Milorad Dodik, membro serbo della Presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina, ha lanciato una petizione contro la legge, voluta dall’ex Alto rappresentante Valentin Inzko, che vieta e punisce la negazione dei genocidi e la glorificazione dei criminali di guerra. Il commento del regista Dino Mustafić
(Originariamente pubblicato dal portale Tačno , il 26 luglio 2021)
Milorad Dodik, membro serbo della Presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina, ha lanciato, e firmato per primo, una petizione contro una legge [imposta lo scorso 23 luglio dall’ormai ex Alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina Valentin Inzko, ndt] che vieta e punisce la negazione dei genocidi e la glorificazione dei criminali di guerra. La storia ricorderà che le vittime della guerra in Bosnia Erzegovina hanno saputo distinguere tra collettività e criminali, mentre la leadership serba ha ostinatamente cercato di addossare al proprio popolo una colpa e una responsabilità collettiva. Se volgiamo lo sguardo indietro nel tempo, focalizzandoci sui fatti e sulle sentenze ad oggi emesse, risulta chiaro che la storia della fine del secolo scorso è segnata da un crimine accaduto sul territorio dell’odierna Republika Srpska, un’unità amministrativa riconosciuta dall’Accordo di pace di Dayton.
In Republika Srpska la società, intesa come una comunità di valori, non esiste affatto, a meno che con quel termine non si voglia indicare la riabilitazione istituzionalizzata dei criminali e la relativizzazione dei crimini che furono ideati come parte integrante di un’agenda finalizzata alla realizzazione del grande sogno di unire tutti i serbi dei Balcani [in un unico stato]. Considerando che ormai da anni assistiamo alla situazione in cui le forze politiche di maggioranza e di opposizione in Republika Srpska fanno a gara nello srbovanje [promozione dell’identità nazionale serba, ndt], glorificando i criminali, è chiaro che le sentenze emesse dal Tribunale dell’Aja non sono riuscite a far vacillare le categorie assiologiche (che fanno assurgere Mladić e Karadžić al rango di mitici eroi serbi) su cui poggia la cultura della menzogna e del negazionismo, diventata ormai parte integrante del discorso politico dominante in Republika Srpska.
Il primo sentimento che si prova osservando questi processi è la ripugnanza di fronte a palesi e fanatiche menzogne, inconciliabili con una ricostruzione dei fatti comprovata e ampiamente accettata. La Republika Srpska, la cui identità è fondata sui crimini di massa, ormai da quasi tre decenni porta avanti una battaglia contro la memoria, una propaganda di stampo orwelliano, falsificando i fatti e distorcendo la realtà, come se fosse possibile nascondere un male radicale.
L’appello rivolto da Dodik a tutti i serbi affinché sottoscrivano la summenzionata petizione, oltre ad essere un atto contro la civiltà, ha lo scopo di creare un documento ampiamente condiviso, seppur informale, a sostegno degli autori del genocidio di Srebrenica. Secondo lo psicologo Herbert C. Kelman , le inibizioni morali nei confronti delle atrocità possono essere indebolite da tre fattori, singolarmente o in combinazione tra loro: l’autorizzazione alla violenza (con ordini ufficiali impartiti da un’autorità legittima), la routinizzazione delle azioni violente (attraverso pratiche organizzate sulla base di regole e una precisa ripartizione di ruoli) e la disumanizzazione delle vittime (come conseguenza dell’indottrinamento ideologico). Tale formula fu adottata negli anni Novanta dalla leadership militare e politica della Republika Srpska, e ora Dodik, ricorrendo a una tattica simile, invita a battersi per la sopravvivenza del popolo [serbo] contribuendo alla fisionomia di quel male con cui l’entità della Republika Srpska si identifica pienamente. Anche alcuni esponenti dell’opposizione in Republika Srpska, come Branislav Borenović [leader del Partito del progresso democratico, PDP] e Mirko Šarović [leader del Partito democratico serbo, SDS], che si sforzano di fornire un’immagine di sé come di politici progressisti e liberali, invece di invitare al boicottaggio della petizione lanciata da Dodik, in quanto irrazionale e inumana, hanno deciso di unirsi alla follia nazionalista.
Sono certo che alcune persone comprenderanno che è un dovere morale respingere la petizione di Dodik che invita a creare nuove divisioni e apre la strada a nuove violenze. Dodik e i suoi seguaci incarnano quel primitivismo e quella barbarie che in tutte le norme di civiltà vedono un atteggiamento ostile nei confronti dei serbi. La petizione lanciata da Dodik è un’apoteosi politica e mediatica dei criminali, un triste riflesso del vero carattere dell’attuale regime in Republika Srpska. Un regime che conferma alcune affermazioni rivelatrici di Nenad Dimitrijević secondo cui “i membri del gruppo bersaglio non hanno alcun motivo di supporre che i valori e gli atteggiamenti che determinarono la decisione di compiere crimini non costituiscano più il fulcro dell’etica collettiva serba. I sopravvissuti non hanno alcun motivo di credere che noi [serbi] siamo diventati persone migliori”.
Una legge come quella imposta da Inzko doveva essere adottata molto tempo fa per fermare quelli che non accettano le sentenze e glorificano le persone responsabili dei peggiori crimini. La decisione di imporre modifiche legislative si è resa necessaria per porre fine ai tentativi di minare la convivenza in Bosnia Erzegovina, un paese dove il crimine di guerra è diventato un atto lodevole che rende santi i difensori del “proprio popolo”. Quindi i crimini di guerra non vengono intesi come fatti inconfutabili i cui autori non hanno diritto di partecipare alla vita politica, bensì come atti di cui andare fieri, da sfruttare per ottenere incarichi pubblici. Si continua a mentire, a negare i crimini e a nascondere le loro tracce allo scopo di istituzionalizzare la cultura della morte e della violenza. Questi negazionisti organizzano tavole rotonde sul cristianesimo, con la benedizione del clero. Così facendo, la Chiesa dimostra chiaramente di non avere nulla contro i crimini commessi in suo nome e nel suo interesse. Per di più, gli ambienti ecclesiastici considerano i crimini di guerra come atti eroici e, glorificando i criminali di guerra, diventano partecipi del male collettivo.
Hannah Arendt scrisse che [nella Germania nazista] la morale era crollata, riducendosi a meri mores – usi, costumi, convenzioni modificabili a piacimento – ma non a causa dei criminali, bensì delle persone comuni che, fino a quando le norme morali erano socialmente accettate, non sognavano nemmeno di metterle in dubbio.
Così si rafforza l’idea secondo cui “noi” abbiamo ragione, “noi” non abbiamo commesso crimini, ci siamo solo difesi. Non si riuscirà ad uscire da questa paralisi emozionale e patriottica finché l’attuale leadership politica continuerà a farsi fotografare con i suoi idoli di guerra e ad organizzare celebrazioni ufficiali per il compleanno di Ratko Mladić, finché Radovan Karadžić continuerà ad essere citato nei libri di testo e celebrato in versi durante le feste familiari, finché quelli che uccisero migliaia di persone innocenti continueranno ad essere definiti come difensori della propria nazione, finché si continuerà a pubblicare le loro memorie di guerra, a presentare i loro libri e a invitarli a partecipare alle trasmissioni televisive. Gli assassini godono di grande popolarità, sono persone famose, accettate dalla società, rappresentano le fondamenta stesse della Republika Srpska. Ecco perché molti ritengono che sostenere i criminali di guerra sia moralmente corretto e giustificato.
La petizione di Dodik è un attacco alla società civilizzata, intesa innanzitutto come forza morale, come un insieme di istituzioni che collaborano tra di loro e si completano a vicenda nell’instaurare un ordinamento giuridico e i principi dello stato di diritto allo scopo di preservare la pace sociale e politica e di tutelare la sicurezza e i diritti umani, diritti che oggi in Republika Srpska sono minacciati. L’idea secondo cui l’intero mondo civilizzato è contro i serbi si richiama all’ideologia di Milošević, il cui epilogo è ben noto. Dodik, infuriato e disorientato, sta portando il suo popolo e l’intera Republika Srpska verso un isolamento economico e politico.
I paesi balcanici devono capire che in Europa non c’è posto per la negazione dei genocidi, per il revisionismo e per la glorificazione dei criminali di guerra, fenomeni che si pongono in netto contrasto con i valori fondamentali europei. L’Unione europea è stata concepita come un progetto volto al superamento delle tragedie del passato. La Bosnia Erzegovina potrà avere un futuro solo se dimostrerà prontezza e volontà di avviare un processo di riconciliazione e di costruzione della fiducia reciproca tra i popoli. Questo presuppone l’esistenza di una società fondata sul principio di pluralismo, sulla giustizia, sul rispetto della dignità umana e sul coinvolgimento di tutti i cittadini nella costruzione di un futuro di pace in cui i conflitti e i crimini diventeranno impensabili. La tendenza ad assumere atteggiamenti giusti o sbagliati nei confronti dei crimini comporta delle conseguenze a lungo termine: conseguenze morali, sociali, culturali e politiche che segnano in modo decisivo ogni individuo e gruppo, ogni società e stato.
Eppure il criterio che ci permette di distinguere tra giusto e sbagliato è molto semplice. Ogni analisi degli eventi passati rivela un insieme di fatti e un sistema di valori inconfutabili. Nessuna “spiegazione” storica, culturale, ideologica o politica riuscirà a presentare un crimine come un atto privo di malvagità, o come qualcosa che non poteva essere evitato. Non ci sarà alcuna riconciliazione finché non si riuscirà ad ammettere l’esistenza dei crimini. La legge imposta da Inzko vieta e punisce la cultura della menzogna e del negazionismo, aprendo la strada alle politiche di pace e di fiducia reciproca. Questa è un’occasione per le nuove forze politiche che promuovono un linguaggio di riconciliazione e di convivenza per far diventare la società bosniaco-erzegovese parte del mondo civilizzato, facendola così uscire dall’oscurità e dalla vacuità di un abisso in cui intere generazioni sono imprigionate da catene di odio.