L'11 settembre visto dall'altra sponda dell'Adriatico. Una cronaca a più voci attraverso le corrispondenze dei nostri collaboratori, tra orrore popolare, sdegno ufficiale, timori per l'economia e qualche nascosto apprezzamento.
La tragica vicenda che ha sconvolto gli Stati Uniti e il mondo intero si è fatta sentire con forza anche in tutti i Balcani. I media locali hanno dato ampio spazio alla vicenda. Le televisioni hanno sovvertito il proprio palinsesto, trasmettendo in diretta via satellite le informazioni della CNN e di altre tv americane.
Dai resoconti dei nostri corrispondenti emerge un quadro di completa e ufficiale disapprovazione da parte dei governi e degli uomini politici locali. Come informa Lino Veljak in Croazia "le reazioni alle stragi compiute a New York e Washington non sono troppo differenti rispetto alle reazioni dei paesi europei. Tutti gli uomini politici, i partiti politici, i media, ecc. hanno condannato, nel modo più severo, l'atto terroristico". Immediatamente dopo l'accaduto il ministro degli interni Sime Lucin - scrive ancora Veljak - ha condannato l'azione terroristica affermando che "la guerra e il terrore non sono in grado di risolvere i problemi esistenti". A detta del ministro Lucin, in Croazia la verità di questo principio è piuttosto nota dal momento che il paese è stato travolto per un decennio dalla guerra e dal terrorismo.La Croazia risente inoltre dell'emergente crisi economica, in particolare per quanto riguarda la compagnia aerea nazionale, la Croatia Airlines, che ha riscontrato un calo dei passeggeri del 50%. Ma anche la borsa di Zagabria ha reagito in modo violentissimo, aprendo la prima giornata nel panico. Le ditte più colpite sono state, secondo quanto scrive Veljak, l'industria farmaceutica Pliva, l'industria alimentare Podravka e l'azienda turistica Rivijera.
Analogamente in Bosnia, come ci scrive da Mostar Dario Terzic, "tutte le istituzioni bosniache hanno condannato l'atto terroristico e i rappresentanti dello Stato hanno subito inviato telegrammi di solidarietà con il popolo americano. La medesima cosa è stata fatta anche dai capi religiosi, sia il mufti che il cardinale". Le reazioni di solidarietà espresse dalla forte componente musulmana di Bosnia ed Erzegovina hanno lasciato spazio ad alcune ironiche dichiarazioni del tipo "la BiH è l'unico paese musulmano filoamericano", facendo implicito riferimento agli ingenti aiuti che gli USA hanno concesso e tuttora concedono all'ex Repubblica jugoslava.
I media serbi e montenegrini hanno concesso anch'essi un notevole spazio alla tragedia americana. Sui quotidiani, ma soprattutto sulle televisioni locali sono andate in onda in tempo reale informazioni captate col satellite dalle emittenti statunitensi. L'11 settembre, per esempio, la televisione montenegrina ha trasmesso per tutto il giorno e su tutti i canali la tragedia avvenuta negli Stati Uniti. Sono state rilanciate le dirette dalla CNN e da Info Sky in traduzione simultanea, ed in serata è stata riproposta con la traduzione anche l'intera trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa.
In Serbia, come ci scrive Ada Sostaric da Belgrado, lo stesso giorno "le tv statali e commerciali hanno interrotto i programmi regolari per trasmettere in diretta via satellite le trasmissioni da New York e Washington".
In conformità con l'intero mondo politico occidentale anche i rappresentanti dei governi dei due stati della Federazione di Jugoslavia, hanno condannato l'accaduto, mostrando, come dice la Sostaric, che "la Serbia non è più amica di quella sorta di regime totalitario di Saddam Hussein, come recentemente era solita essere". Tutti gli eventi locali sono stati fatti slittare sullo sfondo, coperti dall'attacco terroristico agli USA. La prima reazione da parte dei politici locali è avvenuta durante l'incontro tra il presidente della FRJ, Kostunica, e il presidente del Montenegro, Djukanovic, durante il meeting in corso a Podgorica, mirato a definire i futuri rapporti tra la Serbia e il Montenegro. Durante la serata si è tenuto poi un incontro degli alti vertici dello stato, con tema l'attentato terroristico. Alla conclusione di questo incontro il ministro degli interni federale, Zoran Zivkovic, ha fatto sapere che "sono state incrementate le norme di sicurezza presso l'ambasciata americana a Belgrado". Sotto il profilo economico si sono udite le parole del ministro serbo delle finanze, Bozidar Djelic, che si è mostrato preoccupato per la recessione che potrebbe derivare dal grave atto terroristico, e le ripercussioni sulla fragile economia jugoslava.
Occorre tuttavia notare che se il mondo ufficiale dei paesi dell'area balcanica ha risposto condannando fermamente l'attentato terroristico, parte della popolazione invece, come si legge in alcuni commenti riportati dai corrispondenti, ha accolto il disastro in America come una giusta punizione per quel paese che solo due anni fa ha bombardato a fini "umanitari" la Federazione di Jugoslavia, paragonando le Twin Towers ai grattacieli di Belgrado. Altri addirittura hanno fatto paragoni con il supporto che gli USA offrirebbero ai cosiddetti gruppi terroristici legati all'UCK ed infine c'è chi ha commentato dicendo che "l'imperialismo americano doveva pure pagare il suo prezzo".
Ma aldilà di queste considerazioni popolari, il quadro descritto dai corrispondenti dell'Osservatorio offre l'impressione che la gravità dell'attuale situazione non solo fa sì che "nulla sarà più come prima" , ma anche che di ciò se ne ha la piena percezione anche nei Balcani, ovvero in quella parte d'Europa che per anni ha vissuto e tuttora vive sul filo di un'instabilità dettata dai conflitti e dalla guerra, e sa per esperienza che la guerra sancisce l'annientamento dell'altro, cancellandone i connotati, caricandolo di quella "diversità" che lo rende incomprensibile e da odiare. Chi ha vissuto nei Balcani questo lo ha imparato sulla propria pelle ed è forse per questo che - scrive Michele Nardelli in un articolo pubblicato dal quotidiano L'Adige - dietro i fantasmi dei terroristi che si sono scagliati contro il simbolo del potere di Manatthan, "voglio vedervi delle persone che hanno bisogno di ubriacarsi, non molto diversi dal cecchino imbottito di cocaina che spara sul ragazzo di Sarajevo, uomini (perché di uomini quasi sempre si tratta) che sono cresciuti in un contesto di guerra e fanatismo, ma soprattutto di vuoto, di quella banalità (del male) di cui parlava Hannah Arendt a proposito del processo Eichmann, di perdita di speranza, appunto di "fine della storia". Che si abbia l'accortezza di ricordare allora che "la guerra, invocata in nome di una civiltà o di una religione non fa differenza, toglie spazio al dialogo e mette in moto una spirale senza fine se non l'annientamento dell'altro".