(© BobrinSKY/Shutterstock)

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Attraverso un testo teatrale Elisa Bondavalli si è proposta di mostrare il rapporto tra Ratko Mladić e la figlia Ana. Un intento complesso e delicato, alla scoperta della banalità del male

14/03/2019 -  Maria Giulia Anceschi

Per quale motivo ha deciso di descrivere questo rapporto tra padre e figlia utilizzando la tecnica teatrale, un cosiddetto “botta e risposta” tra i due protagonisti e i personaggi che girano loro intorno, e non una prosa?

Quando mi è venuta l'idea, o forse sarebbe meglio dire l'urgenza, di raccontare la storia di Ana e di suo padre, avevo intenzione di scrivere una sceneggiatura cinematografica, perché volevo mostrare, più che descrivere, alcuni momenti significativi di quel terribile conflitto. Per tutta una serie di ragioni, che non sto qui ad elencare, ho poi optato per il testo teatrale, sempre però con l'occhio rivolto alla messa in scena. Mi interessava, cioè, istituire un rapporto emotivo con il pubblico, volevo che il mio testo fosse l'occasione di un'esperienza condivisa. In realtà, ho scoperto che è tutt'altro che facile trovare chi voglia rappresentarlo: sto incontrando, infatti, molte resistenze da parte dei registi teatrali, che sembrano come spaventati di fronte alla tematica dei Balcani.

Nella prefazione cita una frase di Eugenio Montale “[...] e più nessuno è incolpevole.”; il suo è un testo in cui si analizza la depressione di cui cade vittima Ana mentre scopre la verità sul padre, può essere definita anche lei “colpevole” delle azioni di Ratko Mladić?

La figura straordinaria di Ana Mladić è senz'altro il motore originario di questa vicenda. La sua volontà di negare l'ascendenza paterna con un gesto tanto radicale, nonostante il profondo legame che la univa al genitore, è, a mio avviso, uno degli esempi più limpidi e coraggiosi che si possano riscontrare nella storia. Nella mia interpretazione, la sua decisione nasce proprio dal fatto che si sente colpevole di non aver capito, di non aver voluto vedere cosa le stava capitando intorno, cosa faceva e chi era in realtà suo padre.

A ciò si aggiunge poi la consapevolezza che mai, neanche per tutto il resto della sua vita, avrebbe potuto rimediare alle nefandezze paterne. D'altra parte, penso anche che non dovesse essere facile per una ragazza di 23 anni, assumere una posizione critica verso la politica nazionalista di Milošević, nel clima di martellante propaganda, di controllo e manipolazione delle informazioni che lui aveva istituito in Serbia. Ma le parole che Montale ha usato per coloro che all'avvento dei totalitarismi hanno distolto gli occhi, riguardano tutti noi, che all'epoca non abbiamo capito cosa stesse veramente succedendo dall'altra parte dell'Adriatico, a soli pochi chilometri dalle nostre case. E non abbiamo preso posizione. Forse la ragione profonda di questo mio testo è proprio il senso di colpa.

Alla luce delle azioni compiute da Mladić ha deciso di impersonarsi comunque nella sua figura, come padre in primis, facendolo apparire, a tratti, quasi “umano”. Perché non si è solo concentrata sulla figura della figlia, una delle tante vittime delle scelte del padre?

Come ho scritto nella prefazione a questo testo teatrale, immedesimarsi nella figura di Ratko Mladić è stato molto impegnativo.

Mi sono dovuta documentare, leggere le interviste che aveva rilasciato all'epoca del conflitto, studiare le fonti filoserbe per capire bene il personaggio e il contesto in cui si muoveva. Il ritratto che ne deriva, pertanto, è quello di un uomo che aderisce acriticamente a un'ideologia deviata, ma non è privo di un suo personalissimo codice d'onore, che lo rende un generale amato dai suoi soldati e dai suoi connazionali (ancora oggi per moltissimi serbi Ratko Mladić è un eroe) e un padre severo ma attento e, a suo modo, protettivo. Mi interessava poi mostrare il punto di non ritorno di un uomo normale che, trovatosi all'improvviso investito del potere di vita e di morte, diventa un pazzo sanguinario. Non a caso nella prefazione lo definisco un Kurtz dei Balcani con evidente riferimento a Conrad, ma anche e soprattutto ad Hannah Arendt, quando ne L'origine del totalitarismo parla di quegli individui, di cui il Kurtz di Cuore di tenebra è appunto la traduzione letteraria, che andarono in Africa negli anni dell'Imperialismo e là, in un contesto d'eccezione, poterono scatenare i loro istinti più bestiali, “i cui delitti potevano essere commessi come in un gioco senza conseguenze, in una combinazione di orrore e risata. E valutavano la vita dei loro simili non più di quella di una mosca” (1). In ogni caso, l'ultima cosa che volevo fare era quella di rappresentare il mostro: volevo invece restituire un ritratto a tutto tondo di un individuo, che poi, drammaturgicamente parlando, era l'antagonista necessario per mostrare il conflitto che stava vivendo Ana.

Introduce spesso nel testo (in maniera negativa) personaggi delle Nazioni Unite coinvolte nella guerra, come il generale Morillon e i militari olandesi. È un modo per esprimere il suo punto di vista sul ruolo che ha avuto l'Onu in questo contesto?

Penso che il conflitto dei Balcani abbia mostrato una volta di più (basti pensare, ad esempio, negli stessi anni, al Ruanda) la debolezza degli organismi internazionali che non sono riusciti a - o non hanno voluto - fermare per tempo uomini come Milošević, poi Karadžić e Mladić, che non possedevano né risorse illimitate, né un ruolo così fondamentale sulla scena mondiale. E l'Onu in questo caso ne esce peggio di tutti. Le avvisaglie – e che avvisaglie!- c'erano già state in Croazia a Vukovar, e invece anche Cerska, Konjević Polje e tanti altri villaggi musulmani hanno dovuto essere rasi al suolo. Per tacere del terribile assedio di Sarajevo, dei campi di concentramento, degli stupri di massa... Davvero non c'era modo di impedire tutto ciò? Se a Morillon, nonostante l'ambiguità che circonda la sua figura, riconosciamo di essere riuscito almeno a trarre in salvo alcune centinaia di donne e bambini, al colonnello Karremans mai potremo perdonare di avere consegnato nelle mani del suo carnefice la popolazione di Srebrenica, che per mandato doveva proteggere.

Le rivolgo una domanda più personale, che va oltre l'opera in sé: lei è una professoressa in una scuola superiore, e spesso si trova di fronte al limite che pongono i programmi per quanto riguarda le materie e il tempo a disposizione. Riesce a sensibilizzare i giovani su questo argomento, la violenza, la guerra dei Balcani, per renderli più consapevoli del pericolo, della vicinanza degli avvenimenti, e della possibilità del ripetersi di questo tipo di violenze?

Sicuramente uno degli impulsi a scrivere questo testo è stato proprio l'approfondimento sul conflitto dei Balcani che ho fatto con le mie classi. La prima volta che ho introdotto l'argomento è stato tre anni fa in occasione dell'incontro dei miei studenti con l'amico e regista Ado Hasanović, originario di Srebrenica, che all'epoca dei fatti aveva sette anni e riuscì a salvarsi con la madre, il fratello e la sorella. Da allora cerco sempre di parlare ai miei alunni della guerra in Bosnia e del genocidio. Lo faccio già nelle classi prime, solitamente nelle ore di geografia, che al liceo è geografia umana, e in quelle di educazione civica. Devo dire che i ragazzi, benché giovanissimi, rispondono sempre con un interesse partecipe riguardo a questi avvenimenti di cui non hanno mai sentito parlare. Analizzare quanto successo nei Balcani nella prima metà degli anni Novanta, dalla genesi del conflitto fino all'epilogo tragico di Srebrenica, è senz'altro un'occasione per sensibilizzare i giovani su come il pericolo della violenza e della guerra sia sempre alle porte, quando viene meno la libertà d'informazione e, soprattutto, quando mancano gli adeguati strumenti critici, i cui fondamenti si mettono proprio a scuola. Solo l'attività critica, infatti, è capace di provocare perplessità ed evitare il conformismo più pericoloso. E la Storia, anche e soprattutto questa Storia, recupera allora il suo ruolo di magistra vitae e diviene il baluardo fondamentale contro la banalità del male.

 

Note:

(1) Hannah Arendt, L'origine del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, pag.265