Il voto di oggi in Bosnia Erzegovina: operazione verità in un paese impoverito e ancora immerso in un conflitto non elaborato. Il fallimento di Dayton e l'imbroglio della deregolazione. Nei Balcani si gioca anche il futuro dell'Europa. Nostro commento

01/10/2006 -  Michele Nardelli

Questo articolo appare contemporaneamente su Osservatorio Balcani e Il Manifesto

Qualcuno le ha definite le prime vere elezioni del dopoguerra. E nella piccola Bosnia Erzegovina, cuore dei Balcani e a guardar bene dell'Europa, è come se il tempo si fosse fermato. Come se l'immagine di Milosevic, Tudjman e Izetbegovic - i firmatari di Dayton e "vincitori" di una stessa guerra - fosse stata scattata nella base militare dell'Ohio solo da qualche settimana e non invece undici anni fa. Come se tutto questo tempo avesse anestetizzato un paese lacerato che ora si risveglia in una campagna elettorale la cui brutalità è via via cresciuta, spaventando persino Christian Schwarz-Schilling, quell'Alto Rappresentante che fino a ieri faceva finta di nulla, ascrivendo l'asprezza dei toni ad una normale spinta demagogica tipica di quando si è a caccia di voti. Tanto che Zlatko Dizdarevic, uno dei protagonisti di quel giornale (Oslobodjenje) che si ostinò ad uscire nonostante i tre anni e mezzo di assedio di Sarajevo l'avessero ridotti in uno scantinato, ha recentemente scritto che «quanto si è visto in questa campagna non si era mai visto nemmeno alla vigilia delle prime e seconde elezioni del dopoguerra tenutesi all'ombra dei crimini, del sangue e dell'odio». (OB, 15 settembre 06)

Perché quelle del primo ottobre in Bosnia Erzegovina sono effettivamente le prime elezioni vere, senza cioè l'ombrello di un protettorato internazionale che, nel castello istituzionale costruito a Dayton, aveva l'ultima parola ed oggi in via di smobilitazione (ufficialmente avverrà il 30 giugno 2007). «Questa volta le neo-elette strutture - sono sempre parole di Dizdarevic - non avranno su di sé l'Alto Rappresentante e nemmeno certi freni imposti dall'esterno per opporsi alle orge dei politici locali. Le porte del paradiso per governare al modo balcanico si aprono di nuovo».

Così i due signori della guerra elettorale - Milorad Dodik e Haris Silajdzic - un tempo esempi di moderazione rispettivamente nel campo serbo e bosgnacco, hanno scelto di cavalcare la tigre del nazionalismo evocando il diritto all'autodeterminazione della Republika Srpska il primo e l'abolizione della stessa il secondo. E i sondaggi li danno come vincitori assoluti, avendo rubato il mestiere ai tradizionali partiti nazionalisti indicati invece in forte calo e spaccati, nel caso del vecchio HDZ croato-erzegovese.

Elezioni vere, che squarciano quel velo di ipocrisia fatto di parole politicamente corrette che gli internazionali amavano sentirsi dire e che l'ironia balcanica sapeva ben interpretare come nel film "Gori Vatra" ("Benvenuto Mr President"), quando nella cittadina bosniaca di Tesanj l'annunciata visita di Bill Clinton trasformò d'incanto i bordelli in centri di accoglienza per donne vittime di violenza.

E per certi versi si tratta anche di un'operazione verità, che ci riporta alla realtà di un paese che non si è lasciato alle spalle la tragedia degli anni '90, ciascuno chiuso nella propria narrazione degli avvenimenti. Un conflitto non elaborato, che ha lasciato infettare le ferite di una guerra entrata in ogni casa, che ha investito le identità culturali e nazionali ma che in realtà nascondeva i tratti di un imbroglio criminale e di potere. Una verità che ci parla di un paese segnato dall'impoverimento crescente tanto che lo scorso anno la Caritas internazionale descrisse una realtà peggiore che nell'immediato dopoguerra, con la demolizione di quel poco che rimaneva di stato sociale che ha portato i settori più vulnerabili della popolazione (specie le persone anziane) in condizioni di indigenza estrema. E che pure non ci deve trarre in inganno, perché la Bosnia di oggi non è affatto un paese povero. Un paese di poveri, semmai. Nella deregolazione sono infatti cresciute la criminalità economica, i traffici, gli affari delle privatizzazioni, i business legati allo sfruttamento delle risorse di un territorio ricchissimo d'acqua e di foreste e quello degli ipermercati, tipici esempi di un'economia finanziarizzata che trova nella regione balcanica un humus particolarmente favorevole.

Una verità che ci dice anche dell'inefficacia degli interventi della comunità internazionale, laddove aiuti e sostenibilità hanno fatto fatica ad incontrarsi, ma soprattutto di un'incapacità di leggere il presente accreditando l'idea di una "guerra etnica" senza scavare invece alle radici più profonde e vere di un conflitto profondamente immerso nella postmodernità. Che ci dice, ancora, del fallimento di Dayton, perché se è vero che dal '96 non ci sono stati incidenti di rilievo, è altrettanto vero che oggi la struttura della Bosnia Erzegovina è sostanzialmente quella della dislocazione degli eserciti di undici anni fa: uno stato diviso in due entità (Republika Srpska e Federacija BiH) e un distretto (Brcko), ognuna con il proprio parlamento, governo e primo ministro. E con una delle due entità, la Federacija, a sua volta divisa in dieci Cantoni che riproducono nei fatti un'ulteriore divisione fra croati e bosgnacchi, che si può toccare con mano in città come Mostar dove è tutto etnicamente diviso, tranne il nuovo ipermercato.

Quella stessa impasse internazionale che s'incontra nelle trattative sullo status del Kosovo, che pure si riverbera profondamente in tutta la regione e sulle elezioni bosniache in particolare. Perché tra gli argomenti che vengono usati per richiedere l'autodeterminazione della Republika Srpska sono il sostegno dato all'indipendenza del Montenegro ed il profilarsi dell'indipendenza del Kosovo. Una soluzione unilaterale nelle trattative sullo status del Kosovo che portasse all'indipendenza di questa regione, aprirebbe le porte a quell'effetto domino di cui si va parlando da mesi (e che investirebbe oltre alla Bosnia anche la Macedonia), riportando i Balcani sull'orlo di una nuova tragedia.

La proposta di autodeterminazione della RS rappresenta una risposta uguale e contraria, comunque irresponsabile. «Sarajevo come Teheran» dice Dodik, e dovrebbe sapere di giocare con il fuoco. Altrettanto irresponsabilmente, il partito di Silajdzic (Stranka Za BiH - Partito per la Bosnia Erzegovina) avverte che «chi non accetta il modello di una Bosnia multiculturale e unitaria (BIH 100% è lo slogan elettorale, ndr), sceglie la guerra». Sembra di essere ripiombati nelle parole degli anni '90, per l'autismo di chi in Bosnia non sa o non vuole uscire dallo schema che portò alla guerra, per l'incapacità (o la superficialità) di una comunità internazionale che non sa proporre una soluzione politica per l'intera regione.

Un anno fa, proprio su questo giornale, parlai di uno scatto di fantasia che avrebbe dovuto avere la politica nell'affrontare la questione del Kosovo, proponendo l'idea di uno status speciale per il Kosovo quale prima regione europea. Nel frattempo la situazione in questi paesi si è ancor più deteriorata e l'Europa sta marciando a ritroso, sotto i colpi della chiamata alle armi di Bush e di quell'idea degli "Stati Uniti d'Europa", vale a dire di una gigantesca zona di libero scambio priva di unità politica e costituzionale, che poi sarebbe l'esatto contrario dell'Unione Europea. Che sta bene ai signori delle guerre e degli affari (anche nostrani) che affollano l'est europeo. Sarebbe forse utile riprendere la questione, prima che sia troppo tardi.

Intanto, l'esito praticamente scontato delle elezioni di oggi ci consegnerà un paese "sull'orlo della catastrofe", come ha scritto il settimanale sarajevese "Dani". Così, tanto per confermare che nei Balcani ci giochiamo l'Europa.