Una scena del film

Una scena del film

"Un'altra primavera" [Još jedno proleće] del regista Mladen Kovačević racconta come la Jugoslavia socialista fece fronte ad un'epidemia di vaiolo. E fa riflettere sul momento presente, sulle pandemie, sul crollo di fiducia nelle istituzioni

12/08/2022 -  Željko Luketić

(Originariamente pubblicato da Novosti , il 27 luglio 2022)

Dopo aver visto Još jedno proleće [Un’altra primavera], una domanda sorge spontanea: perché sembra che dobbiamo ancora spiegare a certe persone che il vaiolo è la prova più tangibile del progresso della medicina, ossia dell’efficacia dei vaccini? Come mai oggi, nell’era dei social, siamo giunti al punto di dover discutere nuovamente di dati scientifici comprovati, cercando di liberarci dalle grinfie degli algoritmi di Facebook e Twitter che alimentano determinate convinzioni?

Non ho nulla contro discussioni informate, ritengo però problematico uno scambio di opinioni tra esperti e dilettanti, in cui questi ultimi sembrano più sicuri di sé rispetto agli esperti. La necessità di mettere tutto in dubbio e poi di prendere in considerazione quelle che, in un dato momento, sembrano essere le spiegazioni migliori, è l’essenza dell’approccio scientifico.

Ad esempio, è un dato di fatto che [allo scoppio dell’epidemia di vaiolo in Jugoslavia] il vaccino contro il vaiolo, seppur non privo di rischi, era in uso ormai da cent’anni e la sua efficacia era ormai comprovata, a differenza dei vaccini anti-Covid, che, oltre ad essere meno efficaci, sono anche meno affidabili. Ma anziché un dibattito finalizzato allo scambio di conoscenze in modo da poter sviluppare un vaccino più efficace e garantire una distribuzione migliore, più equa del vaccino, magari avviando al contempo anche un dibattito più ampio sul funzionamento delle istituzioni, oggi prevalgono ipotesi infondate che nel discorso pubblico hanno assunto un’importanza paragonabile a quella delle teorie scientifiche e delle opinioni degli esperti.

È chiaro che l’ampliamento della sfera pubblica, come conseguenza dell’utilizzo massiccio di Internet, e la tendenza a chiudersi all’interno delle bolle create dagli algoritmi, stanno avendo un impatto sull’umanità destinato a durare nel tempo, e quindi ci troviamo a dover discutere, tra l’altro, anche il concetto di post-verità. Credo però che il problema non stia tanto negli individui quanto nelle istituzioni e nella politica che le governa. Il film Un’altra primavera mette in luce proprio questo aspetto.

Riesce ad immaginare cosa sarebbe accaduto se durante l’epidemia di vaiolo in Jugoslavia qualcuno avesse avviato un dibattito sugli effetti nocivi del vaccino? L’obbligo di vaccinazione fu stabilito dalla legge e, contrariamente alla prassi consueta, nemmeno le donne in gravidanza ne furono esentate...

Ci si fidava delle istituzioni, che non erano certo perfette, ma sicuramente erano migliori di quelle attuali. All’interno delle istituzioni jugoslave furono gli esperti a prendere decisioni e nessuno dubitava che quelle decisioni fossero state adottate per il bene comune. Alcune delle decisioni si rivelarono impopolari e chi le aveva prese ne era consapevole, ma, seppur impopolari, erano basate sui fatti.

Per quanto riguarda le donne in gravidanza e il vaccino contro il vaiolo, si era giunti alla conclusione che i rischi connessi alla vaccinazione erano di gran lunga inferiori ai rischi di contagio. Parliamo delle regioni in cui la probabilità di contagiarsi era molto alta. La decisione [di estendere l’obbligo vaccinale alle donne in gravidanza] fu presa a seguito delle consultazioni con l’Organizzazione mondiale della sanità, basandosi su un’attenta analisi dei dati disponibili. Lo stesso valse per i neonati. Durante l’epidemia del 1972 il tasso di mortalità dei neonati non vaccinati aveva raggiunto il 67%.

Nonostante nel film lei abbia raccontato entrambe le fasi dell’epidemia del 1972 – la fase iniziale, immediatamente successiva allo scoppio dell’epidemia, in cui le autorità si erano mosse in modo confuso, e poi la campagna vaccinale nel corso della quale furono vaccinati quasi 18 milioni di cittadini jugoslavi – si ha l’impressione che abbia prevalso l’idea di un programma di eradicazione della malattia basato su decisioni informate, efficace e regolato dalla legge...

Per quanto riguarda la fase iniziale dell’epidemia del 1972, si può rimproverare molto alle autorità jugoslave, soprattutto il fatto di essersi rese conto della presenza del virus solo un mese dopo la comparsa del primo caso nel paese, permettendo così che per un intero mese il virus si diffondesse indisturbato. Tralasciando la questione relativa ai cambiamenti nella distribuzione dei poteri e i controlli meno efficaci, quella svista può essere spiegata col fatto che erano trascorsi ormai quarantanni dall’ultimo caso di vaiolo nel paese, nessuno si aspettava che il virus potesse ricomparire, anche i medici non si ricordavano più come si manifestava.

Tuttavia, dal momento della scoperta della presenza del virus nel paese, le reazioni delle istituzioni, a tutti i livelli, hanno superato ogni aspettativa e la vicenda è entrata negli annali della storia della medicina mondiale come esempio di una lotta efficace contro l’epidemia. Oggi, invece, a determinare le opinioni personali, ma anche le decisioni istituzionali, sono la relativizzazione della scienza, l’incapacità, la corruzione e il timore dei politici di perdere popolarità.

Lei aveva già utilizzato materiale d’archivio nel suo film 4 godine u 10 minuta  [Quattro anni in dieci minuti] del 2018. Nel suo nuovo film il materiale d’archivio diventa un elemento dominante, tanto che, dal punto di vista estetico, potremmo definire Un’altra primavera un documentario sperimentale found footage...

Nel film Quattro anni in dieci minuti avevo utilizzato alcuni materiali privati [appartenenti al protagonista del film] che erano rimasti chiusi nel cassetto per diciotto anni. Nemmeno il protagonista aveva visto il materiale montato prima della première del film. Invece il materiale, girato su pellicola, utilizzato nel film Un’altra primavera, è custodito nell’archivio della Radiotelevisione della Serbia, e per l’occasione è stato trasferito per la prima volta su un supporto digitale. Per me è stato un privilegio poter lavorare su questi materiali.

In entrambi i casi, il materiale è stato reinterpretato in modo da poterlo innestare nella logica interna del film, rimanendo, al contempo, fedele alla verità sostanziale in esso contenuta. Nel film Quattro anni in dieci minuti ho utilizzato il fermo immagine, sovrapponendovi alcuni frammenti tratti da un diario [del protagonista], mentre nel nuovo film le scene d’archivio sono state riprodotte in slow motion per farle apparire come ricordi, perché la narrazione viene costruita attraverso le reminiscenze intime del professor Zoran Radovanović. L’unica eccezione è rappresentata dalle interviste e dai servizi televisivi d’epoca – che ci permettono di leggere gli eventi del 1972 in una prospettiva sincronica – dove non siamo intervenuti in alcun modo né sui suoni né sulla immagini. Lo slow motion sottolinea l’incombente atmosfera da thriller, la minaccia rappresentata da una malattia terrificante. L’idea era quella di realizzare gli interventi che discendessero organicamente dal materiale d’archivio utilizzato e dalla tensione drammaturgica che permea l’intero film.

Trovo curiosa la sua decisione di non far vedere mai il narratore, l’epidemiologo Zoran Radovanović. Lui parla con voce pacata, esponendo vari dettagli, ma non lo vediamo mai...

Inizialmente pensavo di inserire nel film anche alcuni frammenti della vita quotidiana del professor Radovanović durante la pandemia. Criticando l’operato delle istituzioni e l’intera gestione della pandemia, Radovanović era diventato una voce molto presente nel dibattito pubblico, voce che i cittadini ascoltavano, in cerca della verità, finendo però per essere praticamente bandito dai media statali. Tuttavia, man mano che il montaggio del film e la pandemia avanzavano, un ancoraggio letterale al presente iniziava ad apparire superfluo. Quindi, abbiamo deciso di situare ogni elemento narrativo al passato, l’unico legame con il presente è la voce del vecchio professore che ricorda gli eventi accaduti all’inizio della sua carriera scientifica. Credo che la storia dell’epidemia di vaiolo in Jugoslavia sia rilevante anche al di fuori dell’attuale momento storico.

Nel film lei non ha esitato a mostrare alcune immagini esplicite dei pazienti colpiti da vaiolo e di persone sfigurate a causa delle cicatrici. Questo approccio è principalmente finalizzato a scioccare o a informare gli spettatori?

Non ho un’idea chiara di cosa si debba mostrare, non so nemmeno se le scene che ci lasciano stupiti e sconcertati possano anche educarci. Non so se qualcuno possa cambiare il proprio atteggiamento nei confronti della salute pubblica dopo aver osservato a lungo le immagini delle malattie infettive. Negli anni Novanta sui nostri schermi si susseguivano continuamente le scene di guerra terrificanti, ma ciò non era bastato a spingerci verso la pace.

Tuttavia, in un film che contiene elementi di un thriller medico, se non addirittura di un horror, è necessario ricorrere a immagini esplicite per dare corpo all’esperienza cinematografica, che per me è sempre più importante della trama. Così lo spettatore può riflettere e discutere, ispirato dall’esperienza cinematografica, allo stesso modo in cui riflette e discute di un’esperienza realmente vissuta.

Anche il film Variola Vera di Goran Marković del 1982, dedicato all’ultima grande epidemia di vaiolo in Europa, è rimasto impresso nella memoria collettiva dei popoli dell’ex Jugoslavia. Questo film ha influito in qualche modo su di lei durante la realizzazione di Un’altra primavera?

Variola Vera di Goran Marković è un grande film, ormai diventato un cult. Credo però si tratti di un cinema di genere, di una metafora e, al contempo, una critica della società, mentre Un’altra primavera, pur basandosi sui ricordi di uno dei protagonisti della vicenda, è dopotutto un racconto fattografico. Dal momento che le circostanze sono cambiate, è cambiata anche la prospettiva, quindi la reazione delle istituzioni e dell’intera società jugoslava oggi appare come qualcosa a cui aspirare. Questo ovviamente senza voler paragonare i due film così diversi tra loro, le due malattie e i due vaccini, bensì limitandosi a mettere a confronto lo stato di allora e quello attuale, la società di allora e quella attuale.

Vi è però un altro aspetto che accomuna i due film: una musica elettronica sperimentale molto dark. La musica per il film Variola Vera fu composta da Zoran Smijanović, mentre la colonna sonora del suo film è firmata dall’ormai mitico Studio elettronico di Radio Beograd. Mi sembra una collaborazione del tutto naturale...

Si tratta di musica contemporanea, a comporla è stato Jakov Munižaba, a cui è stato affidato anche il sound design del film. La musica è stata registrata nello Studio elettronico di Radio Beograd ed è stata eseguita sullo stesso sintetizzatore analogico Synthi 100 sul quale fu eseguita anche la musica sperimentale jugoslava che abbiamo utilizzato durante il montaggio del film, fedeli all’idea che tutti gli elementi di un film d’archivio, compresa la musica, debbano appartenere al periodo in cui si svolge la storia. Tuttavia, durante la fase di post-produzione audio, abbiamo sostituito tutti i brani dell’epoca jugoslava, uno dopo l’altro, con la musica di Jakov. Tutto è accaduto spontaneamente.

Il film Un’altra primavera è composto interamente da materiali d’archivio, molti dei quali finora non sono mai stati presentati pubblicamente. È stato difficile accedere a questi materiali?

La maggior parte del materiale proviene dall’archivio cinematografico della Radiotelevisione della Serbia, ma abbiamo utilizzato anche alcuni materiali ripresi da Filmske novosti, Zastava Film e Televisione del Kosovo. Tutti i materiali legati all’epidemia di vaiolo sono stati inseriti, con molta precisione, nelle varie banche dati, quindi la sfida più difficile era ritrovare i materiali d’epoca non direttamente legati all’epidemia. La varietà delle fonti è molto evidente, ma – oltre all’utilizzo dei ralenti per quasi tutta la durata del film, un’operazione che però ha una funzione completamente diversa – con Jelena Maksimović, responsabile del montaggio, abbiamo deciso di non cercare di unificare visivamente il materiale, volendo così in un certo senso riconoscere anche il contributo individuale dei colleghi che avevano girato quelle scene.

Durante una masterclass tenuta lo scorso inverno a Zagabria in occasione della prima del suo film Sretan Božić, Yiwu [Buon Natale, Yiwu], lei ha parlato anche di diversi interventi nel cinema documentario, sottolineando, tra l’altro, che nessun documentario, contrariamente a quanto si è soliti pensare, può essere oggettivo, veritiero e/o realistico, aggettivi che però spesso vengono utilizzati proprio per distinguere i film documentari dai lungometraggi...

Credo che anche nel cinema documentario il realismo venga costruito con diversi interventi intrapresi dal regista, creando così l’illusione di un flusso narrativo spontaneo. In un film documentario i protagonisti sembrano comportarsi spontaneamente, come se la telecamera non fosse presente, ma in realtà si comportano come è stato loro indicato dal regista. Quindi, fingono che non ci siano la telecamera e la troupe. Il regista interviene anche quando c’è un’interazione tra i protagonisti e la telecamera e si tratta sempre di interventi più o meno invasivi. Un film documentario è prima di tutto un film e solo in secondo luogo un documento. Così come un lungometraggio è sempre, in un certo senso, anche un documento.

Alcuni potrebbero interpretare Un’altra primavera come un film volto a suscitare timori legati alla salute, rivolto soprattutto ai cosiddetti no vax; altri invece potrebbero vedervi una rilettura di un’efficace campagna di contrasto all’epidemia messa in atto in un paese socialista che non c’è più, quindi come un omaggio al socialismo; altri ancora, sull’onda dell’attuale tendenza a creare verità alternative, potrebbero sostenere che il narratore del film forse non sappia proprio tutto...

Ogni film può essere interpretato in tanti modi diversi quante sono le persone che lo hanno visto. Alcuni film suscitano discussioni, rendendo più evidenti le varie opinioni. Un’altra primavera è forse uno di questi film. Certamente è un omaggio alla Jugoslavia ed è legato all’attuale momento storico nella misura in cui ci spinge a guardare dentro di sé e a mettere in dubbio, come individui, le proprie idee, ma anche a chiederci perché le attuali istituzioni, a differenza di quelle jugoslave, non ispirino fiducia nelle persone comuni.

Zoran Radovanović un narratore affidabile che ha ripercorso i suoi ricordi innumerevoli volte, confrontandoli con i fatti, quindi i suoi ricordi si intrecciano e si integrano con le interviste d’epoca. Dal punto di vista formale, Un’altra primavera non è un film polemico, racconta le versione ufficiale degli eventi che, ovviamente, può essere messa in dubbio.