Sarajevo - Andrea Di Biagio

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Trent’anni dopo lo storico momento di cesura rappresentato dal 1989, in un convegno a Bertinoro si è ragionato di Balcani, allargamento e futuro europeo. Le conclusioni proposte dalla direttrice di OBCT

07/11/2019 -  Luisa Chiodi

Al Consiglio europeo del 17 ottobre 2019 il presidente francese Emmanuel Macron ha posto il veto all’apertura dei negoziati con l’Albania e la Macedonia del Nord dichiarando che, prima di procedere a nuovi allargamenti, serve riformare sia l’UE nel suo complesso che il meccanismo per l’adesione di nuovi stati membri. 

Con questa presa di posizione Macron ha suscitato un unanime coro di proteste per aver messo a repentaglio il futuro della politica di allargamento e, paradossalmente, ha reso evidente il legame che vorrebbe tranciare di netto: quello tra i Balcani e l’integrazione europea. 

Questo legame oggi palese, non era così chiaro nel passato recente, e ancor meno negli anni ‘90, quando l’UE si presentava sulla scena politica internazionale, come frutto politico del percorso di integrazione economica della Comunità europea. Allora, infatti, la Jugoslavia si disgregava attraverso una serie di conflitti che nell’arco di 10 anni costarono la vita a circa 150 mila persone

Gli sviluppi politici dell'Unione europea, effervescenti dopo la fine della guerra fredda e l’avvio del processo di integrazione di 10 paesi dell’Europa post-comunista, stridevano a tal punto con la violenta dissoluzione jugoslava da rendere impensabile una narrazione comune in quella particolare congiuntura storica. I Balcani, che precipitavano del nazionalismo violento e, dopo decenni di pace, riportavano la guerra in Europa, sembravano appartenere ad altro, non potevano davvero essere parte dell’Europa. 

I Balcani nella nuova storiografia sull’integrazione europea 

Tre decenni dopo, un seminario di due giorni organizzato a Bertinoro dal Punto Europa dell’Università di Bologna-Forlì e OBCT ha voluto aprire la strada ad un ripensamento degli studi sull’integrazione europea, stimolando la nuova storiografia ad includere i Balcani a partire dagli anni precedenti alla dissoluzione. 

Storici e politologi, riuniti a Bertinoro, hanno mostrato quanto possa essere fecondo incrociare i tradizionali ambiti disciplinari, così da rendere più solide le interpretazioni di alcuni passaggi chiave come quello dei primi anni Novanta. Peraltro, lo sforzo di incrociare  tradizioni storiografiche - quella sull’integrazione europea e quella sulla storia dei Balcani - dovrebbe essere esteso oltre la mera storia politica e diplomatica. Come ha sottolineato Lorenzo Ferrari nel primo intervento, guardando alla storia economica, sociale e culturale è possibile identificare facilmente molte più affinità e relazioni di quante ne vengano normalmente considerate, si sciolgono molti nodi e si colgono elementi utili ad una formulazione più articolata e feconda della storia dell’integrazione europea. 

Rispetto alla vicenda jugoslava, lo sforzo tardivo di elaborare una proposta europeista, partendo dalla rielaborazione degli assetti sovranazionali elaborati nei decenni dalla Federazione, non ebbe il tempo di affermarsi data la determinazione delle élites nazionaliste ad organizzare le elezioni democratiche al livello repubblicano e non federale. 

Si tratta dei mesi della presidenza di Ante Marković, quando si discuteva di una possibile associazione della Jugoslavia all’allora CEE ovvero quello che lo storico Alfredo Sasso - intervenuto al convegno -  ha definito “il tempo delle possibilità”, tra il novembre del 1989 e la primavera 1990, un periodo che a distanza di tre decenni pare effettivamente una finestra temporale drammaticamente breve. 

Le analisi storiche che guardano sia alle fonti comunitarie sia a quelle jugoslave consentono una lettura più precisa dei rapporti tra l’integrazione europea e i Balcani e delle strategie reciproche, anche prima della scomparsa di Tito. Come ha mostrato Benedetto Zaccaria, queste analisi spingono ad esempio a mettere in discussione la retorica diffusa del fallimento comunitario nella gestione della dissoluzione jugoslava, retorica che maschera il fatto che la politica estera europea allora fosse esclusivamente quella degli stati membri. Come denunciava la società civile dei paesi europei, mobilitatasi per portare assistenza ai civili vittime delle guerra degli anni ‘90, si assistette allora ad un osceno spettacolo di politica di potenza di stati europei in competizione tra loro, non certo alla politica estera di una potenza civile come l’UE cercherà di ridefinirsi negli anni successivi. 

Di contro rispetto all’integrazione europea, non ci sono dubbi sul fatto che la disastrosa risposta  comunitaria alle guerre degli anni ‘90 ebbe un ruolo chiave nella spinta alla creazione di una politica estera comune, come evidenziato da Giovanni Finizio nella sua analisi dei dibattiti avvenuti allora al Parlamento Europeo. La dissoluzione jugoslava costituì un trauma collettivo che la nascente Unione europea affrontò senza strumenti adatti, incapace di interpretare quanto avveniva e costretta ad affidarsi all’intervento militare degli Stati Uniti mentre il proprio lavoro diplomatico finiva per legittimare solo i rapporti di forza sul terreno. 

Storia e politiche della memoria di conflitti europei

Il fatto che le guerre degli anni ‘90 debbano appartenere appieno alla storia europea e a quella della sua integrazione politica è emerso anche dall’esame del fenomeno dei viaggi di istruzione nei Balcani, proposto a Bertinoro da Marco Abram. Il mondo della scuola italiano infatti con sempre maggiore frequenza si mostra interessato ad accompagnare gli studenti nella regione per far vivere loro un’esperienza culturale complessa ma feconda come quella dell’affrontare la questione del ritorno della guerra in Europa. 

Tra gli aspetti importanti per gli studenti c’è la possibilità di incontrare sul campo le vivaci realtà della società civile dei Balcani che lavorano sul tema della storia e della memoria dei conflitti come strumento per la riconciliazione. 

Negli ultimi 20 anni nei Balcani, infatti, sono emerse importanti iniziative della società civile volte a contrastare strumentalizzazioni ideologiche attraverso un lavoro di dialogo ed il riconoscimento della pluralità di narrazioni sui traumi del passato più o meno recente. Nel suo intervento, Francesca Rolandi si è soffermata sul valore di tali iniziative evidenziando il sostegno che queste hanno ottenuto dall’Unione europea. Di contro la Rolandi ha mostrato come le politiche della memoria portate avanti dall’UE, in altri casi, vengano sfruttate per rafforzare narrazioni ideologiche da parte di nazionalisti croati e sloveni del tutto avversi ad ogni forma di riconciliazione o ripensamento delle proprie responsabilità sul passato. Le élites nazionaliste locali utilizzano in particolare il cosiddetto paradigma antitotalitario europeo per riabilitare come vittime del comunismo i collaborazionisti locali del nazi-fascismo.  

Luci ed ombre nella democratizzazione della politica (estera) europea

Tra gli aspetti da considerare nella storia dell’integrazione europea a partire dalla fine degli anni ‘80 c’è il suo passaggio da progetto delle élites nazionali a realtà politica che si deve guadagnare il consenso popolare a più livelli. 

La democratizzazione delle relazioni intra-europee non è in realtà un fenomeno semplice o lineare. Negli anni ‘90, di fronte all’impotenza delle cancellerie occidentali, la società civile si mobilitava in aiuto alle vittime dei conflitti proponendosi come attore capace di protagonismo anche in politica internazionale. Da allora è diventato sempre più chiaro il ruolo di attori non statali, l’importanza della sfera pubblica e le dinamiche transnazionali.

Oggi nei paesi balcanici è frequente che le società civili locali vedano nelle istituzioni europee un alleato per avanzare istanze democratiche, per la lotta alla corruzione o per i diritti delle minoranze. Gli esempi mostrati da Chiara Milan a Bertinoro evidenziano come l’Unione europea costituisca spesso un’ancora anche per i movimenti sociali, non solo per le organizzazioni non governative. Avviene però anche il contrario: quando nella regione, come nei paesi membri dell’UE, la classe politica riesce a scaricare su presunte responsabilità europee le scelte impopolari che adotta. Accade in questi anni in Serbia, ad esempio, con la privatizzazione del patrimonio abitativo, contestato dal movimento per il diritto alla casa. 

Il nesso più delicato della democratizzazione della politica estera europea è quello legato alle disparità economiche tra vecchi e nuovi membri o paesi candidati all’integrazione. Il tema della migrazione intra-europea che ne deriva è una delle questioni dirimenti nella discussione pubblica sui rapporti tra l’Ue ed i paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica. 

La Francia si è distinta per avere messo questo tema al centro della contesa politica sia ai tempi della bocciatura referendaria del progetto costituzionale nel 2005 sia con l’attuale rifiuto di aprire i negoziati con Albania e Macedonia del nord. Se le migrazioni interne nei primi anni 2000 erano rappresentate con la figura dell’idraulico polacco che avrebbe fatto concorrenza sleale nel mercato del lavoro francese, oggi Macron identifica nel falso richiedente asilo albanese una delle ragioni che giustifica la chiusura dei negoziati con Tirana. 

Delusione da riunificazione e mancanza di strumenti 

Dopo anni di retorica trionfalistica sull’allargamento dell’UE ad est come il più grande risultato della politica estera comune, nel dibattito odierno prevale la delusione per l’esperienza concreta della riunificazione europea. 

Ad ovest, spiccano le reiterate posizioni politiche della Francia ma ad est la spinta all’omologazione al modello occidentale ha finito per provocare la reazione di chi ha vissuto il processo come svilimento dell’esperienza storica locale.

Ciononostante a 30 anni dalla storica cesura del 1989, i paesi europei sono sempre più simili tra loro. Il cosiddetto sovranismo, o neo-nazionalismo, che negli anni ‘90 attribuivano solo ai Balcani, oggi accomuna classi politiche ad est come ad ovest.   

E l’aspetto più problematico dell’ampliamento a 28 membri per le sue conseguenze sull’oggi è il fatto che non ci si è dotati di strumenti adatti per gestire un’Unione con un numero così elevato di membri. Macron è convinto che il problema oggi si risolva con la creazione dell’Europa a più velocità. 

Si potrebbe però argomentare che il problema è che non ci si sia dati la possibilità di deliberare a maggioranza qualificata in vari ambiti tra cui la politica internazionale, incluse le singole tappe dell’allargamento ad est. Né si siano costruiti gli strumenti adeguati per sanzionare i comportamenti di quei paesi che violano apertamente i principi fondamentali dello spazio comune, lasciando l’Unione in balia dei capricci o delle derive autoritarie di questa o quella classe politica.

Oggi, quindi, siamo costretti dal voto all'unanimità a rifiutare l'apertura dei negoziati a Macedonia del Nord e Albania così come non sappiamo come affrontare la deriva autoritaria in Ungheria. Budapest dopo aver osteggiato per anni ogni forma di condivisione degli oneri della gestione dei flussi migratori, ha proposto un candidato al posto di commissario europeo manifestamente inadeguato al ruolo mettendo in difficoltà la nascita della nuova Commissione europea. Ma al posto di Orban avremmo potuto trovare altri leader politici di  paesi membri di vecchio o di nuovo ingresso, il populismo anti-europeista, come è noto, ha omologhi anche in Francia e le derive autoritarie sono un rischio da cui mettersi al riparo tutti. 

La resilienza

Forse, arrivati al trentesimo anniversario del 1989, per alcuni la delusione verso l’integrazione europea supera l’apprezzamento per i risultati ottenuti al punto da non voler assicurare il suo completamento con l’integrazione dei Balcani a cui abbiamo fatto la promessa oltre 15 anni orsono. 

Tuttavia, la lunga serie di eventi vissuti dall’Unione Europea in questi decenni dovrebbe farci apprezzare l’idea che effettivamente tra le doti principali del nostro spazio politico transnazionale vi sia la sua capacità di resilienza. L’UE dopotutto non si è spezzata davanti alla crisi finanziaria del 2008, alla crisi di solidarietà per la gestione di notevoli flussi migratori, e nemmeno alla Brexit. 

Dopo il convegno di Bertinoro, siamo più consapevoli che la storia dell’integrazione europea nel suo percorso degli ultimi decenni  includa anche i Balcani. Contiamo sul fatto che anche questa volta si riprenda a lavorare alle costruzione di un esperimento politico, pieno di promesse come di fatiche e nonostante l’attuale brusca battuta d’arresto si riesca presto a riattivare anche il processo di allargamento dell’Ue ad est.