obbligazioni giuridiche internazionali sono effettive ed efficacemente sanzionate pur in assenza di una giurisdizione accentrata e obbligatoria":
"Keohane e Krasner hanno mostrato che nonostante l'assenza di una normazione e di una giurisdizione centralizzate importanti questioni vengono disciplinate unitariamente dalla maggior parte degli attori internazionali. E i comportamenti difformi dalle regole sottoscritte vengono in varie forme sanzionati, senza tuttavia far ricorso all'uso della forza militare: questo vale ad esempio in issue-areas come il commercio internazionale , il sistema dei cambi, la pesca oceanica, la ricerca spaziale, la meteorologia, la disciplina delle attività umane nell'Antartico e in molti altri settori. I "regimi internazionali" stabiliscono frames di responsabilità giuridica consolidando apparati di norme generali, di regole specifiche e di procedure che hanno lo scopo di disciplinare l'interazione fra gli attori, di definirne i diritti e di indirizzarne in vario modo i comportamenti.
In condizioni di elevata complessità e interdipendenza dei fattori internazionali la negoziazione multilaterale è dunque una fonte decentrata di produzione e di applicazione del diritto che è efficace nonostante l'assenza di funzioni normative e giurisdizionali centralizzate. Il carattere in larga parte spontaneo del fenomeno mostra fra l'altro come la possibilità di una disciplina delle relazioni internazionali non sia condizionata dalla rimozione della sovranità degli Stati, anche se, ovviamente, essa comporta una sua autolimitazione pattizia". (12)
Per Zolo bisogna incidere sui meccanismi culturali di inibizione dell'aggressività: nell'epoca della globalizzazione c'è bisogno di un reticolo di istituzioni regionali e interregionali in grado di mettere in contatto le culture e le civiltà, tramite la valorizzazione delle identità etnico-culturali. La risoluzione dei conflitti e la comunicazione fra le culture necessaria non si otterrebbe quindi certo attraverso la compressione cosmopolitica delle particolarità etnico-nazionali, ma da un "loro riconoscimento generalizzato come espressione della complessità evolutiva e della ricchezza culturale della specie". Zolo pensa così a tante strutture permanenti di interazione, scambio, monitoraggio e diplomazia preventiva, accessibili non solo dagli stati, ma anche e soprattutto dalle ONG, dalle minoranze e dai gruppi più svantaggiati interni agli stati.
Non a caso i presupposti antropologici richiamati da Zolo nel saggio finale sono individuati negli studi di Gehlen e dell'etologia di Konrad Lorenz. Come si sa tali studi presentano l'homo sapiens come un essere particolarmente evoluto e, in virtù della sua superiorità e complessità, molto esposto alle insidie dell'ambiente e molto bisognoso di rassicurazione, protezione e potere. Nella concezione realistica di Gehlen il sistema politico ha proprio la funzione di produrre sicurezza ed un minimo di controllo sulla complessità del sistema, senza però eliminarla. L'ordinamento giuridico e quello politico mettono quindi in atto quegli strumenti di protezione che possiamo definire "riduttori della paura", ma che non aspirano per nulla agli obiettivi neokantiani del bene comune e della fraternità universale. Ed infatti l'altro grande riferimento teorico per Zolo è quello della teoria generale dei sistemi:
"in situazione di elevata complessità e di turbolenza delle variabili ambientali è più prudente convivere con un grado anche molto elevato di disordine, piuttosto che tentare di imporre un ordine perfetto". (13)
Zolo critica anche una delle idee fondamentali del giusglobalismo, secondo la quale soggetti del diritto internazionale devono essere considerati gli individui e non gli stati. La globalizzazione mette infatti in discussione i presupposti del diritto internazionale classico, fondati sugli stati. Secondo Habermas, rileva Zolo, stiamo passando dal diritto internazionale westfaliano ad un nuovo diritto cosmopolitico, fondato sulla dimensione sociale e comunicativa della cittadinanza universale. La soggettività internazionale degli individui non sarebbe mediata, secondo Habermas, da figure politiche intermedie. Escluderebbe dunque del tutto l'intermediazione degli stati. Il punto debole individuato da Zolo è il seguente:
"La difficoltà sta, ancora una volta, nel raccordare il radicale individualismo democratico di questa fondazione del "diritto cosmopolitico" con l'apologia che Habermas fa delle attuali istituzioni internazionali. L'applicazione di un'istanza individualistica e democratica alle Nazioni Unite, ad esempio, implicherebbe una vera e propria eversione della logica gerarchica, centralistica e burocratica che caratterizza questa istituzione e che pone al suo vertice il potere politico-militare di alcune superpotenze. Sarebbe necessaria, se non altro, l'elezione di un Parlamento mondiale sulla base del principio individualistico e democratico "una testa un voto". Ma questo principio, come Kelsen stesso ha ammesso, è impraticabile sul piano internazionale perché assegnerebbe alle "potenze demografiche" del pianeta - la Cina, l'India, l'Indonesia o la Nigeria, ad esempio - rappresentanze politiche eguali o molte volte superiori a quella degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Germania o del Giappone. Ed è superfluo osservare che un esito di questo tipo è del tutto incompatibile con il diritto e le istituzioni internazionali oggi esistenti". (14)
Conclusioni
Abbiamo voluto con questa scheda presentare il Tribunale dell'Aja per i crimini nella ex-Jugoslvia e ampliare il ragionamento sulle implicazioni filosofiche e giuridiche, nonché politiche, che la giustizia penale internazionale comporta. Il discorso potrebbe essere molto più ampio e potrebbe portaci ancora più lontano.
Per approfondire comunque le questioni forse può essere utile una breve bibliografia, in cui non compaiono i libri già citati.
a cura di Claudio Bazzocchi - Consorzio Italiano di Solidarietà
Bibliografia
Z. BAUMAN, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone. Laterza 1999.
- Voglia di comunità, Laterza 2001.
N. BOBBIO, Perché questa guerra ricorda una crociata, in AA.VV., L'ultima crociata?, Libri di Reset, Roma 1999.
J. HABERMAS, L'inclusione dell'altro, Feltrinelli 1998.
- Bestialità e umanità. Una guerra al confine fra diritto e morale, in AA.VV., L'ultima crociata?, Libri di Reset, Roma 1999.
C. LASCH, La ribellione delle élites, Feltrinelli 1998.
A. PAPISCA A., MASCIA M., Le relazioni internazionali nell'era dell'interdipendenza e dei Diritti Umani, Cedam 1997.
A. PAPISCA, Democrazia internazionale, via di pace. Per un nuovo ordine internazionale democratico, Angeli 1995.
- Voce Diritti Umani, in E. BERTI, G. CAMPANINI (a cura di), Dizionario delle idee politiche, Ave 1993.
A. PIZZORNO, Il potere dei giudici, Laterza 1998.
- Caro Habermas, l'autoinvestitura della Nato non basta, in AA.VV. L'ultima crociata?, Libri di Reset, Roma 1999.
Note:
(1) Le note sul lavoro del tribunale sono tratte da: S. VILLONE, Il Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia, http://bellquel.scuole.bo.it/ssrer/ispett/document/deflora/quad6_4.htm.
(2) Si veda in particolare: H. KELSEN, Peace through Law, Chapel Hill 1944.
(3) Si veda D. ZOLO, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi 2000.
(4) D. ZOLO, Chi dice umanità, pag. 162.
(5) Ibidem, pagg. 162-163.
(6) Ibidem, pag. 139.
(7) Ibidem, pag. 139.
(8) Si veda D. ZOLO, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli 1995.
(9) Si veda D. ZOLO, I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico. Carocci, 1998.
(10) D. ZOLO, Si veda D. ZOLO, I signori della pace, pag. 25.
(11) Si veda K. OYE (a cura di), Cooperation under Anarchy, Princeton, Princeton University Press, 1986.
(12) Ibidem, pag. 105.
(13) Ibidem, pag. 137.
(14) Ibidem, pag. 148.