Durante le guerre di dissoluzione della Jugoslavia, oltre 70.000 persone sono fuggite in Italia, e molte di loro vivono tutt'oggi nel paese. Il progetto europeo Moj Dom ("Casa Mia") esplora come queste persone ricostruiscono il proprio senso di casa. Il 6 novembre, a Milano, si terrà l'inaugurazione della prima mostra dedicata a questo tema
Tra il 1991 e il 1995 oltre 70mila persone sono emigrate in Italia a causa delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia. Molte di loro vivono ancora nel nostro paese. Come si ricostruisce il senso di casa, lontano da quella di origine? Questa domanda ha guidato la realizzazione del progetto europeo "Moj Dom" , coordinato dall'organizzazione indipendente Codici .
Unendo competenze storiche e sociologiche, i ricercatori e le ricercatrici delle otto organizzazioni partner del progetto hanno realizzato più di cento interviste tra Austria, Croazia, Germania, Italia e Slovenia. È emerso che il concetto di casa è più immateriale che fisico. Spiega Lorenzo Scalchi, ricercatore di Codici: “Per sentirsi di nuovo a casa, è fondamentale conoscere nuove persone e condividere con loro esperienze e racconti. Però alcuni elementi materiali come spazi e oggetti facilitano la condivisione di racconti ed emozioni intime, altrimenti difficilmente verbalizzabili specie se legati a ricordi traumatici”.
Durante le interviste di progetto, le persone hanno parlato della propria casa partendo dal racconto delle stanze e degli oggetti preferiti. Sorprendentemente, le risposte sono state molto simili: il salotto e il cortile sono i luoghi più citati. I motivi sono legati al fatto che sono spazi sufficientemente grandi per riunire i membri di una famiglia e, allo stesso tempo, di facile accesso per le persone esterne.
Una delle intervistate dice: “Nonostante ci fossimo trasferiti in una casa troppo piccola, mi sentivo in un ambiente che mi ricordava casa mia, in Serbia. C’era un cortile condiviso con altre famiglie [...] Per me il luogo più importante era proprio quel cortile. Lì incontravo i vicini e condividevo con loro la giornata, le cose del quotidiano. Chiedevano di me, della mia vita”.
Gli oggetti domestici sembrano svolgere un ruolo di ponte tra passato e presente. Il loro valore simbolico è emerso chiaramente durante una delle attività di progetto, i collection day. Un nome che identifica una tipologia di evento pubblico a cui le persone partecipano condividendo la storia di un oggetto personale a cui attribuiscono un significato particolare.
Laboratorio Lapsus , associazione partner del progetto, da anni organizza eventi di questo tipo per fare ricerca su temi attinenti alla storia contemporanea. All’interno di Moj Dom, l’invito alla condivisione era rivolto a chi aveva offerto o ricevuto ospitalità durante le guerre di dissoluzione della Jugoslavia. Ogni persona partecipante ha portato un oggetto che per essa fosse sinonimo di casa.
Greta Fedele di Laboratorio Lapsus chiarisce: “L'intero processo di raccolta è incentrato sul meccanismo del dono: chi partecipa dona tempo, fiducia, frammenti della propria biografia a chi la intervista. Chi siede dall’altra parte restituisce a questa persona il significato storico e collettivo del proprio ricordo. È quindi importante stabilire fin dall'inizio un ambiente in cui sia evidente la valorizzazione dello sforzo della singola persona che sceglie di partecipare”.
Gli eventi sono stati realizzati coinvolgendo direttamente alcune comunità diasporiche di Milano, Piacenza, Verona e Vicenza. A volte gli incontri avvenivano in luoghi significativi per le comunità stesse, altre volte in spazi neutrali. Oltre ad esse, hanno partecipato anche singoli individui e gruppi familiari o amicali che non ne facevano parte. Spesso chi partecipa si fa accompagnare da altre persone, che finiscono per sentirsi coinvolte nel processo di condivisione delle memorie.
Capita che alla fine queste chiedano di rilasciare un'intervista, cercando nelle loro tasche un oggetto significativo oppure descrivendolo al gruppo di ricerca. Un elemento che rende esplicito quanto al centro dell’evento ci siano le testimonianze delle persone partecipanti, più che gli oggetti stessi.
Gli oggetti condivisi rispondono a quattro bisogni principali: appartenenza, protezione, cura e riconciliazione. Album di foto, dischi e cassette musicali degli anni Novanta sono stati spesso mostrati o raccontati con l’obiettivo di affermare l’importanza di recuperare frammenti di una vita passata.
In questo senso sono particolarmente significative le parole dello scrittore Božidar Stanišić, intervistato nell’ambito del progetto: “Pochissime persone sono riuscite a recuperare tutto ciò che c'era nelle case. [...] Questo significa che c'era una tendenza a colpire fino in fondo, buttando gli album di foto delle persone. Si possono trovare oggi vari forum online in cui la gente, giustamente, si lamenta di restare senza foto del periodo precedente alle guerre. Sembra niente, ma se tu hai una foto ti sembra in qualche modo di recuperare una parte della vita”.
La mostra Moj Dom/Casa Mia raccoglie le storie di trentacinque degli oggetti presentati durante i collection day. Il fotografo Marco Carmignan ha realizzato dei dittici video che mettono in dialogo i ritratti delle persone con gli oggetti scelti. Racconta: “All’inizio pensavo di realizzare solo fotografie, ma poi ho scelto i dittici video per evocare il legame indissolubile tra il soggetto e il suo oggetto, come se fossero specchi che si riflettono a vicenda.” La mostra rimarrà aperta a Milano dal 6 al 10 novembre 2024 presso lo spazio Careof all’interno di Fabbrica del Vapore.
Se il senso di casa nasce dalla condivisione e dalla comprensione reciproca di esperienze può accadere che nasca una nuova definizione di casa, dove l'identità e il senso di sicurezza si ridefiniscono insieme. Così, la ricostruzione non riguarda solo il superamento del passato, ma anche la creazione di un nuovo futuro. La nuova casa, inoltre, è sempre meno radicata in un solo luogo e si crea dalle esperienze degli altri, in modo ubiquo. Come se fosse una valigia.
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Il progetto Moj Dom – che letteralmente significa “Casa mia” – vuole analizzare le differenti interpretazioni delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia, considerando i problemi che derivano dalla rimozione o dall’uso strumentalizzato della memoria.
L’idea alla base è che la ricerca possa portare a una serie di riflessioni collettive sulle modalità in cui un evento traumatico di questo tipo influisce sull’elaborazione del senso di casa tra le persone che hanno dovuto migrare. Partendo da focus group e testimonianze individuali, si vuole anche approfondire quali sono state le politiche in materia di migrazione e accoglienza nei paesi di arrivo.
Il progetto coinvolge otto partner da cinque paesi: Austria, Croazia, Germania, Italia e Slovenia.