Sarajevo

Sarajevo - Emanuele Mei

In Bosnia Erzegovina gli obiettivi della strategia nazionale adottata nel 2008 per portare a processo i responsabili di crimini di guerra non saranno raggiunti. Scoppia la polemica sul lavoro della giustizia bosniaca e l'OSCE chiede di "verificare il lavoro del procuratore"

25/09/2015 -  Rodolfo Toé Sarajevo

La strada per la giustizia nei confronti dei criminali di guerra sembra essere ancora lunga, in Bosnia Erzegovina. Sono passati sette anni ormai da quando le autorità di Sarajevo hanno adottato una strategia nazionale per gestire localmente i processi sui crimini di guerra. Il documento era stato un tentativo di razionalizzare il lavoro delle procure e dei tribunali bosniaci, oltre che di accelerare i tempi della giustizia. Ormai, però, nessuno sembra più disposto a credere alla sua attuazione.

Fino al 2008, gli organi giudiziari del paese (suddivisi negli innumerevoli livelli amministrativi ormai noti: quello centrale, delle entità, del distretto di Brčko e dei cantoni) avevano lavorato sostanzialmente con modalità autonome, provocando una notevole confusione amministrativa e appesantendo i procedimenti. Il documento imponeva una strategia chiara, resa necessaria - peraltro - anche dagli auspici dello stesso Tribunale Penale Internazionale dell'Aia, il quale ha sempre sottolineato come fosse necessario che le singole procure nazionali si occupassero sempre più di processare autonomamente i sospettati di crimini di guerra, in vista della propria chiusura più o meno imminente.

In quel momento, secondo quanto scrive la ricercatrice Lara J. Nettelfield nel suo libro Courting Democracy in Bosnia and Herzegovina i casi pendenti erano circa 5.895, mentre altri 1.285 erano i fascicoli aperti sui quali la procura stava ancora investigando. La "Strategia nazionale" razionalizzava il sistema giudiziario e poneva degli obiettivi che, scrive la stessa Nettelfield, "le autorità locali accettarono pur rimanendo estremamente scettiche sulla loro effettiva capacità di raggiungerli". Si trattava, nel dettaglio, di concludere tutti i processi "entro 15 anni" (ovvero, entro il 2023), e di terminare quelli considerati "prioritari" (ovvero i processi ad alti funzionari dello stato, così come quelli dei sospettati rinviati dall'Aia di fronte alla giustizia di Sarajevo) entro il 2015.

Un bilancio sconfortante

Alla fine del 2015 mancano soltanto pochi mesi e, nella capitale, non c'è nessuno che creda ancora realisticamente alla possibilità di raggiungere questo obiettivo. "Ovviamente non saremo in grado di farcela", ha dichiarato nello scorso maggio il capo del dipartimento della Procura bosniaca che si occupa dei crimini di guerra, Gordana Tadić, al sito Balkan Insight. "Stiamo già chiedendo che si lavori a una nuova scadenza, che dovrebbe essere fissata quanto meno a tre anni da adesso. Purtroppo la nostra priorità negli ultimi anni sono stati gli otto casi che il TPI ha rinviato a giudizio in Bosnia Erzegovina", si è giustificata, aggiungendo che "questi, ad ogni modo, sono quasi terminati".

Secondo i dati pubblicati dalle autorità di Bosnia Erzegovina alla fine dell'anno scorso, sono circa seicento i processi tuttora in corso per crimini di guerra contro degli indiziati concreti, ma sono molti di più i dossier aperti per i quali non ci sono ancora sospettati. Un bilancio sconfortante, e questo nonostante negli ultimi anni la procura e il tribunale abbiano notevolmente aumentato il numero dei propri collaboratori.

Il problema, in effetti, non sembrano essere le risorse. Ne è convinto anche lo stesso procuratore capo del TPI, Serge Brammertz, che mesi fa davanti al Consiglio di Sicurezza dell'ONU criticava il fatto che "gli uffici del Procuratore di Bosnia Erzegovina non sembrano seriamente intenzionati a punire gli autori di crimini di guerra. L'implementazione della Strategia nazionale è stata seriamente rallentata e moltissimi procedimenti devono ancora iniziare. Questo ritardo", concludeva Brammertz, "riflette la mancanza di volontà, da parte delle istituzioni che ne sono responsabili, di rendere una priorità le investigazioni".

Le critiche e il braccio di ferro con l'OSCE

Complici il caso di Naser Orić e le velleità referendarie del Presidente della Republika Srpska Milorad Dodik, il tema della prosecuzione dei criminali di guerra in Bosnia Erzegovina è tornato a catturare recentemente l'attenzione dell'opinione pubblica. Oltre alle accuse di manifesta inefficienza già citate, ci sono state anche le lamentele ormai note contro una giustizia tacciata di parzialità soprattutto dalle associazioni delle vittime serbe, che a più riprese hanno denunciato il fatto che le proprie accuse e le evidenze presentate non abbiano mai avuto alcun seguito. "La Procura di Bosnia Erzegovina ha un'attitudine discriminatoria nei confronti dei crimini subiti dai serbi", è soltanto la dichiarazione più recente in questo senso, rilasciata da Milutin Mišić, membro del Comitato di consultazione dell'Istituto di Bosnia Erzegovina per le persone scomparse (MPI): le autorità di Sarajevo, continua Mišić, "ostruirebbero qualunque inchiesta" in questo senso.

In questo contesto è arrivata la notizia, un po' a sorpresa, della richiesta della missione dell'OSCE in Bosnia Erzegovina di condurre un'indagine indipendente sulle attività della Procura bosniaca, affidandola alla giurista Joanna Corner. L'OSCE ha richiesto alla procura di avere libero accesso alla documentazione relativa ai casi di crimini di guerra ancora in esame, scatenando in un primo momento la reazione indignata delle istituzioni bosniache, che hanno loro opposto un niet risoluto, con il pretesto di difendere la sovranità del paese.

"L'idea che un'organizzazione internazionale possa ficcare il naso nel lavoro delle corti nazionali di un paese sarebbe totalmente impensabile in qualsiasi democrazia europea", è stato l'ammonimento che il giurista Goran Šimić ha dato ai microfoni di Aljazeera Balkans. Šimić ha riconosciuto che la Procura di BiH non lavora adeguatamente, e che le istituzioni bosniache possano essere migliorate: "La comunità internazionale e l'OSCE dovrebbero spingere le autorità bosniache a impiegare persone più qualificate e competenti, invece degli attuali procuratori, evidentemente non adeguati e spesso scelti sulla base di considerazioni e di legami personali". Ma le questioni fondamentali, sintetizza Šimić, devono rimanere di competenza delle istituzioni senza ingerenze della Comunità Internazionale.

La sua posizione non è priva di ragioni, ed è stata subito condivisa da numerosi opinionisti bosniaci, i quali evidentemente reputano uno smacco per il proprio paese il fatto che la supervisione internazionale si renda ancora necessaria a due decenni dalla fine della guerra. L'OSCE ha, dal canto suo, ricordato che il monitoraggio e l'assistenza alle istituzioni locali rientrano nel proprio mandato e che "non c'è nulla di strano, visto che tale supervisione dura fin dal 2005". L'organizzazione ha, alla fine, piegato la resistenza delle autorità bosniache e ottenuto il permesso di condurre le proprie valutazioni. "La collaborazione tra la nostra organizzazione e la Corte di Bosnia Erzegovina è la chiave verso il successo", ha dichiarato il capo della missione, Jonathan Moore. Nell'attesa delle conclusioni di Corner, tuttavia, sembra chiaro a tutti che la strategia finora seguita non ha dato i risultati sperati.