La Bosnia Erzegovina e il conflitto negli anni '90. La post-fazione al libro di Cathie Carmichael A Concise History of Bosnia
Ottobre 2016. Sto scrivendo sulla Bosnia Erzegovina, incerta se quello che scrivo sarà un necrologio per un paese che sta per scomparire, oppure se è dettato solo dalla mia eccessiva ansia e dall’amore per il mio paese.
Negli ultimi venti anni la Bosnia Erzegovina è stata attaccata dall’interno, dai suoi figli, dai nazionalisti serbi e croato-bosniaci, che la ripudiano e la stanno distruggendo con la politica e l’ostruzionismo. Non rinunciano agli obiettivi bellici, vogliono dimostrare che è un paese che non sta in piedi e che va smembrato.
Spero che la Bosnia Erzegovina supererà anche questa crisi, come ci è riuscita nella sua storia millenaria continuando a vivere dopo il crollo di imperi e di regni, sopravvivendo a invasori e colonizzatori e continuando a esistere dopo conquiste, divisioni e sconfitte.
Tutti quelli che erano venuti per restarci per sempre non ci sono più. Tuttavia la Bosnia Erzegovina è rimasta lì dov’è sempre stata.
Ci sono nata in Bosnia Erzegovina, ci ho vissuto più di metà della mia vita. Fino al 1992 ero convinta di vivere in un paese solido, durevole, libero, forte e stimato. Il futuro mio e del mio paese mi appariva sicuro e prospero.
All’inizio della guerra nel 1992, sorpresa e indignata, come la maggior parte delle persone che conoscevo, dichiaravo "Questa non è la mia guerra!". L’aggressione era, secondo me, un equivoco, un atto barbaro, quelli che sparavano non erano altro che criminali comuni. Credevo che niente e nessuno mi avrebbe reso partecipe.
Ma quando ti bussano alla porta con i fucili, ti cacciano via dalla tua casa, dal tuo paese, ti mettono nei campi di concentramento, ti portano via i figli, uccidono, violentano, ti mettono sotto assedio e ti costringono a soffrire la fame, il freddo e a essere esposti a spari ed esplosioni continue, capisci per forza che – sì – è anche la tua guerra.
Ci abbiamo messo un po’ di tempo noi bosniaci musulmani, tutta la primavera e l’estate del 1992, a capire che eravamo il primo bersaglio e le principali vittime. Ma a quel punto, due terzi del territorio della Bosnia Erzegovina erano stati ormai occupati dai nazionalisti serbi e ripuliti dalla presenza dei musulmani bosniaci.
La comunità internazionale faceva piani per fermare la guerra accettando l’aggressione, le conquiste e la spartizione della Bosnia Erzegovina come un fait accompli. Erano state inviate le forze per mantenere la pace, che non c’era.
Consapevoli che l’aggressione e le conquiste serbe erano passate senza sanzioni, i croati si affrettarono a occupare una parte della Bosnia Erzegovina. Gli aggressori non avevano alcuna giustificazione né storica né territoriale. Quello che in Bosnia Erzegovina succedeva negli anni Novanta era il seguito delle vecchie pretese nazionalistiche.
La guerra in Bosnia Erzegovina non è stata un conflitto spontaneo, è stata eseguita seguendo un piano ben preciso, ideato e sostenuto dalla Serbia e poi dalla Croazia. Ad attaccarci erano proprio quelli che, fino al giorno prima, consideravamo i nostri fratelli. L’Armata Popolare Jugoslava (Jna) che avrebbe dovuto proteggerci, ci metteva sotto assedio e ci bombardava.
Tutti i pilastri su cui si poggia la sicurezza, l’indipendenza e la libertà di una persona, di una società o di un popolo non c’erano più.
Prima mi consideravo jugoslava, poi bosniaca e infine sono diventata un bersaglio. Puntavano il dito contro di me “musulmana”, accusandomi e condannandomi per questo.
Da un giorno all’altro non eravamo più i padroni di noi stessi né del nostro paese. Si discuteva della nostra vita e del nostro futuro e noi non avevamo alcuna voce in capitolo.
Il nostro destino veniva deciso da emissari che non ci conoscevano, da diplomatici e politici che tiravano le conclusioni basandosi su pregiudizi e cliché, dagli stati europei che basavano le proprie azioni sulle vecchie amicizie e alleanze tradizionali.
"Non farò mai, e poi mai la guerra ai serbi", dichiarò il presidente francese Mitterrand. Il diplomatico norvegese Thorvald Stoltenberg ripeteva quella che per i serbi era una giustificazione dell’aggressione: "I musulmani bosniaci sono, in effetti, serbi", mentre il Segretario generale dell’onu Boutros Boutros-Ghali liquidava la guerra in Bosnia Erzegovina dicendo che "è la guerra dei ricchi".
Traditi e attaccati dai fratelli credevamo, fermamente, che il mondo “grande e giusto” ci avrebbe aiutato e che sarebbe bastato solo informare i potenti di quello che stava succedendo, che ci stavano facendo. Io stessa telefonavo alle varie ambasciate e consolati a Belgrado per informarli!
Che inganno! Che illusione! Loro sapevano ancora meglio di noi, proprio come indica il titolo del libro This Time We Knew. Western Responses to Genocide in Bosnia di Thomas Cushman e Stjepan Meätrovic.
Gli autori del libro affermano che, a differenza dall’Olocausto del quale si diceva che “non sapevamo, e non potevamo reagire”, la guerra in Bosnia Erzegovina si è svolta letteralmente sotto i nostri occhi e che questa volta nessuno poteva dire “non sapevo”.
La nostra guerra fu seguita dai media mondiali più di qualsiasi altra guerra prima e dopo. Le immagini dei morti, dell’assedio, della pulizia etnica, dei campi di concentramento e infine del genocidio furono trasmesse in diretta TV. Eppure “il grande mondo”, per quasi quattro anni, continuò a ripetere che non si sapeva cosa stesse succedendo, che tutti erano ugualmente colpevoli, che si trattava delle solite tribù bellicose che si odiano e uccidono da sempre.
In Bosnia non c’erano le “parti coinvolte”. C’erano gli aggressori (i serbi e poi i croati) da una parte e le vittime (i musulmani bosniaci) dall’altra. Non eravamo tutti uguali: armati fino ai denti, ci attaccavano i serbi che si erano impossessati della maggior parte delle armi della quarta potenza militare in Europa, la Jna. Dall’altra parte c’erano i bosniaci musulmani, messi sotto assedio ancora prima che cominciasse il conflitto, disarmati, principalmente civili. Le prime armi le facevano utilizzando i pali della segnaletica stradale.
Conosco una persona che oggi fa il medico a Trieste, che, allora, a quindici anni, scambiava con gli amici le gomme da masticare per le pallottole che poi consegnava allo zio combattente sul fronte.
Anche quando i bosniaci avevano i carri armati, erano pezzi da museo, trofei della Seconda guerra mondiale. Nella città di Maglaj, nella Bosnia centrale, dieci mesi sotto l’assedio, l’unico carro armato era un T34 “che aveva i cingoli lisci come galosce” e l’unica granata in loro possesso non poteva essere lanciata dal carro armato.
Già nel 1993 le cancellerie europee, secondo le testimonianze, si mostrarono infastidite dalla resistenza dei musulmani. Nessuno si aspettava che i musulmani bosniaci avrebbero combattuto così disperatamente e che avrebbero resistito così a lungo. Si credeva, o sperava, che sarebbero stati sconfitti in un attimo, e che in questo modo la crisi si sarebbe risolta da sola.
Si continuava a parlare delle “parti coinvolte” anche quando i treni dei musulmani, cacciati dalle loro case e deportati, si ammassavano sul confine con l’Ungheria. Dicevano che non si sapeva cosa stesse succedendo anche davanti alle immagini dei campi di concentramento dove i musulmani bosniaci erano maltrattati, uccisi e fatti sparire. Già all’epoca gli europei chiudevano i confini davanti alle poche migliaia di rifugiati che riuscivano a scappare dall’inferno bosniaco; sostenevano che eravamo tutti uguali anche quando i serbi avevano conquistato Srebrenica e avevano compiuto il genocidio.
La solitudine dei bosniaci in quella guerra fu cosmica! Accerchiati, bombardati, abbandonati a sé stessi, sull’orlo dell’annientamento.
Tra i pochi che stavano dalla parte delle vittime c’erano i giornalisti. Il giornalista e scrittore americano David Rieff (autore del libro Slaughterhouse: Bosnia and Failure of the West) fu mandato in Bosnia dal suo giornale. Prima non sapeva nemmeno dell’esistenza della Bosnia, tanto meno che fosse abitata da musulmani europei autoctoni. Quando è arrivato sul posto si è accorto cosa stava succedendo e ha detto: “Questa non è una guerra, è un macello.”
La giornalista Janine di Giovanni dal «The Atlantic» spiega perché i giornalisti stessero dalla parte delle vittime: “… L’assedio aveva isolato i suoi abitanti dal resto del mondo. Abbiamo voluto mostrare alla gente di fuori i nostri colleghi bosniaci, così come i combattenti che difendevano la loro città sotto un penalizzante embargo sulle armi, la gente comune che sfuggiva dai colpi dei cecchini. C’era poca speranza che qualcuno venisse a salvarli, ma abbiamo pensato che se li avessimo lasciati anche noi, avremmo dato loro un chiaro segnale: che erano davvero abbandonati.”
La guerra degli anni novanta ha incoraggiato molti a scrivere sulla Bosnia Erzegovina, sulla sua storia, il suo popolo, le usanze, i costumi, la lingua, le religioni. Molti, spesso gli autoproclamati “orientalisti” o “esperti” si basavano su dati e documenti falsi, sviluppavano le teorie del complotto per giustificare l’aggressione, l’ostilità, o l’amicizia e l’ammirazione per gli altri. Andavano così lontano da collocare la Bosnia in Medio Oriente.
Non ci sono incognite sulla storia della Bosnia Erzegovina, ancora meno sulla guerra degli anni Novanta. Dopo sedici milioni di documenti, milioni di ore di testimonianze dei diretti interessati, delle vittime, degli assassini, dei soldati semplici e dei comandanti che rilasciavano gli ordini, non ci sono più incertezze.
Eppure ancora oggi, venticinque anni dopo la fine della guerra, spesso mi chiedono: "Non ho capito bene, cosa è successo veramente in Bosnia Erzegovina?".
Il libro di Cathie Carmichael A Concise History of Bosnia è in grado di fornire delle risposte.