I mondiali come surrogato della guerra e una finale come metafora dello scontro tra vecchia e nuova Europa
(Pubblicato originariamente da Radio Capodistria il 12 luglio 2018)
Tamburi, canti di guerra, inni, bandiere, urla, gioia e dolore. Il calcio e i mondiali in particolare sembrano un surrogato più o meno pacifico della guerra. Una arena dove 11 gladiatori combattono per l’onore della propria nazione, del proprio popolo con acconciature e tatuaggi improbabili. Le passioni nazionali si riaccendono, si ricordano i torti veri o presunti subiti dal proprio popolo ed, in alcuni casi, la partita diventa un modo per prendersi una rivincita su storici nemici. Accadde, ad esempio, con l’Argentina che nel 1986 battendo l’Inghilterra, “vendicò” sul campo la sconfitta militare subita contro la Gran Bretagna alle Falkland.
Quando la nazionale gioca ai mondiali il paese si ferma e può accadere anche che i centri commerciali chiudano anzitempo e che vengano persino cancellati gli spettacoli. La finale dei mondiali tra Francia e Croazia sembra essere la metafora dello scontro tra vecchia e nuova Europa. La barriera tra Oriente e Occidente oggi non è mai stata così alta dalla caduta del Muro di Berlino. Da una parte c’è l’Europa meticcia, quella “invasa” dai migranti, dall’altra c’è una nazione bianca, cattolica e nazionalmente omogenea. Proprio la paura dell’invasione incontrollata ed il presunto pericolo per usi, costumi e tradizioni, che secondo la retorica dei paesi dell’est Europa rischierebbero di essere messi in pericolo anche da quote irrisorie di rifugiati sta squassando il vecchio continente.
I transalpini sono una antica potenza coloniale con alle spalle una lunga storia. A loro, così come ai tedeschi, di solito le campagne di Russia non portano bene e quindi la Croazia può sperare. La Francia è la patria dei diritti dell’uomo, dell’idea di libertà, uguaglianza e fraternità, ma anche dell’antisemitismo e della repressione in Algeria.
Il 14 luglio i francesi celebreranno la presa della Bastiglia riempiendo le spiagge. Attorno ai tavolini famiglie multicolore, dove le ostriche troveranno posto accanto al cuscus, perché alla fine l’amore trionfa sempre sulle xenofobie e nessun nazionalismo può impedire un figlio di algerini di innamorarsi di una francese o ad un francese di sposare una senegalese. Così allo scoccare della mezzanotte saranno tutti lì ad intonare la Marsigliese, perché, per dirla con Renan per loro la nazione non è altro che il plebiscito d’ogni giorno, dove per essere francese basta decidere di esserlo.
Ad unire la Francia, ancor più che il 14 luglio, probabilmente quest’anno ci sarà la finale dei mondiali, con una nazionale composta da 19 calciatori su 23 nati da famiglie di origine non francese o provenienti dalle colonie. È l’esaltazione della società multiculturale, che oggi fa tanta paura alle periferie d’Europa, ed è l’esempio che la convivenza è possibile. Quei giovanotti che domenica vestiranno le maglie della Francia ce l’hanno fatta. Sono usciti dai sobborghi, che, probabilmente, avrebbero difficilmente abbandonato senza il pallone, perché la Francia e con essa l’Europa occidentale si scontra ancora con il problema dell’esclusione dalla società dei nuovi cittadini, anche di seconda e terza generazione, che fanno più fatica degli altri ad uscire dall’emarginazione.
La Croazia d’altra parte è il simbolo della nuova Europa, un paese cattolico, etnicamente e culturalmente omogeneo. Con l’indipendenza Zagabria ha realizzato il sogno di liberarsi dal giogo di potenti ed ingombranti padroni, ha ritrovato l’orgoglio nazionale represso nella Jugoslavia di Tito ed è uscita da una lunga e sanguinosa guerra per riprendersi le zone controllate dai paramilitari serbi.
Per i croati la transizione dal comunismo è stata difficile ed è passata attraverso la “democratura” di Franjo Tudjman con la riscoperta della fede, che assieme allo sport e soprattutto il calcio, è servita a rafforzare patriottismo e nazionalismo. Una identità, la loro, non basata sulla libera scelta, come accade per i francesi, ma sul suolo e sul sangue.
Sin da subito i croati poterono contare su grandi campioni, con il cuore che batteva per la loro patria. La stella Zvonimir Boban, nel maggio 1990, quando il processo di disgregazione della federazione jugoslava era oramai arrivato ad un punto di non ritorno, non ci pensò due volte a difendere un tifoso della Dinamo dalle manganellate di un polizotto jugoslavo, nei disordini a Zagabria durante la partita con la Stella Rossa. Rischiò il carcere, ma se la cavò con una sospensione di sei mesi, che gli costò l’esclusione dalla nazionale jugoslava che partecipo ai mondiali in Italia. Probabilmente la cosa non gli dispiacque più di tanto.
Una nazionale, quella croata, composta anche da croati della diaspora e di Bosnia, espressione di patriottismo ed anche di becero nazionalismo, come quando, nel 2014, il difensore Josip Šimunić, raggiunta la qualificazione per i mondiali brasiliani, arringò la folla all’urlo: “Per la Patria. Pronti!”. Uno slogan tradizionale croato usato durante le guerre jugoslave, ma anche dagli Ustascia durante la seconda guerra mondiale. Venne squalificato per 10 partite. Ciò non impedì ai croati di continuare a cantare nello spogliatoio le canzoni di Thompson, un ultranazionalista i cui concerti sono vietati in molti paesi d’Europa.
Così se da una parte i galletti di Francia sono espressione di un occidente multiculturale ed arcobaleno, che oggi è messo sempre più in discussione, i “vatreni” croati sembrano essere il perfetto simbolo per una società monoetnica, senza marcate differenze. Quella di domenica, in sintesi, non sarà solo una partita di calcio, ma anche il confronto tra due modelli d’Europa.