Voto della Risoluzione 827 dell'ONU istitutiva del ICTY (foto ICTY)

Voto della Risoluzione 827 dell'ONU istitutiva del ICTY (foto ICTY )

Il 31 dicembre chiude i battenti il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia. L'ultimo grande atto sarà la sentenza contro il generale Ratko Mladić, l’ex comandante militare dei serbi di Bosnia, prevista per il prossimo 22 novembre

19/10/2017 -  Tomas Miglierina

Dall’estate del 1992, da quelle immagini di prigionieri emaciati aggrappati alla rete che ricordavano i film sui lagher nazisti è passato oltre un quarto di secolo. Dopo tutto questo tempo, hanno preso anche loro il colore della storia. Vennero girate quando la TV era molto meno sofisticata di oggi, ma smossero le acque molto più di quanto riescano a fare, oggi, le immagini ipertecnologiche dalla Siria. Furono essenzialmente quelle immagini che portarono alla creazione del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (ICTY ), la prima corte speciale internazionale per crimini di guerra dopo Norimberga e Tokio. Il vaso dell’indignazione non era vuoto, c’erano già state cose come l’assedio a Vukovar, ma quelle immagini lo fecero traboccare.

Il 31 dicembre prossimo l’ICTY chiuderà i battenti, passando interamente il testimone ad un meccanismo residuale (MICT) che già lo affianca per occuparsi degli appelli e dei casi in giudicato. A differenza dei loro colleghi dell’ICTY, i giudici del MICT lavorano part-time, a turno, non a tempo pieno, e si occupano anche del tribunale per il Ruanda, che tra l’altro ha ancora dei latitanti, a differenza del suo gemello jugoslavo.

L’ultimo grande atto dell’ICTY sarà la sentenza contro il generale Ratko Mladić, l’ex comandante militare dei serbi di Bosnia, penultimo dei 161 accusati ad essere arrestato, dopo quindici anni di latitanza, il 26 maggio 2011. Mladić è apparso in aula l’ultima volta nel dicembre scorso, per le arringhe conclusive. A 74 anni, con due infarti e un attacco cardiaco sulle spalle, del guerriero trionfatore che rassicurava i civili della caduta Srebrenica (mentre per gli uomini già si preparava la carneficina) resta ben poco. Belgrado ne ha chiesto la scarcerazione per motivi umanitari. La sentenza contro Mladić è fissata per il 22 novembre prossimo alle ore 10.00.

L’uomo che spegnerà la luce dell’ICTY, il 31 dicembre, è un ex giudice della Corte costituzionale maltese nato dodici giorni dopo l’atomica su Hiroshima: Carmel Agius. Ci riceve in una domenica di settembre durante la quale gli organi delle Nazioni Unite all’Aja, e dunque anche il Tribunale, aprono le porte al pubblico. "Abbiamo per la prima volta dimostrato che è possibile combattere l’impunità. Se la comunità internazionale vuole, quelli che commettono reati non riusciranno a scappare dalla giustizia. Siamo andati oltre ogni aspettativa. Legga i resoconti del Consiglio di sicurezza negli anni ’90: nessuno allora credeva davvero che il nostro Tribunale sarebbe stato ancora vivo un quarto di secolo dopo".

Ma è stata davvero fatta giustizia? Slobodan Milošević, il più illustre tra gli imputati, il capo di stato che faceva attendere i grandi del mondo è certamente finito alla sbarra, ma è morto prima della sentenza, dunque presunto innocente, l’11 marzo del 2006. Aveva lasciato il potere il 6 ottobre del 2000, era stato arrestato sei mesi dopo ed estradato all’Aja il 28 giugno 2001. Sul suo monumento funebre a Požarevac, in Serbia, c’è scritto "ucciso nel lagher dell’Aja" e i fiori freschi non mancano mai.

La sentenza di primo grado contro Radovan Karadžić è stata pronunciata il 24 marzo 2016, ventun’anni dopo la pace di Dayton e due giorni dopo gli attentati terroristici di Bruxelles. La mattina in cui il settantaduenne leader dei serbi di Bosnia è stato condannato a quarant’anni di carcere, il mondo - più che ai musulmani di Srebrenica - pensava a quelli di Molenbeek.

Il leader dei radicali serbi Vojislav Šešelj, dopo undici anni all’Aja passati più che altro ad insultare magistrati e intimidire testimoni è stato scarcerato nel 2014 perché malato di cancro in fase terminale e poi assolto in primo grado perché la sua responsabilità fu “ideologica”. Si diceva gli restassero pochi giorni da vivere, ma sul suolo serbo è risorto. Al suo arrivo molti l’hanno accolto da trionfatore, ma non alcuni suoi ex compagni che nel frattempo avevano smesso il berretto cetnico per la bandiera europea e sventolando quella erano tornati al potere. Ora attende la sentenza d’appello da uomo libero.

Assolto è stato anche l’ex generale croato Ante Gotovina, forse il più famoso tra gli imputati non serbi, la cui latitanza un decennio fa stava costando a Zagabria l’ingresso nell’Unione europea. Gotovina ed altri devono la libertà ad un’interpretazione restrittiva della responsabilità dei comandanti per gli atti dei sottoposti. Una interpretazione incarnata dall’ex presidente della Corte Theodor Meron, che oggi guida il meccanismo residuale, e ben lontana dal fare unanimità. Meron ha accettato di incontrarci, ma solo per parlare del futuro.

"Stiamo rifacendo processi importanti come i casi Stanišić e Simatović, dobbiamo occuparci di due appelli che saranno storici - Karadžić e Šešelj - e abbiamo centinaia di ordinanze da emettere su richiesta delle giurisdizioni nazionali. Cercheremo di essere rapidi. Ci attendiamo il giudizio del signor Šešelj nel corso del 2017 o ai primi del 2018. L’appello Karadžić si celebrerà nel 2019".

La lentezza è una delle critiche principali che sono state più volte formulate contro l’ICTY. Una lentezza dovuta soprattutto al fatto di dipendere, per le indagini, dalla buona volontà degli stati, quegli stessi stati dove i presunti criminali – o persone a loro molto vicine – sono rimasti a lungo saldamente al potere.

Un altro punto debole è stata la distanza, non solo fisica, dal luogo dei fatti e la difficoltà a farsi accettare dalle popolazioni locali, anche perché presentato dalla maggior parte dei media locali – a seconda dei casi – come anti-serbo, anti-croato, a volte persino anti-albanese. Oppure come un inefficace carrozzone.

"L’ICTY ha avuto vita difficile perché era difficile creare una connessione con le società balcaniche, in quello che rimane ancora oggi un conflitto molto complesso", afferma Kirsten Meerschart, giurista olandese che guida l’ufficio dell’Aja della Coalizione per la Corte Penale Internazionale. "La lezione che bisogna trarne per il futuro è che le Corti internazionali devono spiegare chiaramente cosa possono e non possono fare. La giustizia internazionale non può che perseguire solo i maggiori responsabili. Gli altri, la manovalanza, potrebbero non arrivare mai ad una corte come questa".

Che ancora oggi molti manovali della pulizia etnica girino impuniti per i Balcani è una cosa che ammette persino il presidente del Tribunale: "A pochi mesi dalla chiusura stiamo ancora raccogliendo prove, specie in Bosnia Erzegovina, ma anche in Croazia e Serbia. Abbiamo fatto del nostro meglio, ma questa non era una cosa che controllavamo. Ora il compito deve essere assolto dalle repubbliche. Se vogliono pace, che procurino alle vittime una misura di giustizia".

Il merito maggiore dell’ICTY, forse, è semplicemente quello di essere esistito, frutto di una congiunzione astrale più unica che rara, in cui al Consiglio di Sicurezza dell’ONU nessuno dei membri permanenti poteva o voleva usare il proprio veto.

Alcuni progressi li ha prodotti dietro le quinte: ha sviluppato la giurisprudenza internazionale sui crimini di sua competenza; ha gettato le basi per corti simili e soprattutto per la Corte penale permanente (CPI), che però in 17 anni ha prodotto ben poco, ed oggi è scossa dalle rivelazioni di un’inchiesta giornalistica internazionale sul suo ex procuratore capo, Luis Moreno Ocampo.

"Ci sono più inchieste e incriminazioni a livello nazionale rispetto al passato. La nozione di giurisdizione universale è impiegata sempre più di frequente", dice ancora Kirsten Meerschart. E fa l’esempio dei casi di rifugiati siriani che riconoscono i loro aguzzini e li portano davanti alla giustizia nei paesi dove hanno trovato rifugio. Ma da qui a pensare che i macellai di oggi un giorno si troveranno alla sbarra, il passo rimane lungo. Il destino dei macellai di ieri lo sta a dimostrare.

 

Questo articolo è basato sulla trascrizione originale di interviste che le persone citate hanno dato all’autore per un reportage della Televisione svizzera (RSI)