Sarajevo (foto Nicola Lux)

Due celebri personalità del mondo culturale e accademico sarajevese decidono di lasciare la città. Sullo sfondo un clima di isolamento e discriminazione nei confronti delle minoranze. La capitale bosniaca rischia di diventare monoetnica?

15/01/2007 -  Dario Terzić Mostar

I croati si sentono minacciati a Sarajevo. Sono costretti ad andare via dalla città in cui sono nati, dove hanno vissuto da sempre, anche nei giorni più brutti, quelli dell'assedio.

Dragoljub Stojanov. Esperto di economia, noto professore dell'Università di Sarajevo, ha deciso. Vado via. Mi aspettano a Rijeka. Allo stesso tempo Gertruda Munitic, solista dell'Opera di Sarajevo, dichiara: "Vado a Zagabria, a Sarajevo nessuno mi vuole".

E' un caso? Due storie, due personaggi famosi e importanti, decidono di lasciare Sarajevo nello stesso momento. Una Sarajevo multietnica... Almeno così la città viene presentata.

Il professor Stojanov ha deciso di andare via dopo una serie di malintesi, umiliazioni e, come dice lui, "giochi, messe in scena e così via". I problemi sono iniziati nel 2004, quando era stata avanzata la sua candidatura come decano. Fu scelto un suo collega che aveva meno esperienza e abilità. Ma era un bosniaco-musulmano. Poi sono arrivate altre cose, sostituzioni, perdita di posizione...

Il professor Stojanov, con un cognome che suonava macedone o russo, nessuno sapeva di che nazionalità fosse. E lui da solo non si dichiarava. Una volta gli diedero del cetnico (nazionalista serbo), e lui rispose: "Mi dispiace, sono un croato". "Quindi sei un ustasha", fu la risposta.

Gertruda Munitic era la prima cantante dell'Opera di Sarajevo. E' nata in Croazia, ma tutta la carriera l'ha fatta a Sarajevo, e così aveva deciso di non lasciare mai questa città. Durante la guerra ogni tanto usciva dall'assedio per organizzare concerti in Europa, e poi tornava a Sarajevo con aiuto umanitario. E' stata sempre molto stimata anche come pedagoga. Ma per lei, adesso, un posto a Sarajevo non c'è. E' vero, ci sono anche altri croati bravi professori e cantanti che sono riusciti a trovarsi una buona posizione nella nuova società. Sì, ma sono membri di partiti a maggioranza musulmana. Che assurdo...

I croati che hanno deciso di rimanere durante la guerra in Bosnia Erzegovina, nel territorio sotto il controllo dell'Armija BiH, ne hanno viste di tutte... Sono stati molto rispettati, all'inizio. Perché sono rimasti lì dove vivevano, perché non sono nazionalisti, perché non sono andati nella cosiddetta Herceg-Bosna e non sono diventati partigiani di Tudjman (forse la parola partigiani in questo contesto non è adattissima...)

La loro spiegazione era chiara: "Siamo rimasti qua, siamo bosniaci e rimaniamo qua... Ce ne freghiamo della politica di Tudjman, non siamo nati in Croazia. La nostra vita è qui". Hanno diviso con altri musulmani tutte le sofferenze di Sarajevo tra il 1992 e il 1996: la fame, il freddo, i bombardamenti.

Però, come capita di solito, il peggio viene dopo. La pace ha portato le nuove condizioni. Si sono perse alcune qualità di quello che vuol dire essere "una vittima". Le divisioni, e il fatto che i musulmani "hanno iniziato ad amarsi un po' di più", hanno portato difficoltà per i croati. Nella nuova Bosnia di oggi si può andare avanti lavorando per gli stranieri (per organizzazioni non governative, per l'OSCE o l'Alto Rappresentante), oppure schierarsi con un partito politico (quasi sempre della tua nazione, a volte per dei partiti cosiddetti democratici, senza prefisso nazionale).

Così, in queste condizioni, una minoranza comincia veramente a sentirsi una minoranza. Le cose che tenevano insieme - proteggersi dalle granate, trovare acqua e cibo - non ci sono più. Adesso l'imperativo è andare avanti, guadagnare bene e soddisfare i propri (a volte piccoli) interessi.

E i croati, che pure tante volte evitavano di dichiarasi tali ma si presentavano come bosniaci, sarajevesi, ecc. adesso si sentono soli, abbandonati, traditi. Nella nuova Bosnia ed Erzegovina, dopo Dayton, secondo cui hanno vinto tutti, proprio loro si sentono sconfitti. Adesso non fanno parte di niente. Se fossero andati via da Sarajevo all'inizio della guerra avrebbero evitato tutte le sofferenze e nel frattempo, in un alto posto, Herceg-Bosna o Croazia, si sarebbero rifatti una nuova vita (e forse ricca).

Ma così si sentono disorientati. Così, in questi ultimi anni, hanno dovuto imparare a vivere una vita da "liberi professionisti". E' vero, molti ci sono riusciti, lavorando per le organizzazioni non governative o facendo parte dei gruppi misti, alternativi e simili. E poi anche altri, rimasti a lavorare presso le istituzioni statali, con i soliti alti e bassi. E non dimentichiamo quelli sicuri, i membri dei partiti politici.

Ma è ancora più sicuro che che negli ultimi anni un certo numero di croati è andato via da Sarajevo, cercando un futuro migliore. E non solo loro, l'hanno fatto anche altri, serbi o figli di matrimoni misti. Ma questa volta, il fatto è che due persone molto note hanno deciso di salutare per sempre la capitale bosniaca. Questo fatto ha suscitato molto scalpore.

E adesso arrivano le polemiche. Perché è successo, cosa si deve fare... E molti puntano il dito verso Zeljko Komsic, il nuovo membro della presidenza tripartita. Si chiedono: "Cosa farà lui, come presidente e come croato, per impedire questa fuga di talenti?"