Una lettera ai lettori e a tutti gli amici di Osservatorio di Mauro Cereghini, che ha diretto OB dal 2001 sino al giugno di quest'anno. Una panoramica su un quinquennio intenso di iniziative, lavoro giornalistico, costruzione di relazioni
"Predrag Matvejević ne L'Altra Venezia ci ha descritto una città che trasuda - nei particolari più apparentemente insignificanti - il suo carattere mediterraneo. Il pulsare meticcio nei venti che l'attraversano, nelle piante selvatiche che s'insinuano tra una pietra e l'altra, nei colori che variano di stagione in stagione. Le tracce di una civiltà mediterranea dove si incontrano e si mescolano profumi, architetture, parole, costumi di oriente e occidente. Venezia porta d'ingresso per quella Europa di mezzo che va da Lubiana a Salonicco, da Mostar a Belgrado passando per Sarajevo, Tirana e Zagabria...
È significativo che proprio a Venezia, nei Cantieri di Pace del giugno 1999, nasca l'idea dell'Osservatorio sui Balcani. C'era la necessità di dare una risposta di pace alla crisi in Kossovo ed ai bombardamenti su Serbia e Montenegro. E insieme di superare un approccio verso i Balcani, basato soltanto sulla logica dell'emergenza e sullo stereotipo di una regione arretrata, immersa in conflitti secolari. Smascherare dunque l'inganno etnico e fornire un'altra chiave di lettura per le guerre degli anni '90, comprendendone la modernità se non l'ipermodernità. E imparare a guardare al di là dell'Adriatico come ad uno specchio che riflette l'immagine dell'Europa, e di noi stessi."
Si apre così l'introduzione ad un libretto recente che raccoglie i cinque anni di attività dell'Osservatorio sui Balcani (2001-2005). L'abbiamo scritta a più mani, come a più mani e a più teste è stato il lavoro dell'Osservatorio in questi anni. Collettivo, si direbbe con una parola ormai fuori moda. E così mi sembra quasi strano scrivere un testo solo mio, per salutare ora che termino l'incarico di direttore. Ma è un dovere, mi dicono, l'ultimo di questo ruolo.
Cinque anni fa l'Osservatorio nasceva dall'intuizione felice di alcune persone - Michele Nardelli e Tonino Perna in primis. E dalla disponibilità di alcune istituzioni del Trentino a farsene carico, su tutte la Fondazione Opera Campana dei Caduti e la Provincia Autonoma di Trento. Dall'intuizione alla realizzazione ci vogliono però le persone, ed io ho avuto la fortuna di essere tra queste sin dall'inizio. Assieme ai molti che quotidianamente leggete come redattori del sito, o come corrispondenti dai vari paesi dei Balcani, e agli altri i cui nomi non appaiono ma sono pure determinanti per il lavoro dell'Osservatorio.
Difficile riassumere qui le cose fatte in questi cinque anni: il sito web con i suoi lettori sempre in crescita (abbiamo ormai superato i duemila giornalieri), le collaborazioni editoriali prestigiose, il monitoraggio della cooperazione decentrata attraverso BalcaniCooperazione, le iniziative per l'integrazione europea dell'area - su tutti gli eventi di Sarajevo nel 2002 e lungo il Danubio nel 2003 - i convegni ed i seminari in numerose città italiane, i video-documentari...
Ma un elenco non è un bilancio, e serve perciò fino a un certo punto. Più sensato è provare a dire cosa è cambiato in questi cinque anni di attività, in Italia e nei Balcani, e come anche l'Osservatorio ha (o può aver) contribuito al cambiamento. Molto e nulla, si potrebbe rispondere ad entrambe le domande. Molto è cambiato nei Balcani, che nel 2001 uscivano da un decennio di guerre (Kossovo e Macedonia le ultime) mentre oggi hanno superato la fase dello scontro aperto. Molto sono cambiate anche l'Italia e l'Europa, che ora guardano al di là dell'Adriatico come ad un'area prossima all'ingresso nell'UE e potenziale partner economico più che beneficiario di aiuti. E molto - se è concessa un po' di presunzione - ha inciso anche il nostro lavoro, nel silenzio sempre più diffuso dei media tradizionali verso quest'area pur vicina all'Italia. Non fosse altro che per indirizzare sempre più numerosi turisti a visitarla nelle sue bellezze (che vanno ben oltre la costa adriatica), come dimostrano i moltissimi lettori che ci scrivono prima e dopo i loro viaggi.
Ma insieme si potrebbe anche dire che poco o nulla è cambiato dal 2001. Non ci sono violenze aperte, ma paesi fragili, protettorati senza scadenza e nazionalismi ancora diffusi. Molti rifugiati sono rientrati a casa (ma non certo tutti in Kosovo, e in pochi nelle Krajine...), però chi può continua ad emigrare per ragioni economiche e di opportunità di vita. Paradossalmente, la povertà in Bosnia Erzegovina è peggiore oggi che durante la guerra, così come la libertà di viaggiare all'estero per un cittadino serbo era superiore nel periodo di Milosevic - per non dire in quello di Tito... - che in quello "democratico" attuale.
E poco o nulla è cambiato nell'atteggiamento dell'Italia e dell'Europa, che continuano a non capire come la questione balcanica sia dirompente se lasciata a marcire ancora senza un deciso intervento, senza un orizzonte politico e un senso di futuro per le popolazioni di quelle terre. "Il nostro timore è che i leader europei abbiano perso il coraggio di mettere in pratica l'impegno che presero nel 2003 di portare la regione dei Balcani nell'Unione Europea. Allarmati dai risultati dei referendum in Francia e nei Paesi Bassi sulla ratifica della Costituzione europea, i leader dell'Unione si sono ritirati in politiche che, invece di trasformare i Balcani, si limitano a proposte per gestire lo status quo... Non possiamo che rammaricarci di questo sviluppo negativo. È proprio nei Balcani che l'UE deve dimostrare di essere in grado di trasformare stati deboli e società divise. Questo è tanto necessario per i Balcani quanto per l'UE... Il vero referendum sul futuro dell'Unione si terrà nei Balcani...". Sono brani - apparentemente soft, ma in termini diplomatici molto netti - di una recente dichiarazione della Commissione Internazionale per i Balcani, presieduta da Giuliano Amato. Non mi pare abbiano bisogno di commenti.
Allora, se il percorso di integrazione europea - o riunificazione, come dovremmo chiamarlo - per i Balcani non avanza, anzi arretra, forse anche il nostro lavoro dell'Osservatorio è stato ed è inutile?
A voi, ad altri la risposta. Non so dire quanto sia stato utile, in questi anni, parlare dei problemi economici enormi di un'area post-comunista e post-bellica insieme. O dei diritti civili all'interno di società nazionaliste e maschiliste come quelle uscite dalle guerre e dalla "transizione". O aprire un dibattito sulla memoria del passato, che riguardi Srebrenica tanto quanto la vicenda delle foibe. O ricordare la presenza dell'uranio impoverito e di altri inquinanti, e denunciare il silenzio sceso sugli effetti dei "nostri" bombardamenti. So che abbiamo cercato di farlo, come contributo ad un "discorso europeo" che coinvolga pienamente anche i Balcani. E so che l'Osservatorio continuerà a farlo, anche meglio, in futuro, aprendosi sempre più a quella "Europa di mezzo" che dai Balcani si estende fino al Caucaso, altra area dimenticata del nostro continente.
A chi proseguirà in questo lavoro - Luisa Chiodi come direttrice, e tutto lo staff con lei - non servono auguri. Al massimo una dedica, che prendo dal diario di viaggio di Melita Richter lungo il Danubio, tra Vienna a Belgrado. Parla del destino, a cui tutti noi sognamo di contribuire.
"Il Danubio è il fiume di noi tutti, esso ci appartiene. E' la metafora dell'Europa alle cui sorti siamo legati e al cui destino vorremmo contribuire. Con la tenacia degli esclusi ed il rispetto degli inclusi".
Buon viaggio.