Dopo la disamina relativa alla situazione economica dei paesi del sud est Europa membri dell'UE, affrontiamo i cosiddetti Balcani occidentali. Tutti i paesi in questione hanno dovuto fare i conti a vario titolo con la crisi mondiale innescata cinque anni fa dal crollo di Lehman Brothers
Dopo la rassegna sullo stato delle economie dei quattro membri balcanici dell’UE, Slovenia, Croazia, Romania e Bulgaria, è venuto il momento di guardare anche a Serbia, Bosnia, Montenegro, Macedonia, Albania e Kosovo, i sei paesi della regione ancora fuori dallo spazio comunitario. Anch’essi in questi cinque anni, tanti ne sono passati dal crack di Lehman Brothers, hanno dovuto fare i conti con calo degli investimenti, problemi di liquidità, fallimenti aziendali, coalizioni traballanti e altre questioni che sono rimbalzate sulle cronache, abituandoci a masticare il gergo della crisi. Vediamo com’è andata nei vari contesti.
Il peso di Kragujevac
La Serbia è uno dei paesi balcanici più martellati dalla crisi. Nel 2009, anno in cui il Pil è sceso del 3,5%1, è stata soccorsa dal Fondo monetario internazionale (Fmi) con un’iniezione da tre miliardi di euro.
Nel corso dell’attuale congiuntura molti dei parametri macroeconomici sono andati peggiorando. Il debito pubblico ha sfondato il tetto del 60%, dal 38% del 2009. La disoccupazione è cresciuta dal 17,4% a più del 23%. L’inflazione era dell’8,1% nel 2009, ora è a più del 9%, dopo il picco dell’11,1% registrato nel 2011.
È anche in virtù di questi numeri che nel 2012 c’è stato il terremoto politico che ha spodestato dal potere Boris Tadić e il Partito democratico, facendo salire alla presidenza Tomislav Nikolić e lasciando spazio, al governo, a un binomio tra i socialisti (il loro leader Ivica Dačić è Primo ministro) e il Partito progressista, fondato dallo stesso Nikolić. Alcune mosse, come il rafforzamento del controllo governativo sulla Banca centrale e il recente siluramento di Mlađan Dinkić da ministro delle Finanze, ritenuto troppo “prudente”, hanno preoccupato un po’ i mercati e lo stesso Fmi, con cui Belgrado sta difficoltosamente negoziando un prestito precauzionale.
Eppure il cambio di rotta non è stato così radicale. Anche questo governo punta moltissimo sugli investimenti dall’estero, che negli ultimi tempi sono aumentati vistosamente, favorendo la ripresa. A metà 2013 la Serbia è uscita dalla recessione grazie al boom delle esportazioni, trainate dalla fabbrica Fiat di Kragujevac, che ha iniziato a produrre l’anno scorso. Kragujevac è un irrinunciabile pilastro per l’economia serba, ma anche un rischio, visto che il paese è troppo vincolato alla produzione Fiat.
Ultima nota: in questi ultimi anni s’è molto parlato del fenomeno degli investimenti italiani in Serbia. Sono in ascesa, certo. Ma il fatturato delle nostre imprese a Belgrado e dintorni (546 milioni di euro) è ancora inferiore, stando a quanto riporta la banca dati dell’Ice, a quello realizzato dalle aziende che hanno messo radici in Romania (6719), Slovenia (1053), Croazia (1474) e Bulgaria (1002). Senza contare che la Serbia, in termini di competitività, lascia ancora molto a desiderare. Il nuovo eldorado descritto da una buona fetta della stampa italiana non c’è. Non ancora.
L’impasse bosniaco
Il paese è imbalsamato. E c’è una relazione di diretta proporzionalità tra la stasi politica e quella economica. La classe dirigente non fa più riforme, l’economia non cammina, la prospettiva europea rimane lontana. Sarebbero addirittura circa mille le leggi da emendare per adeguare l’ordinamento a quello comunitario, ha riferito tempo fa la rappresentanza UE a Sarajevo.
La progressione del Pil nel corso della crisi è poco consolante. Perdita contenuta rispetto alla media nel 2009 (-2,9%), crescita bassa nel 2010 (0,7) e nel 2011 (1,3), nuova recessione nel 2012 (-0,7%) e ripresa anemica quest’anno, che ha riportato le dimensioni complessive dell’economia nazionale a superare il livello pre-crisi. Il quadro dovrebbe migliorare nei prossimi anni, portando la disoccupazione, altro grosso guaio del paese, sotto il 25%. Ma questa scossa è piccola, rispetto al grande terremoto che servirebbe a rimettere in carreggiata la Bosnia.
La fragilità kosovara
La buona notizia: la crescita non ha risentito della crisi, è andata avanti con discreti ritmi. Al di là di questo, il Kosovo deve fronteggiare un’ampia serie di criticità, tra cui spiccano l’assenza di grandi imprese e l’export pulviscolare, la corruzione, gli intrecci tra politica e criminalità, il calo degli investimenti dall’estero e la generale fatica nel calamitarli, il tasso di disoccupazione enorme, particolarmente accentuato tra la fascia giovane della popolazione.
Una mano potrebbe arrivare dalla firma degli Accordi di associazione e stabilizzazione con l’Unione europea, una “ricompensa” offerta da Bruxelles dopo l’intesa recente sull’assetto del Kosovo con la Serbia, a sua volta premiata con l’apertura dei negoziati di adesione, che dovrebbe arrivare all’inizio del 2014. L’economia del Kosovo, ancora fragilissima, potrebbe trarre giovamento dall’avvio di una relazione concreta con l’UE.
Tirana: calano le rimesse
Alla stregua del Kosovo, anche l’Albania ha continuato a crescere, malgrado la crisi. Negli ultimi due anni, tuttavia, l’economia ha avuto dei rallentamenti.
Lo scenario non è comunque roseo. Sulle performance di Tirana pesano la contrazione delle rimesse, voce importante della ricchezza nazionale. Nonché le crisi di Italia e Grecia. Da quest’ultima, il paese in assoluto che vanta la più consistente minoranza albanese, s’è registrato un flusso migratorio di ritorno. Il nuovo governo di Edi Rama, capo del Partito socialista, dovrà lavorare intensamente, se vuole garantire progresso al paese.
Il destino incerto del Kap
Brusca frenata nel 2009, buona ripresa nel 2010-2011, crescita zero in questi ultimi due anni. Questo l’andamento dell’economia montenegrina nel quinquennio post-Lehman Brothers. Con l’aggravante che il debito pubblico è schizzato verso l’alto: era al 38% nel 2009, oggi supera il 50%. Cifra non così allarmante. Se non fosse che, appunto, la crescita del debito è stata molto rapida.
La causa principale sta nel fatto che il governo ha convogliato parecchi soldi nel Kap, impianto che produce alluminio, alle porte della capitale Podgorica. In evidente sofferenza. Il 65% delle azioni del Kap, primo datore di lavoro del paese e prima fonte dell’export nazionale, era stato rilevata qualche anno fa dal tycoon russo Oleg Deripaska, al tempo del diluvio di rubli piovuti sul paese. Il patto tra l’oligarca e il governo è saltato dopo qualche anno. Ora è in corso una dura battaglia a colpi di carte bollate.
Intanto, lo stato finanziario del Kap è andato progressivamente peggiorando. La spina non è stata staccata, malgrado il Fondo monetario abbia più volte consigliato questa opzione. Podgorica, che ha ricomprato quasi la metà delle azioni di Deripaska, vuole evitare il crack. Così ci mette soldi. Ma il debito sale e potrebbe diventare incontrollabile.
Non solo. La faccenda rischia di avere ricadute anche sul piano politico. Il Partito socialdemocratico, socio minore della coalizione, guidata dal Partito dei socialisti democratici di Milo Đukanović, tornato primo ministro dopo le elezioni dello scorso autunno, ha rigettato lo scorso agosto il piano di salvataggio del Kap (ora in procedura fallimentare), mettendo in seria difficoltà la tenuta del governo. I destini del Kap e di Đukanović, padrone del paese da più di vent’anni, sembrano legati tra loro.
La stabile incertezza macedone
È forse il paese che meglio ha retto l’urto della crisi. Quadro finanziario stabile, Pil senza cadute verticali nel 2009, debito sotto controllo. Anche la stabilità governativa, nonostante le tensioni dello scorso inverno (l’opposizione socialdemocratica boicottò il Parlamento) e i continui ritocchi agli equilibri con i soci albanesi della coalizione messi in atto dal Primo ministro Nikola Gruevski, tutto sommato c’è.
La disoccupazione resta alta, tuttavia. Troppo alta. Ci sono inoltre alcuni segnali che indicano qualche difficoltà. È il caso del rallentamento del mercato immobiliare e dei recenti screzi doganali con il Kosovo, riportati recentemente da Osservatorio Balcani e Caucaso, come dell’esposizione alla crisi della Grecia, che malgrado la ventennale tensione diplomatica alimentata dalla vertenza sul nome da attribuire alla Macedonia a livello internazionale, nel corso degli anni ha investito significativamente a Skopje, di cui peraltro risulta il primo esportatore.
1 Se non indicato diversamente, i dati macroeconomici relativi ai paesi citati nell’articolo sono quelli del Fondo monetario internazionale.
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