In attesa delle elezioni di ottobre l'HDZ della Bosnia Erzegovina sta conducendo una politica sempre più aggressiva volta a rafforzare il principio etno-territoriale a favore della comunità croato-erzegovese
Il 13 febbraio scorso, durante il carnevale dei bambini di Livno, cittadina della Bosnia occidentale, è stato bruciato un fantoccio con le fattezze di Carmel Agius, il giudice del Tribunale dell’Aja che ha presieduto la nota sentenza contro gli ufficiali erzegovesi (culminata con il suicidio in mondovisione di Slobodan Praljak). Stessa sorte è toccata al fantoccio di Agius a Čapljina , la cittadina che diede i natali a Praljak, in Erzegovina meridionale. Sempre al carnevale di Čapljina, alcuni giovani hanno inscenato un funerale con rito musulmano e figuranti vestiti da partigiani comunisti per un tale “Zeljko K.”, un ovvio riferimento a Željko Komšić, l’ex-rappresentante croato della presidenza bosniaca, visto con aperta ostilità dai nazionalisti croato-erzegovesi.
Non è questa la sede per esaminare i confini tra satira, libertà di espressione, incitamento all’odio etnico e politicizzazione dell’infanzia in un contesto delicato come la Bosnia Erzegovina odierna. Ciò che conta è che questi episodi indicano un clima di forte mobilitazione identitaria nelle aree a maggioranza croata del paese, fomentata dalla linea sempre più radicale dell’HDZ (Comunità Democratica Croata, conservatore-nazionalista), partito egemone in queste aree dal dopoguerra e ben inserito nelle maggioranze di governo dello stato e della Federazione di BiH, una delle due entità del paese.
L’HDZ sta conducendo una politica sempre più aggressiva su diverse questioni cruciali per l’assetto statale, prima tra tutte la proposta di legge elettorale per presidenza e parlamento in un senso che rafforza il principio etnico-territoriale favorevole alla comunità croato-erzegovese, ma anche la richiesta di apertura di un canale TV pubblico croato con sede a Mostar. Sono proposte che vengono continuamente giustificate con la presunta sotto-rappresentazione dei croati nell’attuale sistema pubblico, che aggraverebbe la loro condizione di inferiorità demografica rispetto agli altri due popoli costituenti. Se negli anni scorsi i leader dell’HDZ avevano ancora qualche esitazione nel rivendicare una “terza entità” croata nel sud del paese, oggi l’hanno ormai sdoganato come obiettivo desiderabile e realizzabile .
Čović – Dodik, asse croato-serbo
L’accelerazione dell’HDZ coincide con uno degli elementi più rilevanti della politica bosniaca recente, ovvero l’asse strategico tra nazionalisti croati e serbi, incarnato dalla sinergia tra Dragan Čović (rappresentante croato nella presidenza statale e leader incontrastato dell’HDZ) e Milorad Dodik, il (presidente della Republika Srpska e leader dell’SNSD). I due hanno stretto un fronte comune contro le istituzioni di Sarajevo e il leader bosgnacco Izetbegović, a sua volta sempre più incapace di fornire una posizione pro-bosniaca inclusiva e coerente.
Čović e Dodik nel recente passato hanno sostenuto le reciproche ambizioni autonomiste con risvolti talvolta sorprendenti, talvolta andando contro le posizioni tradizionali. Per esempio, l’HDZ ha votato in parlamento a favore della neutralità della Republika Srpska e contro i progressi dell’integrazione NATO (nonostante la consolidata tradizione atlantista della cosiddetta “madrepatria” di Zagabria, membro dell’alleanza dal 2009).
Quando nell’aprile scorso vi fu uno scontro molto acceso tra Dodik e il vescovo cattolico di Banja Luka Franjo Komarica, con quest’ultimo che denunciò la presunta discriminazione dei croati in Republika Srpska e le responsabilità del governo dell’entità, Čović prese di fatto le difese di Dodik. Quando Ratko Mladić, autore di crimini di guerra anche contro i civili croati, è stato condannato all’Aja, Čović non ha detto una parola pur di non mettere in difficoltà il suo alleato. Quando si è votato per il canale TV a Mostar, Dodik non ha fatto mancare il suo sostegno a Čović.
L’avvicinarsi delle elezioni del prossimo ottobre, un elemento che tradizionalmente accentua le narrazioni identitarie, ha inasprito le tensioni dialettiche con gli avversari. Il 4 febbraio scorso Bakir Izetbegović ha dichiarato che una terza entità non si può ottenere “senza un conflitto e una guerra”, perché sarebbe “quella linea che non sono riusciti a tracciare nel ’93 [l’anno della guerra croato-musulmana]”.
Queste parole, pronunciate in un noto programma della TV pubblica di Croazia, hanno creato scalpore nell’intera regione post-jugoslava. Il giorno dopo, Dragan Čović ha replicato : “Oggi parlare di stato civico in Bosnia Erzegovina significa parlare, in qualche modo, di classico unitarismo. E questo significa in sostanza un paese islamico, che poi qualcuno trasformerebbe in califfato”.
Questo sillogismo maldestro ha scatenato indignazione tra politici e intellettuali pro-bosniaci e progressisti a Sarajevo e nel resto della regione. Čović ha poi cercato di minimizzare dicendo di essere stato malinterpretato. Ma negli stessi giorni esponenti del suo partito nell’assemblea del Cantone 10 (Bosnia sud-occidentale) approvavano una dichiarazione dai contenuti ancora più confusi e paranoici, che metteva insieme la sentenza dell’Aja, l’aspirazione a un “califfato bosgnacco islamico nel cuore dell’Europa” e i carri armati jugo-comunisti dei primi anni Novanta.
La sentenza Ljubić e i rompicapi dell’etnopolitica
Ormai più di un anno fa, nel dicembre 2016, la Corte costituzionale bosniaca emise una sentenza che inizialmente passò inosservata, ma che con il passare dei mesi ha ricevuto ampia attenzione per il suo uso politico e i potenziali effetti di paralisi sul sistema istituzionale. Si tratta della “sentenza Ljubić”, dal nome del ricorrente Božo Ljubić, un navigato politico nazionalista croato-bosniaco vicino all’HDZ. Accogliendo parte delle argomentazioni di Ljubić, la Corte dichiarò incostituzionali alcuni passi della legge elettorale che regola la Camera dei Popoli della Federazione di BiH, Quest’organo è il secondo ramo del parlamento dell’entità federale, a elezione indiretta essendo composto da 58 deputati che vengono eletti dalle dieci assemblee cantonali, con criterio proporzionale alla dimensione demografica (dunque ogni cantone elegge tra i 3 e gli 11 rappresentanti) e alla composizione etnica, ma originariamente con il principio che ognuno dei cantoni doveva eleggere almeno un rappresentante per ogni popolo costituente (1 bosgnacco, 1 serbo, 1 croato). La sentenza Ljubić, invece, ha derogato quest’ultima norma, stabilendo che le distribuzioni dei seggi possono essere ricalcolate senza la necessità di rispettare la formula minima 1-1-1.
In seguito alla sentenza Ljubić, l’HDZ ha proposto una nuova legge elettorale che concentri i rappresentanti croati eletti nei cantoni in cui la popolazione croata è maggioranza (principalmente in Erzegovina-Neretva) sottraendoli a quelli in cui è minoranza (Sarajevo, Una-Sana, Goražde). È un cambiamento in apparenza sottile giacché nei fatti, come spiega questo dettagliato rapporto dell’European Stability Initiative, sarebbero solo 3 o 4 seggi sui 17 riservati ai croati - e dei 58 totali - a “ballare” da un modello all’altro, tenendo anche conto dei necessari ricalcoli dovuti al censimento del 2013.
Questo cambiamento, però, sarebbe decisivo per due motivi. Primo, perché l’Erzegovina è da sempre il bastione elettorale dell’HDZ. La concentrazione di seggi in quella regione, unita agli ampi poteri di veto attribuiti ai club etno-nazionali e alla tradizionale prassi consociativa, garantirebbero al partito di Čović una centralità assoluta e duratura nella Camera dei Popoli della Federazione e, di conseguenza nella Camera dei Popoli statale (che è, a sua volta, eletta dai membri della Camera dei Popoli della Federazione).
Secondo, perché questa riforma introdurrebbe un principio fondamentale, quello secondo cui la rappresentanza etnica coincide con la concentrazione etnica in un territorio. Un criterio molto caro all’HDZ che da anni pretende di applicarlo, come si dirà più avanti, anche per l’elezione della presidenza statale. In altri termini, come sostengono diversi analisti, l’HDZ acconsentirebbe a creare croati “di primo grado”, quelli dei cantoni dell’Erzegovina centrale e occidentale, e “di secondo grado”, residenti nei cantoni in cui si trovano a essere nettamente minoranza in termini relativi, ma comunque non trascurabili in termini assoluti, come i circa 17.000 croati di Sarajevo e i 5.000 dell’Una-Sana che non potrebbero quindi eleggere un proprio rappresentante, né presentarsi alle elezioni della camera alta.
Mostarizzazione e internazionalizzazione
Negli ultimi mesi l’HDZ ha fatto della sentenza Ljubić una ragione di stato, avvertendo che la mancata riforma porterebbe a ricorsi, al mancato riconoscimento e all’invalidazione delle elezioni di ottobre, pertanto alla paralisi della Camera dei Popoli della Federazione, cosa che impedirebbe a sua volta la formazione del parlamento statale e bloccherebbe l’intero arco istituzionale del paese.
Finora i partiti politici non hanno raggiunto alcun accordo per risolvere la questione in sede parlamentare, e pare difficile che questo possa succedere entro l’8 maggio, ultima data utile prima della convocazione delle elezioni di ottobre. La patata bollente a quel punto passerà alla Commissione elettorale statale, che dovrebbe provvedere ad applicare il ricalcolo con un proprio criterio, il quale però potrebbe esporsi a nuovi ricorsi di incostituzionalità.
Si ricomincerebbe dunque da capo con il rischio paralisi, che nel contesto bosniaco ha già un nome molto preciso. Mostarizacija, cioè mostarizzazione, la riproposizione a livello statale della situazione di Mostar, in cui dal 2008 non si tengono le elezioni municipali per l’assenza di un accordo sulla legge elettorale, così la città vive da quasi dieci anni con la stessa amministrazione e senza un consiglio comunale, una “sospensione” che aumenta la disfunzione delle istituzioni e la segregazione etnica.
I nazionalisti croati stanno cercando in ogni modo di internazionalizzare la questione, per ora con scarsi risultati. Lo scorso 1 febbraio Dragan Čović e gli altri due membri della presidenza collettiva, il bosgnacco Izetbegović e il serbo Ivanić, si sono recati a Bruxelles per incontrare l’alto rappresentante UE Federica Mogherini e Joseph Daul, presidente del PPE (partito europeo a cui afferiscono tutti i tre leader). Mentre Čović ha commentato l’evento con entusiasmo, dichiarandosi fiducioso per il coinvolgimento della comunità internazionale che aiuterà a raggiungere un accordo, non sono arrivati messaggi in questo senso né da Bruxelles né, men che meno, dai suoi due omologhi bosniaci, che si sono mostrati anzi scettici.
Nel frattempo, l’attivismo dell’HDZ bosniaco-erzegovese continua a trovare sponde dalla Croazia. Lo scorso gennaio, la presidentessa croata Grabar-Kitarović aveva effettuato una visita-lampo , e un po’ a sorpresa, a Recep Tayyip Erdoğan con il solo scopo di chiedere al presidente turco di intercedere presso i leader bosgnacchi (che, come è noto, hanno uno stretto rapporto di sudditanza verso Ankara) affinché accettassero la riforma elettorale richiesta dall’HDZ. Molti analisti concordano che la visita sia stata infruttuosa per la Grabar-Kitarović, poiché Erdoğan ha risposto picche, affermando che il sistema elettorale è “affare interno” bosniaco. Inoltre Zagabria, con questa interpretazione del ruolo proprio e di Ankara, non ha fatto altro che ravvivare un’immagine di tutoraggio verso la Bosnia Erzegovina, un atteggiamento paternalista che alimenta solo ulteriori frustrazioni e allontana una risoluzione stabile dei problemi.
Ljubić contro Komšić. Chi rappresenta chi?
L’impressione diffusa è che l’HDZ stia utilizzando la sentenza Ljubić per tenere in scacco i partiti avversari e forzare quella che è da anni la sua richiesta cardinale, ovvero la riforma dell’elezione per la presidenza statale. L’HDZ sostiene infatti la creazione di distretti separati su base etnica per il voto dei membri croato e bosgnacco della presidenza, lamentando che, nel sistema attuale in cui i due rappresentanti sono eletti senza distinzioni dall’intera Federazione di BiH abitata da circa il 70% di bosgnacchi e dal 22% di croati, i primi influirebbero sull’elezione di entrambi i membri. Nel discorso tipico dell’HDZ, l’esempio supremo di questa “illegittimità” della rappresentanza sarebbe il caso di Željko Komšić, croato di Sarajevo espressione dei partiti civici, che vinse le presidenziali del 2006 e del 2010 (e che, per inciso, pare intenzionato a ripresentarsi nel 2018) sconfiggendo i candidati nazionalisti “grazie ai voti dei bosgnacchi”.
Tuttavia è facile notare che la proposta dell’HDZ approfondirebbe le discriminazioni, anzitutto tra i croati stessi, perché solo a quelli della “zona A” a maggioranza croata verrebbe riconosciuto il diritto di voto, mentre quelli della zona B (a maggioranza bosgnacca) e C (mista) finirebbero emarginati. Inoltre rimarrebbe esclusa, così come lo è oggi, la minoranza croata in Republika Srpska.
Secondo il sociologo Slavko Kukić, intervistato da Slobodna Evropa , la distorsione sarebbe tale che “solo un candidato dell’Erzegovina occidentale potrà essere eletto presidente”, con un meccanismo il cui fine è assicurare una comoda rendita di potere alla leadership dell’HDZ. Così si mantiene, secondo Kukić, un livello di destabilizzazione permanente che legittimerebbe le continue richieste di obiettivi irraggiungibili che creano consenso (quali, appunto, la terza entità). Sarebbe un nuovo passo verso quello che un rapporto pubblicato dalla Fondazione Heinrich Böll molto duro nei confronti della linea dell’HDZ, ha efficacemente definito il sistema dei “partiti costituenti”, al posto di quello delle “nazioni costituenti” sancito dalla costituzione del 1995.
Da qui a ottobre, prevedibilmente terrà banco questo desolante panorama di ingegneria elettorale e sofisticherie strategiche, offuscando i problemi sociali ed economici. Nel frattempo fa riflettere, e un po’ sorridere, questa straordinaria battuta involontaria pronunciata poco tempo fa. “Se oggi Josip Broz Tito si alzasse dalla tomba, vincerebbe le elezioni in Bosnia Erzegovina. E non potreste dire alla gente ‘Ah no, ascoltate, non è un croato vero, non potete votare per lui’”, parole pronunciate da Bakir Izetbegović, un anticomunista di ferro, mentre parlava della legge elettorale bosniaca alla TV croata. Forse non si era mai ascoltata una così sincera auto-ammissione di fallimento della classe etno-politica e delle gabbie identitarie che questa ha costruito in quasi trent’anni di lavoro.