La settima edizione del festival di cinema documentario "Al Jazeera Documentary Festival", svolta a Sarajevo, ha messo a fuoco il tema della giustizia che manca, con un occhio di riguardo a quanto sta accadendo in Palestina e nei Balcani
Si è svolta a settembre a Sarajevo la settima edizione di “Al Jazeera Balkans Documentary Festiva l”: cinque giorni intensi di proiezioni, presentazioni, dibattiti, masterclass e una importante sezione industry dedicata ai work in progress.
Il festival, organizzato dalla emittente tv Al Jazeera Balkans, negli anni sta diventando sempre più punto di riferimento per il cinema documentario, sia per chi lo fa sia per chi ne fruisce, trovando sempre più una propria identità distinta dallo storico Sarajevo Film Festival. E la città ha indubitabilmente risposto riempiendo le sale, sempre esaurite.
Durante la presentazione, svoltasi nel simbolico Bosanski Kulturni Centar, ex tempio ebraico, ora centro culturale bosniaco, il direttore del festival Edhem Fočo si è rivolto al pubblico, sottolineando che il tema di quest'anno "Giustizia?" è presente in tutti i film e negli eventi collaterali.
"Il fatto inquietante – ha affermato Fočo - è che il mondo è rimasto in silenzio, osservando tutto ciò che accadeva a Gaza o schierandosi apertamente con l'oppressore o con coloro che commettevano ingiustizia. La scarsa rappresentazione di questo argomento ci ha portato naturalmente a concentrarci sui film che ritraggono le ingiustizie subite dai palestinesi da decenni".
Il documentario di apertura “Where the Olive Trees Weep ”, diretto da Zaya e Maurizio Benazzo, sulle lotte e la resilienza dei palestinesi che vivono in Cisgiordania, si è aggiudicato il premio del pubblico.
Il film esplora i temi della perdita, del trauma e della ricerca della giustizia, attraverso alcune testimonianze potenti quali quella della giornalista e terapeuta Ashira Darwish, presenza davvero magnetica, che dopo la proiezione ha dialogato con un pubblico di Sarajevo visibilmente commosso e inevitabilmente partecipe dei drammi rappresentati.
“Quello che succede a Gaza – ha detto - è molto traumatizzante per chiunque del pubblico in questa sala, o per chiunque abbia vissuto la guerra. Ogni immagine che vedete alla televisione di quello che sta succedendo a Gaza risveglierà il vostro trauma personale, toccherà gli umori non solo delle persone della diaspora o dei rifugiati, ma di tutti in tutto il mondo, non è necessario essere palestinese”, ha affermato Darwish .
“Ti lascia cicatrici aperte perché è qualcosa che il tuo corpo ha già sperimentato. E di solito in Occidente cercano di porre rimedio a questo con farmaci e medicazioni invece di dirti che c’è un problema collettivo, che sei tu che porti la giustizia ai palestinesi, e che loro guariranno il trauma se tutti noi otterremo giustizia”, ha concluso la giornalista.
Il premio per il miglior film (AJB DOC Main Award) è andato a "Smiling Georgia " di Luka Beradze. Si tratta di una storia sui costi delle mezze verità raccontate dai politici e sulle false promesse che fanno per mantenere il potere.
"Questo film affronta il tema della giustizia in modo artistico, cinematografico e poetico. Attraverso la bellezza di un sorriso sdentato, l'autore racconta una storia universale di persone comuni, abbandonate e dimenticate dai politici che non si preoccupano dei loro problemi. Ciò accade in un mondo che considera l'assistenza sanitaria un privilegio per la maggior parte delle persone", ha aggiunto la giuria, spiegando la propria decisione.
Il premio della giuria di Al Jazeera Balkans è andato a José Carlos Soares, Tanju Şahin e Aslıhan Eker Çakmak per il documentario d’inchiesta della tv turca TRT world "Holy Redemption ", incentrato sulle strategie dei coloni israeliani per sottrarre sistematicamente le terre private ai palestinesi di West Bank e di conseguenza sfollarli.
“Praying for Armageddon ”, di Tonje Hessen Schei e Michael Rowley, indaga le pericolose conseguenze della fusione tra cristianesimo evangelico e politica estera americana. La situazione di instabilità in Israele e Palestina viene vista come possibile segnale di una auspicata apocalisse dal momento che Gesù, secondo il pastore Burd, ci chiede di combattere.
In “Israelism ” di Erin Axelman e Sam Eilertsen assistiamo alla storia di due ragazzi ebrei statunitensi che dopo aver interiorizzato acriticamente una serie di valori nazionalistici intraprendono un percorso di riflessione che li porterà ad unirsi al movimento dei giovani ebrei americani che combattono la vecchia guardia sul tema della centralità di Israele nell'ebraismo americano.
Tra i film ambientati nei Balcani segnaliamo due titoli che ci illuminano su alcuni dei drammi e delle contraddizioni che li attraversano. “Oprosti nam dugove naše ” (Forgive us our Debts) di Sergej Kreso, è un documentario intimo e toccante che ci svela una Mostar contemporanea dove le ferite della guerra si sono trasformate nel disagio del vivere il quotidiano.
Per questo molti hanno cercato e continuano a cercare nel gioco d’azzardo una via d’uscita dai propri drammi personali, finendo inevitabilmente per aggravare la propria condizione. “Il nostro paese è al primo posto quando si tratta di avere più case scommesse che chiese e moschee – si dice nel film – e se in guerra un uomo poteva essere anche tuo fratello, ora in pace è un lupo”.
“Snajka: Dnevnik očekivanja “ (Snajka: Diary of Expectations), di Tea Vidović Dalipi, è un documentario osservazionale sulla coppia croato-rom Tea e Mirsad, la loro figlia Frida e il tentativo di una vita insieme, tra le pressanti aspettative delle rispettive famiglie e i compromessi che entrambi sono disposti a fare.
Il film smaschera una serie di rituali familiari, stereotipi tradizionali, persino razzismo culturale, in mezzo ai quali due persone innamorate cercano di trovare la giusta misura tra il soddisfare l'immagine che di loro hanno i loro genitori e la necessità di rimanere fedeli a se stessi e vivere secondo i propri valori.
La maggior parte delle proiezioni si sono svolte come di consueto al Multisala Cineplexx di Zmaja od Bosne mentre la sezione Industry, dedicata ai work in progress, ha avuto luogo nel celebre Kamerni Teatar 55. Per quanto riguarda quest’ultima sono stati presentati 29 progetti, in competizione per premi di coproduzione e in denaro per oltre 120mila euro messi in palio da Al Jazeera Documentary Channel, Al Jazeera Balkans e altri partner.
Tra i progetti vincitori di premi segnaliamo “Big in Gazi Baba” di Pauline Blanchet (main pitch coproduction award), un film che attraverso una storia privata parla di nazionalismi e di ruoli di genere. Il documentario narra la vicenda della quattordicenne Sadije, da tre anni parte della squadra maschile di wrestling dopo che il manager del club, Ahmed, l'ha scoperta mentre picchiava i ragazzi per le strade di “Gazi Baba”, il quartiere albanese popoloso e segregato della città di Skopje.
Prima ed unica ragazza nel suo club di wrestling, Sadije rappresenta la Macedonia del Nord a livello internazionale, ma come molti giovani della minoranza albanese, non parla macedone. Nella sua comunità conservatrice, inoltre, non c'è altro modo per lei di essere accettata come lottatrice se non assumendo il ruolo di “figlio” e quindi di capofamiglia, come vuole la tradizione nelle famiglie prive di maschi.
Altro progetto che ha avuto riconoscimenti è “32 Meters” di Morteza Atabaki. In un villaggio nella Turchia meridionale, noto per la produzione di armi e fucili da caccia, Halime, una donna di mezza età, decide di sfidare le tradizioni della propria comunità, avviando una gara di tiro esclusivamente per donne. Con il sapiente uso di un linguaggio ironico la regista riesce a imbastire una storia di emancipazione femminile davvero poco convenzionale.
Tra i work in progress in concorso c’era anche un interessante progetto italiano, “Dom” di Massimiliano Battistella. Mirela è una quarantenne bosniaca che vive a Rimini e che decide di tornare a Sarajevo dopo 30 anni per riconnettere i frammenti di un’esistenza spezzata.
In particolare andrà a visitare l'orfanotrofio Dom Bjelave dove è cresciuta fino all'età di 10 anni, prima di arrivare in Italia con altri bambini in seguito allo scoppio della guerra in Bosnia. Nonostante la gioia del ricongiungimento con i propri amici, Mirela prova un inaspettato senso di colpa per aver lasciato il suo "Dom" (casa in bosniaco).