Dal 13 al 20 agosto scorso si è tenuta la 27ma edizione del Sarajevo Film Festival. Come sempre numerosi i film di qualità della regione e quest'anno tra gli ospiti di eccezione Bono Vox e Wim Wenders
Il film austriaco “Grosse Freiheit – Great Freedom” di Sebastian Meise ha vinto il Cuore di Sarajevo del 27° Sarajevo Film Festival, mentre il suo protagonista Georg Friedrich ha ricevuto il premio di migliore attore. La manifestazione si è tenuta la scorsa settimana in presenza e in parte online con la presenza anche di ospiti di rango come Bono Vox, amico del Festival fin dagli inizi, e Wim Wenders, che ha ricevuto il Cuore onorario alla carriera.
Tra i nove lungometraggi in concorso è stato insignito il film già premio della giuria della sezione Uncertain regard del recente festival di Cannes e che a Sarajevo ha ottenuto anche il premio Cicae dei cinema europei. È la storia di Hans (Franz Rogowski) incarcerato a più riprese tra il 1945 e il 1968 perché omosessuale, dopo che, per la stessa ragione, era stato rinchiuso in un campo di concentramento nazista. Con uno stile preciso e rigoroso, il regista mostra la difficile condizione dei gay in Germania in quegli anni, anche dopo la caduta del regime, mostra inoltre il disprezzo degli altri detenuti e la durezza delle guardie.
Il Cuore per la miglior regia è andato alla serba Milica Tomović per “Celti – Celts”, già presentato al Festival di Berlino. Migliori attrici sono state scelte Flaka Latifi, Era Balaj e Urate Shabani protagoniste del kosovaro “The Hill Where Lionesses Roar”, esordio di Luana Bajrami, anch'esso reduce da Cannes.
Tra i 16 documentari in lizza vittoria per “Landscapes of resistance - Pejzaži otpora” della serba Marta Popivoda. Premio speciale della giuria al bosniaco (in coproduzione con Olanda e Francia) “Looking for Horses” di Stefan Pavlović, menzione speciale al romeno “The Same Dream” di Vlad Petri e premio per i diritti umani al turco “Les enfants terribles” di Ahmet Necdet Çupur.
Nel concorso cortometraggi Cuore di Sarajevo, nonché qualificazione per gli Oscar, al franco-croato “Everything Ahead” di Mate Ugrin e menzione a “Displaced” del kosovaro Samir Karahoda; nel concorso per i corti degli studenti delle scuole di cinema vittoria per il romeno Alexandru Mironescu con “Summer Planning”.
Il premio Cineuropa tra i lungometraggi in gara è stato assegnato al greco “Moon, 66 Questions” di Jacqueline Lentzou. Ancora Kosovo per il neonato premio speciale per promuovere la parità di genere andato a “Looking for Venera” di Norika Sefa, con menzione al bel “Playground” della belga Laura Wandel.
“Looking for Venera” si svolge in un villaggio tra le montagne e ha per protagonista l'adolescente Venera, che vive con genitori, i fratellini e nonna. All'inizio vede per caso, al ritorno da scuola, la sua migliore amica Dorina appartata in un bosco con un ragazzo. Quest'ultima è sicura di sé, frequenta dei ragazzi, ha “avventure”, vive tranquillamente e liberamente la propria sessualità. Venera è più timida, taciturna e impacciata, ma è anch'ella moderna, aperta e diversa dalle adulte. Insieme parlano delle differenze rispetto alle loro madri; in particolare la madre di Venera è remissiva, rinunciataria e insoddisfatta, rispetto a un marito prepotente e dispotico. Le due amiche frequentano un corso di inglese, ma si ritrovano in un bar e si organizzano per andare a un concerto, superando i limiti posti dalle famiglie. “Looking For Venera” racconta la ricerca di se stessa, la presa di consapevolezza e la trasformazione di una ragazza. È buono il lavoro di regia che fa sentire quasi claustrofobici gli spazi dove vivono le ragazze, come la casa della protagonista dove si sta molto vicini e non si riesce a ritagliarsi uno spazio da soli. Si sente il peso dei legami sociali molto stretti (anche se non sempre chiari, si fatica a capire chi è chi), si sente il peso della società e delle sue regole, con i ragazzi esuberanti, gli adulti che si intromettono e le famiglie che vogliono decidere i matrimoni. Il contrasto tra una società tradizionale e molto strutturata e due giovani protagoniste che vogliono, in maniere diverse, liberarsi di questi lacci è ben reso e non in maniera dimostrativa, bensì facendolo emergere dalle azioni delle ragazze.
È interessante anche il montenegrino “The Elegy of Laurel – Elegija lovora” di Dušan Kasalica. Filip e Katarina sono una coppia ultracinquantenne arrivata in un grande albergo per qualche giorno di vacanza che dovrebbe servire a lui, professore di storia stressato, di riprendersi un po'. La coppia fa piccole cose, passeggiate, cene, feste, bagni in piscina, trattamenti, esercizi fisici, ma i due parlano poco. All'improvviso, la donna parte prima della fine del soggiorno programmato, vuole chiudere la relazione che non la soddisfa più. Rimasto solo, dapprima Filip prosegue la permanenza, poi parte e, dopo un passaggio a lezione, si dirige in montagna nei luoghi della famiglia che non frequenta da tempo. Il film inizia con una sensazione di straniamento con una musica che stride con l'immagine delle montagne attraverso un curioso foro. Lo straniamento, prodotto anche dai suoni, è il filo che lo attraversa in una successione di fatti che dalla realtà sembrano passare nella sfera della fantasia, tra miti greci (di cui parla al telefono con la figlia Jovana), capre magiche e serpenti che si tramutano in ragazze. Una pellicola quasi divisa in due, tra i grandi spazi di un albergo gigantesco e anonimo e i boschi e i pascoli dei monti. Kasalica racconta in maniera singolare il disagio esistenziale di Filip, che ha perso l'orientamento e i riferimenti e stenta a ritrovarli. Anche il ritorno alla famiglia e ai luoghi dell'infanzia forse non è sufficiente a riportarlo indietro da una vita troppo autocentrata.
Come di consueto la sezione In Focus del Festival ha riunito fuori concorso i film dell'area già passati (e spesso premiati) in altri festival. Tra questi il romeno “Sesso sfortunato o follie porno - Babardeală cu bucluc sau porno balamuc” del romeno Radu Jude, vincitore dell'Orso d'oro a Berlino, e altri bei lavori reduci sempre della Berlinale: il georgiano “What do we see when we look at the sky” di Alexandre Koberidze, il serbo “Oasis – Oaza” di Ivan Ikić e il delizioso bosniaco “The White Fortress – Tabija” di Igor Drljaca.
Molto atteso era “Hive – Zgjoi” di Blerta Basholli, che era stato presentato in prima mondiale all'americano Sundance Festival, punta del cinema kosovaro che sta vivendo un periodo particolarmente felice. Un film d'esordio ambientato nel Kosovo post guerra, a partire da storie vere. Siamo nel villaggio di Krushë e Madhe (chiamato Velika Kruša in serbo e posto tra Đakovica e Prizren), che il 25 marzo 1999 fu sede di un massacro e alcune centinaia di uomini furono uccisi o scomparvero. Fahrije vive con il suocero Haxhi e due figli, continuando l'attività di apicoltura (da qui il titolo) del marito Agim scomparso quel giorno. La donna continua a cercare il coniuge, non a caso il film inizia con Fahrije che cerca tra i resti dei ritrovati, quasi come “Martesa – The Marriage” (2017) di Blerta Zeqiri, uno dei capisaldi del nuovo cinema kosovaro. Siamo in un mondo quasi fermo e congelato, nell'attesa o nel ricordo degli scomparsi. Un'associazione di donne, oltre a distribuire aiuti, organizza corsi per ottenere la patente di guida e avere più possibilità di trovare un lavoro in una zona che offre poco. La protagonista si dà da fare, coglie l'opportunità, ma nel villaggio si sparla di lei e qualcuno le manda in frantumi il finestrino dell'auto. Fahrije si fa promotrice di un'iniziativa per produrre ajvar da vendere in un supermercato interessato al prodotto. Ancora le donne devono subire vandalismi, ma tra loro c'è solidarietà, mentre i maschi sono bambini, vecchi o per lo più descritti come “cattivi”, in particolare quelli che stanno al bar nel centro del paese. “Hive” è la storia di una donna tra il dolore per la perdita e l'assenza del marito e la determinazione a continuare, per i figli e per se stessa, in una realtà difficile per mille motivi e soprattutto per le donne. Il personaggio non induce in autocommiserazioni, parla poco e agisce (e reagisce), mentre il film indulge nel vittimismo. Ci si trova davanti a uno “Snijeg”, l'ottimo film della bosniaca Aida Begić, ma in minore. Meno compatto e riuscito, filmato tutto con camera a mano per dare un'impressione di realismo ma con una regia meno coerente e precisa rispetto alla collega di Sarajevo, che è uno dei migliori talenti (e purtroppo di pochi film) del cinema dell'ex Jugoslavia. Basholli vuole realizzare un'opera dichiaratamente femminista e in questo perde un po' di vista la storia e la appesantisce con qualche ripetizione.
In Focus anche “Sanremo” di Miroslav Mandić, coproduzione Italia – Slovenia. Si inizia nella nebbia, simbolo della mente confusa del protagonista, con l'anziano Bruno che a un incrocio cerca la strada per tornare a casa. Riesce a farsi accompagnare in bicicletta da una ragazza, ma la memoria non lo conduce alla casa con la betulla nel cortile e il cane Rexy. Nella realtà l'uomo è fuggito dalla casa di riposo. Tornato in stanza osserva un'ospite che va sempre a bagnarsi sotto il sistema di irrigazione del prato. Un po' casualmente, un giorno si mettono a parlare, si capiscono, fanno una passeggiata in giardino, giocano, lei canta “Non ho l'età” e parlano delle vecchie canzoni del Festival di Sanremo. È un incontro tra assurdità, fraintendimenti e demenza senile, tra ricordi confusi e un tentativo di dare senso alle giornate. Mandić cerca di accendere una piccola luce in un mondo grigio che tende a sfumare e ci riesce con una certa dolcezza ed empatia con i protagonisti.