La Cina è sempre più presente in Europa sud-orientale: i paesi dell'area, l'UE e la Russia saranno in grado di ridefinire i propri rapporti con Pechino? Un seminario a Bruxelles ha tentato di aprire il dibattito e abbozzare le prime risposte
L'Occidente – Europa compresa – sta perdendo la propria posizione dominante nella politica ed economia globale: un fenomeno che appare irreversibile, con nuovi attori che guadagnano velocemente posizioni. In testa ai paesi che avanzano c'è la Cina, già protagonista a tutti gli effetti a livello globale. Sempre più fiduciosa nei suoi mezzi, e con l'obiettivo di integrare il continente euro-asiatico e garantire sbocchi alle proprie esportazioni di merci e capitali, a partire dal 2013 Pechino ha lanciato un programma che è riduttivo definire ambizioso: la Belt and Road Initiative (BRI).
Negli anni a venire, l'Europa dovrà quindi ridefinire i propri rapporti con la Cina, e lo stesso vale - con alcune particolari peculiarità – per la regione balcanica, approdo naturale in Europa della BRI. Quali saranno le ricadute del crescente attivismo cinese nell'Europa sud-orientale? In che modo la BRI ridefinirà la rete infrastrutturale ed economica dell'area? E come conviveranno il progetto di allargamento UE, ribadito attraverso il processo di Berlino, e la storica presenza di potenze regionali come Russia e Turchia coi progetti e le iniziative di Pechino?
Sono queste le domande a cui ha provato a fornire alcune prime risposte un seminario organizzato a metà novembre a Bruxelles dall'Istituto tedesco "Stiftung Wissenschaft und Politik", insieme all'Austro-French Centre for Raprochement in Europe (ÖFZ/CFA) , all'Institut français des relations internationales (ifri ) e una coalizione di partner di cui fa parte Osservatorio Balcani Caucaso - Transeuropa. Risposte ancora abbozzate ed incomplete, ma importanti per dare inizio alla discussione pubblica su un tema ancora poco conosciuto e ancor meno dibattuto in Europa.
La crescita cinese
Con il lancio della BRI, la Cina sembra aver abbandonato la politica del “basso profilo” geopolitico che ha accompagnato la sua tumultuosa crescita economica, e oggi, dopo aver riguadagnato una posizione prominente a livello globale, è convinta di poter offrire un modello di riferimento ai paesi in via di sviluppo. Dopo una lunga fase in cui Pechino ha attirato investimenti e capitali, secondo molti osservatori è ora cominciata una fase nuova, in cui la Cina li esporta invece in tutti i continenti.
Il governo comunista cinese non sembra ancora interessato ad esportare il proprio modello politico nei paesi coi quali interagisce. Alla base delle preoccupazioni di Pechino c'è soprattutto la stabilità dei propri interlocutori, per poter progettare sul lungo periodo. C'è però chi pensa che il modello di “efficientismo autoritario” cinese possa esercitare un certo fascino sulle élite dell'Europa centro-orientale e balcanica e che, pur non contrastando esplicitamente il sistema liberal-democratico, il regime di Pechino sia con esso incompatibile.
Parlando di BRI, quello che colpisce molti analisti e osservatori europei è l'enorme “potenza di fuoco” finanziaria che Pechino sembra decisa a mettere sul piatto. Un impegno che, sulla carta, è in grado di surclassare il “piano Marshall” lanciato dagli USA nell'Europa del secondo dopoguerra. Le strutture e i funzionari UE non nascondono un senso di inquietudine, che talvolta sfocia nella frustrazione. Per chi segue da vicino le vicende cinesi, l'Europa vista da Pechino sembra molto piccola e, soprattutto dopo la Brexit, divisa e incapace di contare davvero. Per la Cina il punto di riferimento, l'asticella da superare, resta al di là dell'Oceano Pacifico: gli Stati Uniti d'America del presidente “protezionista” Trump.
Tornando ad analizzare più da vicino la BRI, l'iniziativa cinese risulta in realtà ancora piuttosto vaga e indefinita, ma proprio questa sua vaghezza rappresenta uno dei suoi punti di forza: i paesi interessati dall'iniziativa, infatti, hanno la sensazione di poter interpretare ed adattare la visione globale di Pechino secondo gli interessi e le priorità locali.
Nei Balcani, la presenza cinese si sviluppa oggi intorno ad alcuni “investimenti di ancoraggio” come il porto del Pireo ad Atene e la linea ferroviaria Belgrado-Budapest, concentrati nei settori delle infrastrutture, dei trasporti e della logistica, intorno a cui si stanno coagulando nuove acquisizioni, come quelle nel settore energetico.
BRI e Balcani
Un ruolo importante è quello giocato dalle banche di investimento e sviluppo cinesi, che oggi rappresentano una delle principali fonti di finanziamento dei progetti infrastrutturali nei Balcani, una regione che si vede in forte ritardo nel settore non solo rispetto all'Europa occidentale, ma anche verso quella centrale. Pur non essendo subentrate all'Unione europea come fonte principale di capitali d'investimento, le banche cinesi, che iniziano a contare su una rete di filiali in crescita, consentono ai governi della regione di diversificare le fonti da cui provengono i prestiti.
Nel contesto della BRI, l'Europa centrale, balcanica e il Mediterraneo orientale giocano il ruolo di approdo e testa di ponte dei progettati corridoi terrestre e marittimo verso il continente europeo. Se dalla dimensione regionale si scende ancora più in profondità, a quello bilaterale, la situazione nei Balcani appare notevolmente diversificata. Gli investimenti più sostanziosi riguardano Grecia (soprattutto il porto del Pireo) e Serbia.
Anche negli altri paesi dell'area si registrano però evoluzioni interessanti. Nel contesto balcanico, l'Albania rappresenta un caso unico riguardo ai rapporti con la Cina. Se Pechino è uno interlocutore recente per la maggior parte dei governi della regione, per Tirana la Cina ha rappresentato per quasi vent'anni (1961-1978) il principale partner e alleato.
Ancora oggi una parte sostanziale del PIL albanese è prodotto tramite investimenti di capitale (dighe, centrali elettriche) effettuate dalla Cina prima della rottura dei rapporti bilaterali seguita alla morte del presidente Mao. Nonostante alcune iniziative ad alta visibilità, come la concessione dell'aeroporto di Tirana alla compagnia “China Everbright Limited”, l'impegno cinese nel “paese delle aquile” sembra però ancora piuttosto timido.
Nella vicina Macedonia l'attivismo cinese nella modernizzazione delle infrastrutture stradali (col finanziamento delle tratte autostradali Kicevo-Ohrid e Miladinovci-Stip da parte della China Exim Bank) è entrato suo malgrado nel turbolento clima di scontro politico e istituzionale che ha scompigliato il paese negli ultimi anni. Una delle cosiddette “bombe” (rivelazioni basate su intercettazioni registrate) rese pubbliche dall'allora capo dell'opposizione Zoran Zaev – oggi premier socialdemocratico – contro il primo ministro conservatore Nikola Gruevski riguardava infatti proprio l'accordo sulle autostrade.
Nella registrazione, Gruevski e i suoi collaboratori commenterebbero le dimensioni di una maxi-tangente ottenuta dagli investitori cinesi per portare a termine gli accordi. Una quantità di denaro che, se effettivamente trasferito, e viste le dimensioni ridotte di un paese come la Macedonia, ha probabilmente allungato di mesi se non di anni la capacità di Gruevski di restare al potere.
Il caso macedone mette in luce uno degli aspetti problematici dell'impegno cinese nei Balcani e non solo: la predilezione di Pechino per gli accordi tra stati, più che attraverso compagnie private, che apre a scenari di opacità e corruzione.
Un altro aspetto contestato è la tendenza delle aziende cinesi di occupare soprattutto personale e macchinari portati direttamente dalla madrepatria, piuttosto che impegnare subappaltatori locali (è il caso della costruzione di un'autostrada che dovrebbe collegare il porto Montenegrino di Bar con la Serbia), con una ricaduta limitata nell'economia dei paesi balcanici. Un atteggiamento che però sembra in rapido ripensamento e che dipende anche dai rapporti di forza tra le controparti (al Pireo, ad esempio, i dipendenti sono greci, e solo la dirigenza è cinese).
Rischi all'orizzonte?
Forse l'elemento più problematico, però, è di natura tanto politica quanto economica. I capitali e gli investimenti cinesi nei Balcani (insieme ad una bilancia commerciale nettamente sbilanciata a favore di Pechino) rischiano di creare situazioni di dipendenza e costrizione? La Cina sta perseguendo un progetto strategico nascosto attraverso la BRI? Su questi quesiti il dibattito è aperto, e le posizioni variegate.
Quello che invece appare certo, è che i cittadini e i governi dell'UE e dell'Europa sud-orientale dovranno attrezzarsi per gestire i rapporti con la Cina sul lungo periodo. Con una presenza cinese in aumento e stabilizzazione devono fare i conti anche le altre potenze regionali, soprattutto Russia e – in seconda battuta – Turchia.
La maggior parte degli analisti registra la volontà di Mosca e Pechino di non pestarsi i piedi, non solo nei Balcani ma in altri teatri sensibili come quell0 dell'Asia centrale. Difficile fare previsioni di largo respiro: c'è però chi non esclude che una presenza invasiva della Cina nei Balcani, regione strategica per la Russia, possa spingere in futuro la Russia a un qualche tipo di riavvicinamento con l'Unione europea.